Sup, 92

Terza parte e Supplemento > Il fine della vita immortale > La visione dell'essenza divina da parte dei beati


Supplemento
Questione 92
Proemio

Rimane ora da esaminare quanto riguarda i beati dopo il giudizio finale. Primo, la loro visione dell'essenza divina, in cui principalmente consiste la loro beatitudine; secondo, la loro beatitudine e le loro mansioni; terzo, il loro atteggiamento verso i dannati; quarto, le doti incluse nella loro beatitudine; quinto, le aureole con le quali tale beatitudine verrà decorata.
Sul primo argomento si pongono tre quesiti:

1. Se i santi vedranno Dio per essenza;
2. Se lo vedranno con gli occhi del corpo;
3. Se nel vedere Dio vedranno tutto quanto vede Dio stesso.



Terza parte e Supplemento > Il fine della vita immortale > La visione dell'essenza divina da parte dei beati > Se l'intelletto umano possa giungere a vedere Dio per essenza


Supplemento
Questione 92
Articolo 1

SEMBRA che l'intelletto umano non possa giungere a vedere Dio per essenza. Infatti:
1. Nel Vangelo si legge: "Dio non l'ha mai veduto nessuno". E il Crisostomo spiega che neppure gli spiriti celesti, ossia neppure i Cherubini e i Serafini, hanno mai potuto vederlo così com'è. Ora, agli uomini non è promessa che l'uguaglianza con gli angeli: "Saranno come gli angeli di Dio in cielo". Dunque neppure i santi in paradiso vedranno Dio per essenza.
2. Dionigi così argomenta nel De Divinis Nominibus. La conoscenza non ha altro oggetto che le cose esistenti. Ma ogni esistente è finito: essendo in qualche genere determinato. Perciò, Dio essendo infinito, è "sopra tutte le cose esistenti". Quindi egli non è oggetto di conoscenza, ma supera ogni conoscenza.
3. Nel De Mystica Theologia Dionigi dimostra che il modo più perfetto in cui la nostra intelligenza può unirsi a Dio sta nell'unirsi a lui come a uno sconosciuto. Invece quanto è veduto per essenza non è sconosciuto. Dunque è impossibile che il nostro intelletto possa vedere Dio per essenza.
4. Scrivendo al monaco Caio, Dionigi afferma che "le tenebre che coprono Dio", da lui denominate "sovrabbondanza di luce", "oscurano ogni lume e si nascondono a ogni conoscenza: e se uno vedendo Dio intende quello che vede, non vede lui, ma qualcuno dei suoi effetti". Perciò nessun intelletto creato potrà vedere Dio per essenza.
5. A Ieroteo inoltre egli scrive: "Dio rimane invisibile per l'eccesso del suo splendore". Ma il suo splendore come sorpassa l'intelligenza dell'uomo viatore, sorpassa anche quella dell'uomo che ha raggiunto la patria. Dio quindi, come è invisibile sulla terra sarà invisibile anche nella patria beata.
6. L'oggetto intelligibile, essendo la perfezione dell'intelletto, esige proporzione tra intelligibile e intelletto come tra l'oggetto visibile e la vista. Ora, non si scorge nessuna possibile proporzione tra l'intelletto nostro e l'essenza divina: perché sono distanti all'infinito. Perciò il nostro intelletto non può giungere a vedere l'essenza divina.
7. È più lontano Dio dal nostro intelletto che un oggetto intelligibile creato dal senso. Ma il senso in nessun modo può giungere a vedere una creatura spirituale. Dunque neppure il nostro intelletto potrà giungere a vedere l'essenza di Dio.
8. L'intelletto ogni qual volta intende attualmente un oggetto esige di assumere come forma l'immagine della cosa conosciuta, forma che diviene come il principio di quell'atto intellettivo determinato rispetto a quell'oggetto, come il calore è principio del riscaldamento. Perciò il nostro intelletto per intendere Dio dovrebbe essere attuato da un'immagine che informi l'intelletto stesso. Ora, questa non può essere la stessa essenza divina, perché tra forma e soggetto informato c'è unità di essere; e la divina essenza differisce dal nostro intelletto e nell'essenza e nell'essere.
Dunque è necessario che la forma informante il nostro intelletto nell'intendere Dio sia un'immagine, o somiglianza che Dio imprime nella nostra intelligenza. Ma codesta somiglianza, essendo qualche cosa di creato, non può condurre a conoscere Dio se non come un effetto rispetto alla sua causa. Dunque è impossibile che il nostro intelletto veda Dio, se non mediante i suoi effetti. Ma la visione di Dio dai suoi effetti non è visione di Dio per essenza. Quindi il nostro intelletto non potrà vedere Dio per essenza.
9. L'essenza divina è distante dal nostro intendimento più di qualsiasi angelo o intelligenza [creata]. Eppure, come dice Avicenna, la presenza di un'intelligenza angelica nel nostro intelletto non implica che la sua essenza sia nell'intelletto (perché allora la nostra conoscenza di tali intelligenze sarebbe una sostanza e non un accidente); ma implica che una specie impressa, o immagine dell'intelligenza suddetta, si trovi nel nostro intelletto.
Perciò neppure Dio è nel nostro intelletto: cosicché per essere conosciuto da noi è indispensabile una sua immagine in esso. Ma codesta immagine non può portare l'intelletto a conoscere l'essenza divina; perché distandone infinitamente degenererebbe in una specie intenzionale diversa, molto peggio che se l'immagine del bianco degenerasse nell'immagine del nero. Perciò, come colui nella cui vista il bianco si cambia in nero per l'indisposizione dell'organo non si può dire che veda il bianco, così il nostro intelletto, che conosce Dio solo mediante codesta immagine impressa, non potrà vedere Dio per essenza.
10. "Negli esseri separati dalla materia c'è identità tra chi intende e l'oggetto conosciuto", come spiega Aristotele. Ora, Dio è la realtà più lontana dalla materia. Perciò, non potendo l'intelletto creato giungere ad essere l'essenza increata, è impossibile che il nostro intelletto veda Dio per essenza.
11. Di tutto ciò che si vede per essenza si conosce la quiddità. Invece di Dio il nostro intelletto non è in grado di vedere "che cosa è", ma solo "ciò che non è", come si esprimono Dionigi e il Damasceno. Dunque il nostro intelletto non può vedere Dio per essenza.
12. "Ogni infinito in quanto infinito è sconosciuto". Ora, Dio è infinito in tutti i modi. Perciò è del tutto sconosciuto. Quindi non può essere conosciuto per essenza da un intelletto creato.
13. S. Agostino afferma: "Dio è nella sua natura invisibile". Ma le cose che appartengono a Dio per natura non possono essere diversamente. Dunque è impossibile che egli possa essere veduto per essenza.
14. Tutto ciò che apparisce diverso da quello che è, non è visto così com'è. Ora, in Dio il modo di essere non è il modo di esser veduto dai santi nella patria beata: infatti egli è secondo il proprio modo di essere, mentre è veduto dai santi secondo il loro modo di conoscere. Perciò egli non è veduto dai santi secondo il proprio modo di essere. E quindi non è veduto per essenza.
15. Ciò che è veduto attraverso un mezzo non è veduto per essenza. Ma nella patria Dio sarà veduto attraverso un mezzo, che è la luce della gloria, come è espresso dalle parole del Salmista: "Nella tua luce vedremo la luce". Dunque egli non sarà veduto per essenza.
16. Nella patria beata Dio sarà veduto "faccia a faccia", come dice S. Paolo. Ora, l'uomo che vediamo faccia a faccia lo vediamo mediante una sua immagine eidetica. Perciò in patria vedremo Dio mediante un'immagine. E quindi non per essenza.

IN CONTRARIO: 1. S. Paolo afferma: "Ora vediamo oscuramente come in uno specchio, allora invece lo vedremo faccia a faccia". Ma quel che vediamo faccia a faccia è veduto per essenza. Dunque nella patria Dio dai santi sarà veduto per essenza.
2. Sta scritto: "Quando apparirà saremo simili a lui, e lo vedremo cosi com'è". Quindi Dio lo vedremo per essenza.
3. A proposito di quel testo paolino, "Quando avrà consegnato il regno a Dio Padre", la Glossa spiega: "Là", ossia nella patria, "sarà veduta l'essenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: il che sarà concesso solo ai puri di cuore, e costituisce la beatitudine suprema". Perciò i beati vedranno Dio per essenza.
4. Nel Vangelo si legge: "Se uno mi ama, sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e gli manifesterò me stesso". Ora, quello che viene manifestato è visto per essenza. Dunque Dio in patria sarà veduto dai santi per essenza.
5. Nel commentare le parole dell'esodo: "Nessun uomo mi vedrà, e poi rimarrà vivo", S. Gregorio respinge l'opinione di coloro i quali affermavano che "nella regione della beatitudine sarà possibile vedere Dio nella sua chiarezza, ma non nella sua natura", perché "la sua chiarezza altro non è che la sua natura". Ma la natura di Dio non è che la sua essenza. Quindi egli sarà veduto per essenza.
6. È assolutamente impossibile che venga frustrato il desiderio dei santi. Ma è comune desiderio dei santi vedere Dio per essenza; infatti nell'Esodo si legge: "Mostrami la tua gloria"; nei Salmi: "Mostraci la tua faccia e avremo la salvezza"; e nel Vangelo: "Mostraci il Padre e ci basta". Dunque i santi dovranno vedere Dio per essenza.

RISPONDO: Come noi, in conformità con la fede, affermiamo che l'ultimo fine della vita umana è la visione di Dio, così i filosofi hanno affermato che l'ultima felicità dell'uomo è intendere le sostanze separate, nel loro essere, dalla materia. Perciò nella questione presente si riscontrano le stesse difficoltà e varietà di opinioni, sia presso i filosofi che presso i teologi. Ebbene, alcuni filosofi pensarono che il nostro intelletto possibile non possa mai giungere a intendere le sostanze separate: tale è l'affermazione di Alfarabi al termine della sua Etica; sebbene altrove dica il contrario, come riferisce Averroè. Parimente alcuni teologi ritennero che l'intelletto umano non possa mai giungere a vedere Dio per essenza. Gli uni e gli altri furono spinti a questo dalla distanza esistente tra l'intelletto nostro e l'essenza divina, o le altre sostanze separate. "L'intelletto in atto", essendo infatti in qualche modo un'unica cosa con "l'intelligibile in atto", sembra difficile che un intelletto creato diventi in qualche modo l'essenza increata. Di qui le parole del Crisostomo: "In che modo un essere creato vedrà l'increato?". - La difficoltà è anche maggiore per coloro che ritengono l'intelletto possibile soggetto alla generazione e alla corruzione, quale facoltà dipendente dal corpo, non solo rispetto alla visione dell'essenza divina, ma rispetto alla visione di qualsiasi sostanza separata.
Quest'ultima opinione però è del tutto insostenibile. Primo, perché incompatibile con i testi della sacra Scrittura, come notava già S. Agostino. - Secondo, perché essendo l'intellezione l'operazione più propria e specifica dell'uomo, è necessario che in base ad essa ne venga determinata la beatitudine, quando cioè l'intellezione raggiunge in lui la perfezione. Ora, poiché la perfezione di chi intende sia in quanto tale l'oggetto stesso intelligibile, se nella sua operazione intellettiva più perfetta l'uomo non giungesse a vedere l'essenza divina, ma un altro oggetto, bisognerebbe dire che a rendere beato l'uomo sia codesto oggetto e non Dio.
E poiché l'ultima perfezione di ogni essere consiste nel ricongiungersi al proprio principio, che bisognerà dire che principio efficiente dell'uomo sia stato non Dio, ma un altro essere. Cosa questa assurda per noi. Così pure è assurda per i filosofi i quali ritengono che le nostre anime emanino dalle sostanze separate, delle quali in fine possiamo avere l'intellezione. Perciò secondo noi [credenti] è necessario ammettere che il nostro intelletto finalmente giungerà a vedere l'essenza divina; e secondo i filosofi giungerà a vedere l'essenza delle sostanze separate.
Rimane ora da indagare come ciò possa essere. Alcuni infatti, come Alfarabi ed Avampace affermano che dal momento che il nostro intelletto intende tutto ciò che è intelligibile, deve giungere a vedere l'essenza delle sostanze separate. E per dimostrarlo usano due argomentazioni. La prima parte dal fatto che, come la natura specifica non viene suddivisa nei diversi individui, se non in quanto viene a combinarsi con i principii individuanti, così la forma percepita intellettualmente dall'uomo non è diversa in me e in te, se non in quanto è legata alle diverse forme immaginative [di ciascuno]. Perciò quando l'intelletto astrae la forma intelligibile dalle forme immaginative, non rimane che la quiddità intellettiva astratta, la quale è una e identica per tutti i soggetti dotati d'intelligenza. Tale è la quiddità delle sostanze separate. Quando perciò il nostro intelletto raggiunga il massimo di astrazione per qualsiasi quiddità intelligibile, viene a intendere per ciò stesso la quiddità della sostanza separata che è simile ad essa. - La seconda argomentazione insiste nel sottolineare che il nostro intelletto è fatto per astrarre la quiddità da tutti gli esseri intellegibili che la possiedono. Se dunque la quiddità che esso astrae da questo singolare che la possiede è già una quiddità in se stessa, nell'intenderla non si fa che percepire la quiddità di una sostanza separata dotata di tale modo di essere: poiché le sostanze separate sono quiddità sussistenti prive di quiddità.
Infatti, come dice Avicenna, "la quiddità di ciò che è semplice è il semplice stesso". Se invece la quiddità astratta da questo particolare essere sensibile è una quiddità dotata di quiddità, l'intelletto è fatto per astrarla. E allora, siccome non si può procedere all'infinito, si dovrà giungere a una quiddità priva di quiddità, mediante la quale si viene a intendere la quiddità separata.
Ma queste spiegazioni non sembrano sufficienti. Primo, perché la quiddità delle sostanze materiali che l'intelletto astrae non ha la stessa natura delle quiddità delle sostanze separate. E per il fatto che il nostro intelletto astrae le quiddità delle cose materiali e le conosce, non ne segue che conosca la quiddità di una sostanza separata, e soprattutto dell'essenza divina, che ha una natura del tutto diversa da qualsiasi quiddità creata. - Secondo, dato anche che avessero in comune una stessa natura, tuttavia conoscendo la quiddità di una cosa composta non si verrebbe a conoscere la quiddità di una sostanza separata, se non secondo il genere remotissimo che è la sostanza. Ora, tale conoscenza è imperfetta, se non si giunge ai dati propri di quel dato oggetto: chi infatti conosce l'uomo solo in quanto animale, lo conosce solo in modo parziale e potenziale, e molto meno lo conoscerebbe se ne conoscesse solo la sua natura di sostanza. Perciò conoscere Dio o le altre sostanze separate in tal modo, non significa vedere l'essenza divina, o la quiddità delle sostanze separate: ma significa conoscerli dagli effetti, e quasi "in uno specchio".
Ecco perché Avicenna ha escogitato un'altra via per intendere le sostanze separate: queste cioè sarebbero conosciute intellettualmente da noi mediante intenzioni o idee che rispecchiano la loro quiddità, e che sono immagini di esse, non astratte, perché si tratta di realtà in se stesse immateriali, ma impresse dalle sostanze stesse nelle nostre anime.
Ma anche questa spiegazione non ci sembra sufficiente per giungere alla visione di Dio, di cui ci stiamo interessando. È infatti evidente che "tutto ciò che si riceve è ricevuto alla maniera del recipiente". Perciò la somiglianza dell'essenza divina che viene impressa nel nostro intelletto, sarà adeguata alla maniera del nostro intelletto. Ora, quest'ultima è inadeguata alla recezione perfetta della somiglianza divina. D'altra parte questa inadeguatezza può dipendere da tutti quei motivi che possono provocare una dissomiglianza. La somiglianza prima di tutto è inadeguata quando la forma viene partecipata secondo l'identica natura della specie, ma non secondo il medesimo grado di perfezione: la somiglianza nella bianchezza, p. es., è inadeguata in un soggetto dotato di poca bianchezza rispetto a quello che è molto bianco.
Si ha poi una inadeguatezza anche maggiore, quando non si raggiunge l'identica natura specifica, ma solo quella generica; cioè come la somiglianza esistente tra colui che ha il colore del limone e chi ha il colore bianco. C'è finalmente un grado sommo di inadeguatezza, quando l'identità generica è raggiunta solo secondo un'analogia: ossia come c'è somiglianza tra la bianchezza e l'uomo per il fatto che entrambi sono enti. Ebbene, in quest'ultimo modo è inadeguata qualsiasi somiglianza che si riscontra nella creatura rispetto all'essenza divina. Ora, la vista per conoscere il bianco è necessario che riceva la somiglianza, o immagine del bianco secondo la natura specifica del bianco (sebbene non secondo l'identico modo di essere, poiché la forma nel senso ha un modo di essere diverso da quello esistente nelle cose fuori del soggetto); se infatti si producesse nell'occhio la forma del giallo, non si potrebbe dire che l'occhio vede la bianchezza. Parimente, affinché l'intelletto possa intendere una quiddità, bisogna che si produca in esso una somiglianza dell'identica natura specifica: sebbene il modo di essere non sia identico. Infatti la forma esistente nell'intelletto o nel senso è principio di conoscenza non secondo il medesimo modo di essere, ma secondo la natura o ragione, che codesta forma ha in comune con la realtà esterna. È quindi evidente che attraverso nessuna immagine ricevuta in un intelletto creato Dio può essere conosciuto in modo da potersi vedere immediatamente la sua essenza. Ecco perché alcuni, pur ammettendo che Dio è visibile in codesto modo, hanno affermato che si avrà la visione non dell'essenza divina, ma di un fulgore o di un raggio della medesima. Quindi neppure questo basta per la visione di Dio di cui stiamo trattando.
Perciò si deve accettare un'altra spiegazione, escogitata anche da alcuni filosofi, quali Alessandro [di Afrodisia] ed Averroè. Posto che in qualsiasi cognizione è necessaria una forma mediante la quale l'oggetto viene conosciuto o visto, codesta forma, con la quale l'intelletto è in grado di vedere le sostanze separate, non è certamente la quiddità che l'intelletto astrae dalle cose composte, come diceva la prima opinione; e neppure è un'impronta lasciata nell'intelletto nostro dalla sostanza separata, come diceva la seconda; ma è la stessa sostanza separata che viene a unirsi al nostro intelletto come forma, in modo che essa sia insieme l'oggetto e il mezzo col quale si compie codesta intellezione. Checché ne sia delle altre sostanze separate, tuttavia noi dobbiamo accettare tale spiegazione nel caso della visione di Dio per essenza: perché, se il nostro intelletto venisse informato con qualsiasi altra forma, non potrebbe giungere con essa a percepire l'essenza divina.
Questo però non deve intendersi nel senso che l'essenza divina diventi realmente la forma propria del nostro intelletto; oppure nel senso che l'unione di essa col nostro intelletto costituisca un'unica realtà in senso assoluto, come avviene nel mondo fisico per l'unione tra materia e forma. Poiché, ogni qualvolta due cose di cui l'una è più perfetta dell'altra vengono ricevute nel medesimo supposito, il loro rapporto, cioè la relazione tra la più perfetta e la meno perfetta, è come il rapporto tra materia e forma. Luce e colore, p. es., vengono ricevuti insieme in un corpo diafano: ebbene, la luce sta al colore come la forma sta alla materia. Analogamente, quando nell'anima vengono insieme ricevute la luce intellettuale e l'essenza stessa di Dio che inabita in essa, sebbene secondo gradi diversi, l'essenza divina sta all'intelletto come la forma sta alla materia.
E che ciò basti a che l'intelletto mediante l'essenza divina sia in grado di vedere codesta essenza medesima, si può spiegare nel modo seguente. Come dalla materia e da una forma di ordine fisico in forza della quale un corpo riceve l'esistenza, risulta una realtà unica in senso assoluto, così dalla forma con cui l'intelletto conosce e l'intelletto medesimo risulta una realtà unica come atto conoscitivo. Ora, nel mondo fisico una realtà per sé sussistente non può esser forma di una materia, se codesta realtà è già composta di materia: perché è impossibile che la materia sia forma di un qualsiasi essere. Se invece la realtà per sé sussistente è forma soltanto, niente impedisce che possa diventare forma di qualche materia, ed elemento costitutivo di un composto, come è evidente nel caso dell'anima umana. Ebbene, nell'intellezione si deve considerare come materia l'intelletto stesso in potenza, come forma la specie intelligibile, e l'intelletto in atto sarà allora come il loro composto. Se quindi esiste una realtà per sé sussistente, la quale non abbia in se stessa niente all'infuori di quanto in essa è intelligibile, tale realtà potrà fungere da forma mediante la quale si ha l'intellezione. Ora, ogni cosa è intelligibile per quanto è in atto, non per quanto in essa c'è di potenzialità, come spiega Aristotele: segno di ciò è il fatto che la forma intelligibile va astratta dalla materia e da tutte le proprietà della materia. Perciò l'essenza divina, essendo puro atto, potrà essere la forma con la quale l'intelletto compie l'intellezione. E questa sarà appunto la visione beatifica. Ecco perché il Maestro afferma nelle Sentenze, che l'unione tra l'anima e il corpo è un'"analogia dell'unione beata in cui lo spirito si unirà a Dio".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quel testo evangelico, come nota S. Agostino, può essere spiegato in tre modi. Primo, in maniera da escludere la visione corporea, con la quale nessuno ha mai visto Dio, o vedrà nella sua essenza. - Secondo, in modo da escludere la visione intellettiva di Dio per essenza, da parte di coloro che vivono questa vita mortale. - Terzo, in modo da escludere la visione di comprensione da parte di un intelletto creato.
Ed è così che lo interpreta il Crisostomo. Egli infatti aggiunge: "Per conoscenza qui" l'Evangelista "intende tutta quella percezione e comprensione certissima che il Padre ha del Figlio". E questo è il senso inteso dall'Evangelista, il quale aggiunge: "L'unigenito che è nel seno del Padre..."; volendo così dimostrare dalla visione comprensiva ed esauriente, che il Figlio è Dio.
2. Dio, come con la sua essenza infinita sorpassa tutte le cose esistenti che hanno un essere determinato, così con la sua conoscenza sorpassa qualsiasi cognizione. Perciò tra la conoscenza di Dio e la sua cognizione c'è lo stesso rapporto che c'è tra la nostra conoscenza e gli enti creati. Ora, alla conoscenza concorrono due cose: il soggetto conoscente e il mezzo col quale conosce. Ebbene, la visione con la quale vedremo Dio per essenza quanto al mezzo conoscitivo è identica a quella con la quale Dio vede se stesso: poiché come egli vede se stesso mediante la propria essenza, così lo vedremo anche noi. Ma quanto al soggetto conoscitivo c'è la differenza che passa tra l'intelletto divino e il nostro. Nell'atto conoscitivo però ciò che si conosce dipende dalla forma mediante la quale si conosce, poiché è mediante la forma o immagine della pietra che vediamo la pietra; l'efficacia invece di codesto atto dipende dalla virtù del soggetto conoscente, cosicché chi ha una vista più acuta vede più distintamente. Perciò nella visione suddetta noi vedremo ciò che Dio vede, cioè la sua essenza, però non la vedremo con la medesima efficacia.
3. In quel testo Dionigi parla della conoscenza che di Dio noi abbiamo nella vita presente mediante una qualche immagine creata, di cui il nostro intelletto si serve per conoscerlo. Ora, come nota S. Agostino, Dio sfugge a qualsiasi immagine del nostro intelletto: perché qualunque immagine questo concepisca, non può questa raggiungere l'intima natura dell'essenza divina. Perciò Dio non può essere alla portata del nostro intelletto: ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che l'intelletto nostro è capace di concepire; cosicché ci uniamo a lui come a uno sconosciuto. Ma nella patria beata vedremo Dio mediante la forma che è la sua stessa essenza, e ci uniremo a lui come a uno che si conosce.
4. Secondo l'espressione evangelica, "Dio è luce". Il lume invece è piuttosto il riflesso della luce su di un soggetto illuminato. E poiché l'essenza divina è d'altro genere rispetto a qualsiasi sua immagine impressa nell'intelletto, Dionigi afferma che "le tenebre divine oscurano ogni lume": questo perché l'essenza divina, che egli denomina tenebra per l'eccesso del suo splendore, rimane inevidente attraverso l'immagine che può riceverne l'intelletto nostro. Di qui segue che "si nasconde a ogni cognizione". Perciò chiunque nel vedere Dio concepisce mentalmente qualche cosa, questo qualcosa non è Dio, ma uno degli effetti di Dio.
5. Sebbene lo splendore di Dio sorpassi ogni immagine che informa attualmente l'intelletto, non sorpassa però l'essenza stessa di Dio, che nella patria beata avrà la funzione di forma per il nostro intelletto. Ecco perché, sebbene adesso codesta essenza sia invisibile, allora sarà visibile.
6. Anche se tra finito e infinito non ci può essere proporzione, perché l'eccedenza dell'infinito sul finito non è determinata, tuttavia può esserci tra loro proporzionalità, che è una somiglianza tra proporzioni: infatti come il finito sta a qualche cosa di finito, cosi l'infinito sta all'infinito. Ora, perché una cosa sia totalmente conosciuta talora si richiede che ci sia proporzione tra conoscente e conosciuto: perché la virtù del soggetto conoscente dev'essere adeguata alla conoscibilità dell'oggetto; e l'uguaglianza è appunto una proporzione. Talora invece la conoscibilità dell'oggetto è proporzionata alla virtù del soggetto conoscente, come quando noi conosciamo Dio; o al contrario come quando Dio conosce le creature. In tal caso non è necessario che ci sia proporzione tra conoscente e conosciuto, ma basta una proporzionalità: in modo cioè che il soggetto conoscente stia alla capacità di conoscere, come il soggetto conoscibile sta alla sua capacità di essere conosciuto. E tale proporzionalità è sufficiente perché l'infinito sia conosciuto dal finito, e viceversa.
Oppure si può rispondere che il termine proporzione secondo la sua accezione originaria indica il rapporto di una quantità all'altra, secondo un determinato scarto o una determinata adeguazione; ma in seguito è passato a indicare un rapporto qualsiasi esistente tra una cosa e un'altra. In tal senso si dice, p. es., che la materia deve essere proporzionata alla forma. Ebbene, in tal senso niente impedisce che il nostro intelletto, sebbene finito, possa dirsi proporzionato alla visione dell'essenza divina: non però ad averne la comprensione, data la sua immensità.
7. Ci sono due tipi di somiglianza e di lontananza. La prima basata sull'affinità di natura. E in base a questa è più lontano Dio dall'intelletto creato di quanto un intelligibile creato non sia lontano dal senso. - La seconda è basata su di una proporzionalità. E allora si riscontra il contrario: perché il senso non ha nessuna proporzione a conoscere un oggetto immateriale, mentre l'intelletto è proporzionato a conoscere qualunque realtà immateriale. Ed è questa affinità che si richiede per conoscere, e non la prima: poiché è evidente che nell'intendere la pietra l'intelletto non diviene simile alla pietra secondo il suo essere fisico. Del resto anche la vista percepisce sia il miele che il fiele di colore rossiccio, mentre non può percepire il primo come dolce; questo perché rispetto alla vista il colore del fiele è più affine al miele, di quanto la dolcezza del miele non sia affine al miele stesso.
8. Nella visione di Dio per essenza l'essenza divina stessa sarà come la forma, o l'immagine mediante la quale l'intelletto compirà il proprio atto. Né per questo tale forma verrà a costituire con l'intelletto un unico essere in senso assoluto: ma saranno un'unica cosa con esso solo rispetto all'atto d'intellezione.
9. In questo non possiamo accettare l'affermazione di Avicenna: perché anche altri filosofi ne respingono l'opinione. A meno che non si voglia dire che Avicenna intendeva parlare della conoscenza delle sostanze separate, che si ha mediante gli abiti delle scienze speculative, ricavandole dalle immagini di altre cose. Ecco perché si serve di questo argomento per dimostrare che il sapere in noi non è sostanza, ma accidente.
Dopo tutto però l'essenza divina, pur essendo più lontana dal nostro intelletto, secondo la sua propria natura, che la sostanza dell'angelo, tuttavia è superiore a questa quanto a intelligibilità: perché è atto puro, senza nessuna mescolanza di potenzialità, il che non si riscontra nelle altre sostanze separate. Né la cognizione in cui vedremo Dio per essenza sarà un accidente da parte dell'oggetto che vedremo; ma solo da parte dell'atto del soggetto conoscente, il quale non sarà la sostanza stessa né del conoscente né del suo oggetto d'intellezione.
10. Una sostanza separata dalla materia ha l'intellezione di sé e delle altre cose: e in tutti e due i casi si riscontra la verità dell'affermazione riferita. Infatti l'essenza delle sostanze separate, essendo per se stessa intelligibile in atto, perché separata dalla materia, è evidente che quando codeste sostanze intendono se stesse, c'è identità perfetta tra il soggetto intellettivo e il suo oggetto: perché esse non intendono mediante un'idea astratta da loro, così come intendiamo noi le cose materiali. Questo perciò sembra il significato di quel testo del Filosofo.
In quanto poi esse intendono le altre cose l'oggetto intelligibile in atto è identico con l'intelligenza in atto, in quanto la forma dell'oggetto concepito diventa la forma dell'intelligenza nella sua attualità, ma ciò non nel senso che sia l'essenza medesima dell'intelletto, come nota Avicenna; poiché l'essenza dell'intelletto rimane unica sotto due forme nell'intendere successivamente due cose, esattamente come la materia prima rimane unica sotto le diverse forme [successive]. Ecco perché Averroè in questo paragona l'intelletto possibile alla materia prima. Quindi non segue in nessuna maniera che il nostro intelletto nel vedere Dio debba diventare l'essenza divina: ma che l'essenza divina sarà per esso come la sua perfezione e la sua forma.
11. I testi cui si accenna, e tutti gli altri consimili, vanno riferiti alla conoscenza che abbiamo di Dio nella vita presente, per le ragioni già esposte.
12. L'infinito in senso privativo è in quanto tale sconosciuto: poiché una cosa è detta infinita in tal senso per l'eliminazione di ciò che le dà completezza e quindi conoscibilità. Cosicché codesto infinito si riduce alla materia soggetta alla privazione, come spiega Aristotele. - Ma l'infinito in senso negativo va concepito mediante eliminazione di ogni materia coartante: perché anche la forma viene in qualche modo delimitata dalla materia. Ecco perché questo infinito di suo è sommamente conoscibile. E Dio è un infinito di questo genere.
13. S. Agostino parla della visibilità corporale, che non potrà mai essere attribuita a Dio. Ciò è evidente dal testo che precede "Nessuno ha mai veduto Dio nella maniera che vediamo e denominiamo le cose visibili; egli è per natura invisibile come è incorruttibile". Però come per natura egli è sommamente ente, così di suo è sommamente intelligibile: ma che talora non sia conosciuto da noi dipende dalla nostra incapacità. Il fatto quindi che egli venga veduto da noi dopo un periodo d'invisibilità dipende da una mutazione non da parte sua, ma da parte nostra.
14. Nella patria beata Dio sarà visto dai santi "così com'è", se l'espressione si riferisce al modo di essere dell'oggetto veduto: infatti egli sarà veduto dai santi in possesso del modo di essere che possiede. Se invece il modo di essere viene riferito all'intensità del soggetto conoscente, allora egli non sarà veduto così com'è: perché l'efficacia dell'intelletto creato non sarà tanta quanta è l'efficacia dell'essenza divina nella sua intelligibilità.
15. Nella visione sia corporale che intellettuale si riscontrano tre tipi di mezzo. Il primo è il mezzo sotto la cui luce si vede. E questo è quello che prepara la vista a vedere in generale, senza determinare la vista a uno speciale oggetto: ossia svolge le funzioni che la luce materiale assolve nella visione corporale, e la luce dell'intelletto agente nei riguardi dell'intelletto possibile. - Il secondo mezzo è quello mediante il quale si vede, e questo è la forma o immagine visiva con la quale i due tipi di vista vengono determinati a uno speciale oggetto: mediante l'immagine della pietra, p. es., uno è determinato a conoscere la pietra. - Il terzo tipo è il mezzo nel quale si vede una data cosa. E questo è quel dato mediante la cui percezione la vista è condotta a conoscere un'altra cosa: guardando uno specchio, p. es., uno giunge a conoscere le cose in esso rappresentate, oppure da una sua immagine uno è portato a conoscere la cosa rappresentata. In tal senso appunto l'intelletto attraverso la conoscenza degli effetti raggiunge la causa, o viceversa.
Ebbene, nella patria beata non avremo il terzo tipo di mezzo, col quale si conosce Dio mediante le specie intenzionali delle altre cose, come lo conosciamo adesso mediante la ragione che appunto lo conosce come "in uno specchio". - E neppure ci sarà il secondo: poiché sarà mediante l'essenza divina stessa che il nostro intelletto vedrà Dio. - Ma allora ci sarà solo il primo tipo di mezzo, il quale eleverà il nostro intelletto in modo da potersi unire alla sostanza increata nel modo che abbiamo detto. Ma per codesto mezzo la conoscenza non si dice mediata: perché esso non s'interpone tra il soggetto conoscente e l'oggetto, ma è quello che da al soggetto la capacità di conoscere.
16. Delle creature corporali non si dice che vengono vedute immediatamente, se non quando viene a unirsi con la vista quanto in esse può unirsi con essa. Esse però non possono unirsi così con la loro essenza, a motivo della loro materialità. Perciò allora sono veduti immediatamente, quando la loro immagine eidetica viene a congiungersi con l'intelletto. Dio invece può unirsi all'intelletto mediante la propria essenza. Egli quindi non viene veduto immediatamente, se la sua essenza non si unisce all'intelletto. E solo tale visione immediata può dirsi "a faccia a faccia".
Inoltre l'immagine di una cosa corporea viene ricevuta nella vista secondo la natura specifica che ha nella realtà, sia pure secondo un diverso modo di essere: perciò codesta immagine porta direttamente a conoscere quella data cosa. Invece nessuna immagine è in grado di portare la nostra intelligenza a una simile cognizione di Dio, come risulta da quanto abbiamo detto. Perciò il paragone non regge.



Terza parte e Supplemento > Il fine della vita immortale > La visione dell'essenza divina da parte dei beati > Se i santi dopo la resurrezione vedranno Dio con gli occhi del corpo


Supplemento
Questione 92
Articolo 2

SEMBRA che dopo la resurrezione i santi vedranno Dio con gli occhi del corpo. Infatti:
1. L'occhio glorificato avrà una virtù superiore a quella di qualsiasi occhio non glorificato. Ora, il santo Giobbe vide Dio con i suoi occhi: "Per ascoltazione d'orecchi avevo udito di te, ma ora l'occhio mio ti vede". Perciò a maggior ragione potrà vedere Dio per essenza l'occhio glorificato.
2. Sempre nel Libro di Giobbe si legge: "Nella mia carne vedrò Dio, mio Salvatore". È chiaro quindi che nella patria Dio sarà veduto con gli occhi del corpo.
3. S. Agostino così si esprime a proposito della vista degli occhi glorificati: "La potenza di quegli occhi sarà ben più forte non da vedere con l'acutezza maggiore che alcuni attribuiscono ai serpenti e alle aquile; poiché per quanto acuta sia la vista di codesti animali, essi non possono vedere altro che i corpi, ma in modo da vedere le cose incorporee". Ora, ogni potenza conoscitiva adatta per vedere le cose incorporee può essere elevata a vedere Dio. Dunque gli occhi glorificati potranno vedere Dio.
4. La distanza tra le cose corporee e quelle incorporee è identica reciprocamente. Ma l'occhio incorporeo è capace di vedere le cose corporee. Dunque l'occhio corporeo è in grado di poter vedere le cose incorporee. Di qui l'identica conclusione.
5. S. Gregorio a proposito di quel testo di Giobbe, "Ristette uno che non conobbi al sembiante, ecc.", afferma: "L'uomo, che avrebbe dovuto diventare spirituale anche nella carne, se avesse osservato il precetto, peccando divenne carnale anche con l'anima". Ma per il fatto che è diventato carnale con l'anima, come il santo spiega, "egli pensa solo le cose che riceve nell'anima dalle immagini di realtà corporee". Quando perciò egli, secondo la promessa fatta agli eletti, diventerà spirituale anche col corpo, potrà vedere anche con la carne le cose spirituali. Dunque si torna alle conclusioni precedenti.
6. L'uomo può essere reso felice soltanto da Dio. Egli però lo diventerà non solo nell'anima, ma anche nel corpo. Dunque egli potrà vedere Dio non solo con l'intelletto, ma anche col corpo.
7. Dio come sarà presente con la sua essenza nell'intelletto, lo sarà pure nel senso: perché egli "sarà tutto in tutte le cose", come dice S. Paolo. Ora, egli dall'intelletto sarà visto per il fatto che la sua essenza viene a congiungersi con esso. Dunque potrà esser visto anche dal senso.

IN CONTRARIO: 1. S. Ambrogio afferma: "Non si cerca Dio con gli occhi del corpo, non lo si abbraccia con la vista, né si può afferrare col tatto". Dunque Dio non sarà veduto da nessuno dei sensi del corpo.
2. S. Girolamo insegna: "Gli occhi del corpo non solo non possono percepire la divinità del Padre, ma neppure quella del Figlio e dello Spirito Santo; lo possiedono invece gli occhi della mente di cui sta scritto: 'Beati i puri di cuore'".
3. Il medesimo Santo ha pure affermato: "Una realtà incorporea non è veduta con gli occhi del corpo". Ora, Dio è sommamente incorporeo. Dunque, ecc.
4. S. Agostino spiega: "'Dio non l'ha mai veduto nessuno', o in questa vita così com'egli è; oppure nella vita angelicale nel modo che sono visibili le realtà che vediamo con la vista del corpo". Ma angelicale è denominata la vita beata in cui vivranno i risuscitati. Dunque, ecc.
5. "L'uomo", scrive S. Agostino, "si dice fatto a immagine e somiglianza di Dio, perché è in grado di vedere Dio". Ma l'uomo è a immagine di Dio secondo l'anima e non secondo il corpo. Dunque egli vedrà Dio con l'anima e non col corpo.

RISPONDO: Una cosa può esser vista dai sensi del corpo in due maniere: per se e per accidens. Viene percepito per se ciò che è in grado d'imprimere un'eccitazione nel senso corporeo. Ora, una cosa può produrre per se tale impressione o sul senso come tale, o su questo o quell'altro senso particolare. Ebbene, ciò che produce per se l'impressione sul senso è il sensibile proprio: tale è, p. es., il colore rispetto alla vista, e il suono rispetto all'udito. - Però siccome il senso in quanto tale si serve di un organo corporeo, è impossibile che vi sia in esso la recezione di qualche cosa se non corporalmente: poiché "tutto ciò che si riceve viene ricevuto secondo la natura del ricevente". Perciò tutte le cose sensibili producono un'impressione nel senso come tale secondo la loro estensione o grandezza. Ecco perché l'estensione e tutto ciò che l'accompagna, come il moto, la quiete, il numero, ecc., sono denominati sensibili comuni, ma sempre sensibili per sé. - Viene sentito invece per accidens ciò che non produce un'impressione sul senso, né in generale come senso, né in quanto è questo senso particolare, ma è unito a quanto per sé lascia un'impressione sul senso: tali sono "Socrate", "il figlio di Diaris", "un amico" e altre cose del genere che direttamente e in genere sono conosciuti dall'intelletto, e in particolare sono conosciuti dalla cogitativa nell'uomo e dall'aestimativa negli altri animali. Codeste cose si dice che il senso esterno le sente quando da ciò che è oggetto diretto della sensazione, la facoltà chiamata a conoscerle direttamente le afferra immediatamente senza dubbi e senza procedimenti discorsivi: vediamo così, p. es., che uno vive dal fatto che parla. Invece quando le cose vanno diversamente, non si dice che un dato senso vede, neppure per accidens.
Dico dunque che Dio in nessun modo può esser veduto con la vista del corpo, né sentito con altri sensi, come visibile per se, né qui in vita, né in patria. Perché se al senso si toglie ciò che gli appartiene come senso, non sarà più senso; e così se alla vista si toglie ciò che la vista è come vista, non avremo più la vista. Perciò siccome il senso come tale percepisce l'estensione, e la vista come senso particolare percepisce il colore, è impossibile che la vista percepisca quanto non è né colore né estensione, a meno che non si parli di senso per equivocazione. Ma poiché la vista e i sensi saranno specificamente identici nei corpi gloriosi, non sarà possibile che il senso veda l'essenza come un oggetto visibile per se.
La vedrà invece come visibile per accidens, perché da una parte la vista del corpo vedrà tanta gloria di Dio nei corpi specialmente gloriosi, e soprattutto nel corpo di Cristo; e dall'altra l'intelletto vedrà tanto chiaramente Dio da percepirlo nelle cose vedute corporalmente, come nel fatto del parlare si percepisce la vita. Sebbene infatti allora il nostro intelletto non veda Dio dalle creature, tuttavia lo scorgerà anche nelle creature viste corporalmente. E di questa visione di Dio dalle cose corporee parla S. Agostino al termine del De Civitate Dei, com'è evidente per chi esamina le sue parole: "È assai credibile che allora noi vedremo i corpi del nuovo cielo e della nuova terra, in modo da scorgervi Dio dovunque presente, e da percepirlo con tutta chiarezza nell'atto di guidare tutto l'universo materiale; non già come adesso" intendiamo le cose invisibili di Dio dalle cose che egli ha fatto; "ma come quando nel guardare gli uomini non già crediamo, bensì subito vediamo che essi vivono".

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quelle parole di Giobbe si riferiscono agli occhi dello spirito, cui l'Apostolo allude in quell'espressione: "Abbiate illuminati gli occhi del vostro cuore".
2. L'affermazione riferita va intesa non nel senso che vedremo Dio con gli occhi del corpo; ma che vedremo Dio tornando ad esistere nel nostro corpo.
3. S. Agostino con quelle parole si esprime condizionalmente e in tono di ricerca. Il che è evidente da quanto precede: "Saranno quindi di una virtù ben diversa, se con essi vedremo quelle nature incorporee"; poi continua: "La potenza, ecc."; e finalmente conclude con le parole da noi riferite sopra.
4. Qualsiasi cognizione si compie mediante una qualche astrazione della materia. Perciò più una forma corporea è astratta dalla materia, più è un principio conoscitivo. Ecco perché una forma che ha tutta la sua esistenza nella materia in nessun modo è principio di cognizione; nel senso ciò si riscontra in qualche modo, in quanto viene a separarsi dalla materia; e nel nostro intelletto si riscontra anche di più. Per questo un occhio spirituale, dal quale viene rimosso ogni impedimento per conoscere, è in grado di vedere la realtà materiale. Ma da ciò non segue che un occhio corporeo, in cui c'è una mancanza di capacità conoscitiva nella misura in cui è materiale, possa conoscere perfettamente degli oggetti conoscibili incorporei.
5. Sebbene l'anima diventata carnale non possa pensare che le cose ricevute dai sensi, tuttavia le pensa in maniera immateriale. Così è indispensabile che la vista apprenda in maniera corporea tutto quello che vede. Ecco perché questa non può conoscere le cose che non si possono percepire corporalmente.
6. La beatitudine è la perfezione dell'uomo in quanto uomo. E poiché l'uomo non è tale in forza del corpo, bensì in forza dell'anima, mentre il corpo rientra nell'essenza dell'uomo in quanto questi è reso perfetto dall'anima, la beatitudine dell'uomo non consiste principalmente che in un atto dell'anima e da essa deriva al corpo come per una certa ridondanza, com'è evidente da quanto abbiamo già detto. Tuttavia ci sarà una certa felicità anche per il nostro corpo, dal fatto che vedrà Dio nelle creature sensibili, specialmente nel corpo di Cristo.
7. L'intelletto ha la capacità di percepire le cose spirituali, non così invece la vista corporale. Perciò l'intelletto potrà conoscere l'essenza divina a lui presente ed unita, non così la vista corporale.



Terza parte e Supplemento > Il fine della vita immortale > La visione dell'essenza divina da parte dei beati > Se i santi nel vedere Dio per essenza vedano tutto quello che Dio vede in se stesso


Supplemento
Questione 92
Articolo 3

SEMBRA che i santi nel vedere Dio per essenza vedano tutto quello che Dio vede in se stesso.
Infatti:
1. Come S. Isidoro insegna, "gli angeli nel Verbo di Dio conoscono tutte le cose prima che vengano compiute". Ma i santi, come dice il Vangelo, "saranno uguali agli angeli". Dunque anche i santi nel vedere Dio vedranno tutte le cose.
2. S. Gregorio scrive: "Poiché allora tutti vedranno Dio con l'identica chiarezza, che cosa non sapranno nel conoscere chi sa tutto?". Ora, egli parla così dei beati che vedono Dio per essenza. Perciò chi vede Dio per essenza conosce ogni cosa.
3. Come nota Aristotele, "quando un intelletto conosce le cose più grandi meglio ancora può intendere le più piccole". Ora, Dio è l'intelligibile massimo. Egli perciò aumenta al sommo la virtù dell'intelletto nel conoscere. Perciò l'intelletto che vede lui intende ogni cosa.
4. L'intelletto non trova ostacolo a intendere una cosa, se non in quanto quest'ultima è superiore a lui. Ma nessuna creatura è superiore all'intelletto che vede Dio, poiché, come dice S. Gregorio, "per l'anima che vede Dio diventa angusta qualsiasi creatura". Dunque coloro che vedono Dio per essenza conoscono tutte le cose.
5. Ogni potenza passiva che non passa all'atto è imperfetta. Ora, nell'intelletto possibile dell'anima umana c'è come una potenza passiva a conoscere tutte le cose: perché l'intelletto possibile "è quello fatto per diventare ogni cosa", come si esprime Aristotele. Se quindi in quella beatitudine esso non conoscesse tutte le cose, rimarrebbe imperfetto. Il che è assurdo.
6. Chi vede uno specchio vede le cose che risultano in esso. Ma nel Verbo di Dio risultano come in uno specchio tutte le cose: perché egli è la ragione e l'archetipo d'ogni cosa. Dunque i santi che vedono il Verbo per essenza, vedono tutte le creature.
7. Nei Proverbi si legge che "i giusti vedranno colmati i loro desideri". Ora, i santi desiderano conoscere tutte le cose: perché "tutti gli uomini per natura desiderano di conoscere", e d'altronde la natura non viene distrutta dalla gloria. Perciò Dio concederà loro di conoscere tutte le cose.
8. L'ignoranza è una delle penalità della vita presente. Ma la gloria toglierà ai santi ogni penalità. Quindi anche qualsiasi ignoranza. Dunque essi conosceranno ogni cosa.
9. La beatitudine dei santi sarà prima nell'anima che nel corpo. Ma i corpi dei santi verranno trasformati nella gloria a somiglianza del corpo di Cristo, come insegna S. Paolo. Perciò anche le anime saranno perfette a somiglianza dell'anima di Cristo. Ora, l'anima di Cristo vedrà nel Verbo tutte le cose. Quindi tutte le anime dei santi vedranno nel Verbo tutte le cose.
10. L'intelletto al pari del senso conosce tutto ciò di cui riceve la forma. Ma l'essenza di Dio esprime qualsiasi cosa meglio di qualunque altra immagine di essa. Siccome quindi in quella visione beata l'essenza divina diviene quasi la forma del nostro intelletto, è chiaro che i santi nel vedere Dio vedono tutte le cose.
11. Averroè afferma che se l'intelletto agente fosse la forma dell'intelletto possibile, noi conosceremmo ogni cosa. Ora, l'essenza divina rappresenta tutte le cose ben più chiaramente dell'intelletto agente. Dunque l'intelletto che vede Dio per essenza conosce tutte le cose.
12. Gli angeli inferiori vengono adesso illuminati da quelli superiori circa le cose che ignorano, perché non conoscono ogni cosa. Ma dopo il giorno del giudizio gli angeli non avranno più queste illuminazioni; perché allora, come dice la Glossa, "cesserà ogni superiorità". Perciò anche gli angeli inferiori conosceranno tutte le cose. E per la stessa ragione le conosceranno tutti gli altri santi che vedranno Dio per essenza.

IN CONTRARIO: 1. Come insegna Dionigi, gli angeli superiori purgano gli inferiori "della loro nescienza". Ma gli angeli inferiori vedono anch'essi l'essenza divina. Dunque un angelo che vede l'essenza di Dio può non sapere qualche cosa. Ora, le anime non vedranno Dio più perfettamente degli angeli. Quindi non è necessario che nel vedere Dio le anime vedano tutte le cose.
2. Cristo soltanto "possiede lo Spirito senza misura", come si esprime S. Giovanni. Ebbene a Cristo spetta di conoscere ogni cosa nel Verbo in quanto possiede lo Spirito senza misura; infatti l'Evangelista aggiunge: "Il Padre ha riposto tutto nelle sue mani". Dunque a nessun altro all'infuori di Cristo spetta di conoscere nel Verbo tutte le cose.
3. Quanto più perfettamente si conosce un principio, tanto più numerosi sono gli effetti che di lui si conoscono. Ma alcuni di coloro che per essenza vedono Dio, il quale è causa di tutte le cose, lo conoscono più perfettamente di altri. Quindi alcuni conoscono più cose di altri. Perciò non tutti conosceranno ogni cosa.

RISPONDO: Dio nel vedere la propria essenza conosce tutte le cose che sono, che saranno, o che furono: e ciò si dice che egli lo conosce "di scienza visiva", perché a somiglianza della vista corporale conosce queste cose come presenti. Inoltre egli conosce, nel vedere la propria essenza, tutte le cose che può compiere, sebbene non le abbia fatte e non le farà mai: altrimenti egli non conoscerebbe perfettamente la propria potenza. Una data potenza infatti non si può conoscere, se non si conoscono gli oggetti di essa. E questo si dice che egli lo conosce "per scienza di semplice intelligenza".
Ora, è impossibile che l'intelletto creato nel vedere l'essenza divina conosca tutte le cose che Dio può fare. Poiché quanto più perfettamente si conosce un principio, tante più cose si conoscono in esso: in un principio dimostrativo, p. es., colui che ha un ingegno più perspicace vede un numero maggiore di conclusioni che colui il quale è d'ingegno più limitato. Perciò, siccome la grandezza della potenza divina è pari alle cose di cui è capace, se un intelletto vedesse nell'essenza divina tutto quello che Dio può fare, la misura della sua perfezione nell'intendere sarebbe identica alla grandezza della potenza divina nel produrre gli effetti: e così avrebbe la comprensione dell'essenza divina. Il che è impossibile per qualsiasi intelletto creato.
Invece tutte le cose che Dio conosce di scienza visiva, un solo intelletto creato, cioè l'anima di Cristo, può conoscerle nel Verbo. Ma circa gli altri ammessi a vedere l'essenza divina ci sono due opinioni. Alcuni infatti dicono che tutti nel vedere Dio per essenza vedranno tutte le cose che Dio vede di scienza visiva. – Ma questo è incompatibile con le affermazioni dei Santi Dottori, i quali affermano che gli angeli non conoscono alcune cose; e tuttavia è certo, secondo la fede, che essi vedono tutti Dio per essenza.
Ecco perché altri sostengono che i beati, ad eccezione di Cristo, pur vedendo Dio per essenza, non vedono tutto ciò che Dio vede, appunto perché non hanno la comprensione della sua essenza. Infatti non è necessario che chi conosce una causa ne conosca tutti gli effetti, a meno che non ne abbia la comprensione: il che non compete a un intelletto creato. Perciò nel vedere Dio per essenza ognuno vedrà tanti più oggetti, quanto più chiaramente vedrà l'essenza divina. Ecco perché uno potrà dare istruzioni ad altri. E così la scienza degli angeli e quella delle anime sante potrà accrescersi fino al giorno del giudizio: come le altre qualità che rientrano nel premio accidentale. Ma dopo non ci sarà aumento: perché avremo allora lo stato definitivo di tutte le cose.
E in tale stato sarà possibile che tutti conoscano tutte le cose che Dio conosce con la sua scienza visionis o visiva.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'affermazione di S. Isidoro, secondo cui "gli angeli nel Verbo di Dio conoscono tutte le cose prima che avvengano", non si può riferire alle cose che Dio conosce con la scienza di semplice intelligenza, perché queste non verranno mai compiute; ma va riferita solo alle cose che Dio conosce di scienza visiva. Anzi a proposito di queste egli dice che non tutti gli angeli le conoscono tutte, ma forse alcuni. E anche quelli che le conoscono non le conoscono tutte perfettamente. Infatti in ciascuna cosa si possono considerare molteplici ragioni intelligibili, quali appunto le diverse sue proprietà e le relazioni con le altre cose; ed è possibile che due individui pur conoscendo insieme l'identica cosa, l'uno percepisca più ragioni dell'altro, e che l'uno quindi le riceva dall'altro. Ecco perché Dionigi afferma che gli angeli inferiori apprendono da quelli superiori le ragioni conoscibili delle cose. Perciò anche gli angeli che conoscono tutte le creature non è detto che scorgano in esse tutto ciò che può essere conosciuto.
2. Le parole di S. Gregorio dimostrano che in quella visione beata l'essenza divina, in cui Dio vede tutte le cose e di cui noi ci serviremo per vedere, è sufficiente per vedere ogni cosa. Ma il fatto che non si vedono tutte dipende dalla limitazione dell'intelletto creato, incapace di comprendere l'essenza divina.
3. L'intelletto creato non vede l'essenza divina secondo la capacità di Dio, ma secondo la capacità propria, che è finita. Perciò dalla visione suddetta non segue che la sua efficacia nel conoscere venga ampliata all'infinito, così da poter conoscere tutte le cose.
4. La mancanza di conoscenza può dipendere non solo dalla superiorità eccessiva del conoscibile sull'intelletto, ma anche dal fatto che all'intelletto non viene a unirsi la ragione o forma dell'oggetto intelligibile: la vista, p. es., può non vedere la pietra per il fatto che l'immagine della pietra non è in essa. Ora, sebbene all'intelletto che vede Dio sia unita l'essenza divina, tuttavia non gli viene unita quale ragione di tutte le cose, ma solo di alcune: e tanto queste saranno più numerose, quanto più completa è l'intuizione che uno ha dell'essenza divina.
5. Quando una potenza passiva, perfettibile mediante oggetti vari tra loro ordinati, viene perfezionata dalla sua ultima perfezione, non può dirsi imperfetta, anche se certe predisposizioni precedenti sono venute a mancare. Ebbene, ogni conoscenza con la quale viene a perfezionarsi l'intelletto creato è ordinata in definitiva alla conoscenza di Dio. Perciò chi vede Dio per essenza, anche se non conoscesse altro, avrebbe l'intelligenza in istato di perfezione. Ne questa è più perfetta per il fatto che vede altre cose oltre Dio, se non in quanto vede lui più perfettamente. Di qui le parole di S. Agostino: "Infelice l'uomo che conosce tutte quelle cose", cioè le creature, "senza conoscere te [Signore]. Beato invece chi conosce te, anche se non conosce tutte quelle cose. Chi poi conosce te e loro, non è più felice per quelle, ma è felice e beato solo per te".
6. Lo specchio suddetto è dotato di volontà: perciò come si mostra a chi vuole, così mostra in sé quello che vuole. La cosa è diversa per uno specchio materiale, il quale non ha la facoltà di mostrarsi e di non mostrarsi.
Oppure si può rispondere che in uno specchio materiale tanto le cose quanto lo specchio vengono percepiti nella loro propria forma: sebbene lo specchio sia visto mediante la forma o immagine ricevuta direttamente da esso, mentre la pietra ivi riflessa viene veduta mediante la sua immagine risultante in un'altra cosa. Perciò è identica la ragione o forma eidetica per l'uno e per l'altro. Ma nello specchio increato le cose sono vedute mediante l'immagine dello specchio medesimo, come l'effetto è visto mediante l'immagine della causa e viceversa. Quindi non segue che chiunque contempla lo specchio eterno veda tutto ciò che in esso risulta. Infatti non è necessario che chi vede la causa veda tutti i suoi effetti, a meno che non ne abbia la comprensione.
7. Il desiderio dei santi di conoscere tutte le cose sarà colmato per il solo fatto che vedranno Dio; come il loro desiderio di possedere ogni bene sarà colmato col fatto che possederanno Dio. Dio infatti come sazia la volontà in quanto possiede la perfetta bontà, cosicché il suo possesso assicura in qualche modo il possesso di tutti i beni; così la visione di lui sazierà l'intelligenza, secondo le parole evangeliche: "Signore, mostraci il Padre e ci basta".
8. Ignoranza in senso proprio implica privazione, e quindi penalità; infatti così intesa l'ignoranza è non sapere cose che si dovrebbero sapere, o che è necessario conoscere. Ebbene, nella patria non mancherà nulla di tutto questo.
Talora invece l'ignoranza sta a indicare qualsiasi nescienza. E in tal senso gli angeli e i santi ignoreranno certe cose nella patria; infatti Dionigi afferma che gli angeli vengono purificati dalla "nescienza". Ma in questo senso l'ignoranza non è una penalità, bensì solo una deficienza. E non è detto che ogni deficienza del genere sia eliminata dalla gloria: allora infatti si potrebbe dire che c'è una deficienza in S. Lino papa per il fatto che non ha raggiunto la gloria di S. Pietro.
9. Il nostro corpo sarà reso conforme al corpo di Cristo nella gloria per somiglianza, non già in perfetta uguaglianza: sarà infatti splendente allo stesso modo ma non nello stesso grado che "il corpo di Cristo". Così l'anima nostra avrà la gloria a somiglianza dell'anima di Cristo, ma non alla pari di lui. Così pure avrà la scienza come l'anima di Cristo: però non con la stessa misura, così da conoscere ogni cosa come l'anima di Cristo.
10. L'essenza divina, pur essendo la ragione o archetipo di tutte le cose conoscibili, tuttavia non si unisce a ciascun intelletto creato quale ragione o archetipo di esse. Perciò l'argomento non regge.
11. L'intelletto agente è la forma proporzionata all'intelletto possibile, come la potenza della materia è proporzionata alla virtù della causa agente naturale: cosicché tutto quello che è nella potenza passiva della materia o dell'intelletto possibile è nella potenza attiva dell'intelletto agente o delle cause agenti naturali.
Ecco perché se l'intelletto agente diventasse la forma dell'intelletto possibile, l'intelletto possibile verrebbe necessariamente a conoscere tutte le cose alle quali si estende la virtù dell'intelletto agente. Ma l'essenza divina non è in tal modo forma proporzionata per il nostro intelletto. Perciò il paragone non regge.
12. Niente impedisce di affermare che dopo il giorno del giudizio, quando la gloria degli uomini e degli angeli sarà del tutto completa, tutti i beati conosceranno tutto quello che Dio conosce con la scienza visiva: però non nel senso che tutti vedano proprio tutto nell'essenza divina. Ma allora l'anima di Cristo vedrà in essa pienamente ogni cosa, come già la vede adesso: gli altri invece vedranno più o meno cose secondo il grado della loro visione di Dio. Cosicché l'anima di Cristo illuminerà tutte le altre circa le cose loro nascoste che egli vede nel Verbo: ecco perché nell'Apocalisse si legge, che "lo splendore di Dio illuminerà la città dei beati, e che l'Agnello ne sarà la lucerna". In modo analogo i santi superiori illumineranno gli inferiori: non già mediante una nuova illuminazione, così da accrescere la scienza: ma mediante un certo prolungamento dell'illuminazione precedente, come si riscontra nel sole che appena calato continua a illuminare l'aria. Ecco perché Daniele afferma, che "coloro i quali istruiscono molti alla giustizia, splenderanno come astri nell'eternità senza fine". Si dice poi che allora verrà a cessare ogni superiorità degli ordini angelici, rispetto ai ministeri che attualmente essi esercitano ordinatamente verso di noi, come risulta dalla Glossa citata.

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