I-II, 87

Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Prooemium

[37254] Iª-IIae q. 87 pr.
Deinde considerandum est de reatu poenae. Et primo, de ipso reatu; secundo, de mortali et veniali peccato, quae distinguuntur secundum reatum. Circa primum quaeruntur octo.
Primo, utrum reatus poenae sit effectus peccati.
Secundo, utrum peccatum possit esse poena alterius peccati.
Tertio, utrum aliquod peccatum faciat reum aeterna poena.
Quarto, utrum faciat reum poena infinita secundum quantitatem.
Quinto, utrum omne peccatum faciat reum aeterna et infinita poena.
Sexto, utrum reatus poenae possit remanere post peccatum.
Septimo, utrum omnis poena inferatur pro aliquo peccato.
Octavo, utrum unus sit reus poenae pro peccato alterius.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Proemio

[37254] Iª-IIae q. 87 pr.
Passiamo così a considerare il reato, od obbligazione alla pena. Tratteremo prima del reato in se stesso; e quindi della distinzione tra mortale e veniale, che deriva dal reato.
Sul primo argomento si pongono otto quesiti:

1. Se il reato, od obbligazione alla pena sia effetto del peccato;
2. Se un peccato possa essere punizione di altri peccati;
3. Se un peccato possa rendere l'uomo reo di pena eterna;
4. Se possa renderlo reo di una pena infinita quanto a grandezza;
5. Se tutti i peccati rendano rei di una pena eterna e infinita;
6. Se l'obbligazione alla pena, o reato, possa rimanere dopo il peccato;
7. Se per un peccato siano inflitte tutte le pene;
8. Se uno possa meritare la pena per i peccati altrui.




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Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 1

[37255] Iª-IIae q. 87 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod reatus poenae non sit effectus peccati. Quod enim per accidens se habet ad aliquid, non videtur esse proprius effectus eius. Sed reatus poenae per accidens se habet ad peccatum, cum sit praeter intentionem peccantis. Ergo reatus poenae non est effectus peccati.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 1

[37255] Iª-IIae q. 87 a. 1 arg. 1
SEMBRA che il reato, od obbligazione alla pena, non sia tra gli effetti del peccato. Infatti:
1. Non sembra rientrare fra gli effetti propri di una cosa, ciò che ne deriva solo indirettamente. Ora, l'obbligazione alla pena deriva solo indirettamente dal peccato, essendo estranea all'intenzione del peccatore. Dunque l'obbligazione alla pena, o reato, non è effetto della colpa.

[37256] Iª-IIae q. 87 a. 1 arg. 2
Praeterea, malum non est causa boni. Sed poena bona est, cum sit iusta, et a Deo. Ergo non est effectus peccati, quod est malum.

 

[37256] Iª-IIae q. 87 a. 1 arg. 2
2. Il male non può essere causa di un bene. Ma la pena è un bene, essendo giusta e da Dio. Quindi non è effetto del peccato che è un male.

[37257] Iª-IIae q. 87 a. 1 arg. 3
Praeterea, Augustinus dicit, in I Confess., quod omnis inordinatus animus sibi ipsi est poena. Sed poena non causat reatum alterius poenae, quia sic iretur in infinitum. Ergo peccatum non causat reatum poenae.

 

[37257] Iª-IIae q. 87 a. 1 arg. 3
3. S. Agostino scrive, che "ogni animo disordinato è punizione a se stesso". Ma una punizione non può meritare un'altra punizione: ché altrimenti si andrebbe all'indefinito. Dunque il peccato non causa l'obbligazione a una pena.

[37258] Iª-IIae q. 87 a. 1 s. c.
Sed contra est quod dicitur Rom. II, tribulatio et angustia in animam omnem operantis malum. Sed operari malum est peccare. Ergo peccatum inducit poenam, quae nomine tribulationis et angustiae designatur.

 

[37258] Iª-IIae q. 87 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: S. Paolo afferma: "Tribolazione e angoscia sopra ogni animo d'uomo che fa il male". Ora, compiere il male è peccato. Perciò il peccato provoca la punizione, indicata coi termini di tribolazione e di angoscia.

[37259] Iª-IIae q. 87 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod ex rebus naturalibus ad res humanas derivatur ut id quod contra aliquid insurgit, ab eo detrimentum patiatur. Videmus enim in rebus naturalibus quod unum contrarium vehementius agit, altero contrario superveniente, propter quod aquae calefactae magis congelantur, ut dicitur in I Meteor. Unde in hominibus hoc ex naturali inclinatione invenitur, ut unusquisque deprimat eum qui contra ipsum insurgit. Manifestum est autem quod quaecumque continentur sub aliquo ordine, sunt quodammodo unum in ordine ad principium ordinis. Unde quidquid contra ordinem aliquem insurgit, consequens est ut ab ipso ordine, vel principe ordinis, deprimatur. Cum autem peccatum sit actus inordinatus, manifestum est quod quicumque peccat, contra aliquem ordinem agit. Et ideo ab ipso ordine consequens est quod deprimatur. Quae quidem depressio poena est. Unde secundum tres ordines quibus subditur humana voluntas, triplici poena potest homo puniri. Primo quidem enim subditur humana natura ordini propriae rationis; secundo, ordini exterioris hominis gubernantis vel spiritualiter vel temporaliter, politice seu oeconomice; tertio, subditur universali ordini divini regiminis. Quilibet autem horum ordinum per peccatum pervertitur, dum ille qui peccat, agit et contra rationem, et contra legem humanam, et contra legem divinam. Unde triplicem poenam incurrit, unam quidem a seipso, quae est conscientiae remorsus, aliam vero ab homine, tertiam vero a Deo.

 

[37259] Iª-IIae q. 87 a. 1 co.
RISPONDO: Sia nel mondo fisico che in quello umano si verifica il fatto che chi insorge contro una cosa deve subirne la rivincita. Infatti vediamo nel mondo fisico che le energie contrarie agiscono con più forza quando si incontrano: ecco perché, a detta di Aristotele, "l'acqua riscaldata viene congelata con più forza". Perciò anche fra gli uomini avviene, secondo la naturale inclinazione, che uno tenti di umiliare chi insorge contro di lui. Ora, è evidente che tutte le cose racchiuse in un dato ordine formano come una cosa sola rispetto al principio di esso. Dal che deriva che quanto insorge contro un dato ordine viene represso dall'ordine medesimo, oppure da chi lo presiede. E siccome il peccato è un atto disordinato, è chiaro che chi pecca agisce sempre contro un dato ordine. E ne segue che dall'ordine medesimo deve essere represso. E codesta repressione è la pena.
Perciò in base ai tre ordini, cui è soggetta la volontà umana, un uomo può subire tre tipi di pena. Primo, la natura umana è soggetta all'ordine della propria ragione; secondo, all'ordine di chi governa l'uomo dall'esterno, sia spiritualmente che civilmente, e nella società politica e in quella domestica; terzo, è soggetta all'ordine universale del governo divino. Ora, col peccato ciascuno di questi ordini viene sconvolto: infatti chi pecca agisce contro la ragione, contro la legge umana, e contro la legge divina. Perciò tre sono le pene che incorre: la prima da se medesimo, cioè il rimorso della coscienza; la seconda dagli uomini; la terza da Dio.

[37260] Iª-IIae q. 87 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod poena consequitur peccatum inquantum malum est, ratione suae inordinationis. Unde sicut malum est per accidens in actu peccantis, praeter intentionem ipsius, ita et reatus poenae.

 

[37260] Iª-IIae q. 87 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La pena segue al peccato in quanto male, cioè sotto l'aspetto di disordine. Perciò, come nell'atto di chi pecca è indiretto (o per accidens) il male, perché preterintenzionale, così è indiretta l'obbligazione alla pena.

[37261] Iª-IIae q. 87 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod poena quidem iusta esse potest et a Deo et ab homine inflicta, unde ipsa poena non est effectus peccati directe, sed solum dispositive. Sed peccatum facit hominem esse reum poenae, quod est malum, dicit enim Dionysius, IV cap. de Div. Nom., quod puniri non est malum, sed fieri poena dignum. Unde reatus poenae directe ponitur effectus peccati.

 

[37261] Iª-IIae q. 87 a. 1 ad 2
2. La pena in se stessa, inflitta da Dio o dagli uomini, può esser giusta: infatti come tale la pena non è effetto diretto del peccato, che si limita a predisporre ad essa. Invece il peccato rende l'uomo reo di pena, e questo è un male: poiché, come nota Dionigi, "non è male essere puniti, ma diventare degni di punizione". Ecco perché tra gli effetti diretti del peccato si mette (non la pena, ma) l'obbligazione alla pena.

[37262] Iª-IIae q. 87 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod poena illa inordinati animi debetur peccato ex hoc quod ordinem rationis pervertit. Fit autem reus alterius poenae, per hoc quod pervertit ordinem legis divinae vel humanae.

 

[37262] Iª-IIae q. 87 a. 1 ad 3
3. La punizione accennata dell'animo disordinato è dovuta alla colpa, in quanto sconvolge l'ordine della ragione. Ma l'uomo diviene reo di altre pene, in quanto sconvolge l'ordine della legge divina ed umana.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se un peccato possa essere punizione di altri peccati


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 2

[37263] Iª-IIae q. 87 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod peccatum non possit esse poena peccati. Poenae enim sunt inductae ut per eas homines reducantur ad bonum virtutis, ut patet per philosophum, in X Ethic. Sed per peccatum non reducitur homo in bonum virtutis, sed in oppositum. Ergo peccatum non est poena peccati.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 2

[37263] Iª-IIae q. 87 a. 2 arg. 1
SEMBRA che un peccato non possa essere punizione di altri peccati. Infatti:
1. Le punizioni, come spiega il Filosofo, sono state introdotte per riportare gli uomini al bene della virtù. Ma il peccato non riporta l'uomo al bene, bensì al suo contrario. Quindi un peccato non può essere punizione di altri peccati.

[37264] Iª-IIae q. 87 a. 2 arg. 2
Praeterea, poenae iustae sunt a Deo, ut patet per Augustinum, in libro octoginta trium quaest. Peccatum autem non est a Deo, et est iniustum. Non ergo peccatum potest esse poena peccati.

 

[37264] Iª-IIae q. 87 a. 2 arg. 2
2. Le pene giuste, a detta di S. Agostino, vengono da Dio. Ora, il peccato non viene da Dio, ed è ingiusto. Dunque un peccato non può esser pena di un altro peccato.

[37265] Iª-IIae q. 87 a. 2 arg. 3
Praeterea, de ratione poenae est quod sit contra voluntatem. Sed peccatum est a voluntate, ut ex supradictis patet. Ergo peccatum non potest esse poena peccati.

 

[37265] Iª-IIae q. 87 a. 2 arg. 3
3. È essenziale alla punizione essere contro la volontà. Invece la colpa è volontaria, come abbiamo dimostrato. Dunque una colpa non può essere punizione di altri peccati.

[37266] Iª-IIae q. 87 a. 2 s. c.
Sed contra est quod Gregorius dicit, super Ezech., quod quaedam peccata sunt poenae peccati.

 

[37266] Iª-IIae q. 87 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: S. Gregorio insegna che certi peccati sono punizioni di altri.

[37267] Iª-IIae q. 87 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod de peccato dupliciter loqui possumus, per se, et per accidens. Per se quidem nullo modo peccatum potest esse poena peccati. Peccatum enim per se consideratur secundum quod egreditur a voluntate, sic enim habet rationem culpae. De ratione autem poenae est quod sit contra voluntatem, ut in primo habitum est. Unde manifestum est quod nullo modo, per se loquendo, peccatum potest esse poena peccati. Per accidens autem peccatum potest esse poena peccati, tripliciter. Primo quidem, ex parte causae quae est remotio prohibentis. Sunt enim causae inclinantes ad peccatum passiones, tentatio Diaboli, et alia huiusmodi; quae quidem causae impediuntur per auxilium divinae gratiae, quae subtrahitur per peccatum. Unde cum ipsa subtractio gratiae sit quaedam poena, et a Deo, ut supra dictum est; sequitur quod per accidens etiam peccatum quod ex hoc sequitur, poena dicatur. Et hoc modo loquitur apostolus, Rom. I, dicens, propter quod tradidit eos Deus in desideria cordis eorum, quae sunt animae passiones, quia scilicet deserti homines ab auxilio divinae gratiae, vincuntur a passionibus. Et hoc modo semper peccatum dicitur esse poena praecedentis peccati. Alio modo ex parte substantiae actus, quae afflictionem inducit, sive sit actus interior, ut patet in ira et invidia; sive actus exterior, ut patet cum aliqui gravi labore opprimuntur et damno, ut expleant actum peccati, secundum illud Sap. V, lassati sumus in via iniquitatis. Tertio modo, ex parte effectus, ut scilicet aliquod peccatum dicatur poena respectu effectus consequentis. Et his duobus ultimis modis, unum peccatum non solum est poena praecedentis peccati, sed etiam sui.

 

[37267] Iª-IIae q. 87 a. 2 co.
RISPONDO: Parlando (delle proprietà) di un peccato, si può distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accidentale. Essenzialmente considerata una colpa non può mai essere punizione di altre colpe. Poiché il peccato è visto nella sua essenza in quanto promana dalla volontà: è così infatti che ha natura di colpa. Invece il concetto stesso di pena implica che essa sia contro volontà, come abbiamo spiegato nella Prima Parte. Perciò è evidente che a rigor di termini, in nessun modo un peccato può essere punizione di un altro peccato.
Invece accidentalmente considerato un peccato può esser pena di altri peccati in tre maniere. Primo, quale removens prohibens (cioè perché toglie l'ostacolo che impediva la colpa). Infatti ci sono delle cause che spingono al peccato, come le passioni, le tentazioni diaboliche, e altre cose del genere; e queste vengono lasciate prive di soccorso da parte della grazia divina, sottratta a causa del peccato. Perciò, essendo la sottrazione della grazia una pena inflitta da Dio, come sopra abbiamo visto, ne segue che per accidens anche il peccato successivo si possa considerare una punizione. In tal senso l'Apostolo scrive: "Perciò Dio li abbandonò alle concupiscenze dei loro cuori", che sono le passioni; cioè nel senso che gli uomini, privi del soccorso della grazia divina, sono vinti dalle passioni. E sotto questo aspetto un peccato può sempre essere punizione di un peccato precedente. - Secondo, a motivo dell'atto in se stesso, che può implicare afflizione: il che avviene, sia negli atti interni, come è evidente per l'ira e l'invidia; sia negli atti esterni, come nel caso di chi si espone a fatiche e a gravi danni per compiere l'atto peccaminoso, secondo l'espressione della Scrittura: "Ci siamo stancati per i sentieri dell'iniquità". - Terzo, a motivo dei suoi effetti; un peccato, cioè, può chiamarsi punizione per gli effetti che lo accompagnano. E in queste due ultime maniere un peccato, non solo è punizione di una colpa precedente, ma anche di se stesso.

[37268] Iª-IIae q. 87 a. 2 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod hoc etiam quod aliqui puniuntur a Deo, dum permittit eos in aliqua peccata profluere, ad bonum virtutis ordinatur. Quandoque quidem etiam ipsorum qui peccant, cum scilicet post peccatum humiliores et cautiores resurgunt. Semper autem est ad emendationem aliorum, qui videntes aliquos ruere de peccato in peccatum, magis reformidant peccare. In aliis autem duobus modis, manifestum est quod poena ordinatur ad emendationem quia hoc ipsum quod homo laborem et detrimentum patitur in peccando, natum est retrahere homines a peccato.

 

[37268] Iª-IIae q. 87 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il fatto stesso che alcuni sono puniti da Dio, con la permissione di certi loro peccati, è ordinato al bene della virtù. Talora persino al bene di coloro che peccano: quando questi risorgono dal peccato più cauti e più umili. Sempre però a emendazione degli altri, i quali, vedendo il prossimo cadere di peccato in peccato, si trattengono di più da peccare. - Se poi consideriamo la cosa in rapporto agli altri due aspetti di cui abbiamo parlato, è chiaro che la pena è ordinata all'emenda, poiché il tormento della fatica e del danno nel peccato, è fatto apposta per ritrarre l'uomo dalla colpa.

[37269] Iª-IIae q. 87 a. 2 ad 2
Ad secundum dicendum quod ratio illa procedit de peccato secundum se.

 

[37269] Iª-IIae q. 87 a. 2 ad 2
2. La ragione vale se si considera il peccato nella sua essenza.

[37270] Iª-IIae q. 87 a. 2 ad 3
Et similiter dicendum est ad tertium.

 

[37270] Iª-IIae q. 87 a. 2 ad 3
3. Lo stesso si dica della terza difficoltà.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se certi peccati possano meritare una pena eterna


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 3

[37271] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod nullum peccatum inducat reatum aeternae poenae. Poena enim iusta adaequatur culpae, iustitia enim aequalitas est. Unde dicitur Isaiae XXVII, in mensura contra mensuram, cum abiecta fuerit, iudicabit eam. Sed peccatum est temporale. Ergo non inducit reatum poenae aeternae.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 3

[37271] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 1
SEMBRA che nessun peccato possa meritare una pena eterna. Infatti:
1. Una pena giusta è adeguata alla colpa: poiché la giustizia è adeguazione. Perciò sta scritto: "In misura rimisurata la punirai, gettandola in esilio". Ora, il peccato è temporaneo. Dunque non può meritare una pena eterna.

[37272] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 2
Praeterea, poenae medicinae quaedam sunt, ut dicitur in II Ethic. Sed nulla medicina debet esse infinita, quia ordinatur ad finem; quod autem ordinatur ad finem, non est infinitum, ut philosophus dicit, in I Polit. Ergo nulla poena debet esse infinita.

 

[37272] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 2
2. Secondo Aristotele, "le pene sono delle medicine". Ma nessuna medicina deve essere infinita, essendo ordinata a un fine; "e quanto è ordinato a un fine non è mai infinito", a detta del Filosofo. Perciò nessuna pena deve essere infinita.

[37273] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 3
Praeterea, nullus semper facit aliquid, nisi propter se in ipso delectetur. Sed Deus non delectatur in perditione hominum, ut dicitur Sap. I. Ergo non puniet homines poena sempiterna.

 

[37273] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 3
3. Nessuno dura a far sempre una cosa, se non ne gode. Ma la scrittura afferma, che "Dio non si allieta della perdizione degli uomini". Dunque non punisce gli uomini con una pena eterna.

[37274] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 4
Praeterea, nihil quod est per accidens, est infinitum. Sed poena est per accidens, non est enim secundum naturam eius qui punitur. Ergo non potest in infinitum durare.

 

[37274] Iª-IIae q. 87 a. 3 arg. 4
4. Niente di ciò che è per accidens può essere infinito. Ma la pena è un per accidens: infatti non è secondo la natura di chi viene punito. Quindi non può durare all'infinito.

[37275] Iª-IIae q. 87 a. 3 s. c.
Sed contra est quod dicitur Matth. XXV, ibunt hi in supplicium aeternum. Et Marc. III dicitur, qui autem blasphemaverit in spiritum sanctum, non habebit remissionem in aeternum, sed erit reus aeterni delicti.

 

[37275] Iª-IIae q. 87 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: "E questi se ne andranno nell'eterno supplizio". E altrove: "Chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ne otterrà perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno".

[37276] Iª-IIae q. 87 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, peccatum ex hoc inducit reatum poenae, quod pervertit aliquem ordinem. Manente autem causa, manet effectus. Unde quandiu perversitas ordinis remanet, necesse est quod remaneat reatus poenae. Pervertit autem aliquis ordinem quandoque quidem reparabiliter, quandoque autem irreparabiliter. Semper enim defectus quo subtrahitur principium, irreparabilis est, si autem salvetur principium, eius virtute defectus reparari possunt. Sicut si corrumpatur principium visivum, non potest fieri visionis reparatio, nisi sola virtute divina, si vero, salvo principio visivo, aliqua impedimenta adveniant visioni, reparari possunt per naturam vel per artem. Cuiuslibet autem ordinis est aliquod principium, per quod aliquis fit particeps illius ordinis. Et ideo si per peccatum corrumpatur principium ordinis quo voluntas hominis subditur Deo, erit inordinatio, quantum est de se, irreparabilis, etsi reparari possit virtute divina. Principium autem huius ordinis est ultimus finis, cui homo inhaeret per caritatem. Et ideo quaecumque peccata avertunt a Deo, caritatem auferentia, quantum est de se, inducunt reatum aeternae poenae.

 

[37276] Iª-IIae q. 87 a. 3 co.
RISPONDO: Come abbiamo spiegato sopra, un peccato merita una punizione in quanto sconvolge un dato ordine. E finché rimane la causa, rimane anche l'effetto. Quindi finché dura il sovvertimento dell'ordine, deve rimanere l'obbligazione alla pena. Ora, uno può sconvolgere l'ordine in modo riparabile, o in modo irreparabile. Ebbene, irreparabile è la mancanza che ne elimina il principio stesso: invece se ne salva il principio, in virtù di esso le deficenze si possono riparare. Se si corrompe, p. es., il principio visivo, la vista non è più ricuperabile, se non per virtù divina: se invece la vista soffre delle difficoltà, ma ne è salvo il principio, è ancora riparabile per la natura o per l'arte. Ma ogni ordine ha un principio in rapporto al quale le altre cose ne divengono partecipi. Se quindi il peccato distrugge il principio dell'ordine, col quale la volontà umana è sottomessa a Dio, si avrà un disordine di per sé irreparabile, sebbene possa essere riparato dalla virtù di Dio. Ora, il principio di quest'ordine è il fine ultimo, al quale l'uomo aderisce con la carità. Perciò tutti i peccati che ci distaccano da Dio, col distruggere la carità, di per sé importano un'obbligazione alla pena eterna.

[37277] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod poena peccato proportionatur secundum acerbitatem, tam in iudicio divino quam in humano, sicut Augustinus dicit, XXI de Civ. Dei, in nullo iudicio requiritur ut poena adaequetur culpae secundum durationem. Non enim quia adulterium vel homicidium in momento committitur, propter hoc momentanea poena punitur, sed quandoque quidem perpetuo carcere vel exilio, quandoque etiam morte. In qua non consideratur occisionis mora, sed potius quod in perpetuum auferatur a societate viventium, et sic repraesentat suo modo aeternitatem poenae inflictae divinitus. Iustum autem est, secundum Gregorium, quod qui in suo aeterno peccavit contra Deum, in aeterno Dei puniatur. Dicitur autem aliquis in suo aeterno peccasse, non solum secundum continuationem actus in tota hominis vita durantis, sed quia ex hoc ipso quod finem in peccato constituit, voluntatem habet in aeternum peccandi. Unde dicit Gregorius, XXXIV Moral., quod iniqui voluissent sine fine vivere, ut sine fine potuissent in iniquitatibus permanere.

 

[37277] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Sia nel giudizio divino che in quello umano la pena viene adeguata alla colpa quanto alla durezza; mai però viene adeguata alla colpa quanto alla durata. Infatti l'adulterio, o l'omicidio, commesso forse in un momento, non viene punito con la pena di un momento: ma viene punito talora col carcere perpetuo, o con l'esilio, oppure con la morte. Nella quale ultima non va considerata la durata dell'esecuzione, ma piuttosto la perpetua esclusione dal consorzio dei viventi: e così rappresenta in qualche modo l'eternità della pena inflitta da Dio. Del resto, come insegna S. Gregorio, è giusto che sia punito nell'eternità di Dio, chi osò peccare contro Dio nell'eternità del proprio essere. E si dice che uno ha peccato nell'eternità del proprio essere, non solo per la continuità dell'atto peccaminoso durante tutta la sua vita: ma perché costituendo il proprio fine nel peccato, mostra la volontà di voler peccare eternamente. Perciò S. Gregorio afferma, che "gli iniqui avrebbero voluto vivere senza fine, per poter rimanere senza fine nel peccato".

[37278] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod poena etiam quae secundum leges humanas infligitur, non semper est medicinalis ei qui punitur, sed solum aliis, sicut cum latro suspenditur, non ut ipse emendetur, sed propter alios, ut saltem metu poenae peccare desistant; secundum illud Prov. XIX, pestilente flagellato, stultus sapientior erit. Sic igitur et aeternae poenae reproborum a Deo inflictae, sunt medicinales his qui consideratione poenarum abstinent a peccatis; secundum illud Psalmi LIX, dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus, ut liberentur dilecti tui.

 

[37278] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 2
2. Anche le pene inflitte dalla legge umana non sempre sono medicinali per chi è punito, ma solo per gli altri: quando, p. es., viene impiccato un brigante, non lo si fa per la sua emendazione, ma per gli altri, perché desistano dal delinquere almeno per timore della pena; secondo il detto dei Proverbi: "Se batti l'insolente, anche lo stolto si fa accorto". Così anche le pene eterne dei reprobi inflitte da Dio sono medicinali per coloro che si astengono dai peccati alla considerazione di esse; secondo l'espressione del Salmo: "A quelli che ti temono hai dato un segno, onde sfuggano all'arco; perché sian liberati i tuoi prediletti".

[37279] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 3
Ad tertium dicendum quod Deus non delectatur in poenis propter ipsas; sed delectatur in ordine suae iustitiae, quae haec requirit.

 

[37279] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 3
3. Dio non gode delle pene in se stesse; ma si allieta per l'ordine della sua giustizia, che le richiede.

[37280] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 4
Ad quartum dicendum quod poena, etsi per accidens ordinetur ad naturam, per se tamen ordinatur ad privationem ordinis et ad Dei iustitiam. Et ideo, durante inordinatione, semper durat poena.

 

[37280] Iª-IIae q. 87 a. 3 ad 4
4. La punizione solo indirettamente (per accidens) è ordinata alla natura, ma di per sé è ordinata alla restaurazione dell'ordine leso, e alla giustizia di Dio. Perciò finché dura il disordine deve durare la pena.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se il peccato meriti una pena quantitativamente infinita


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 4

[37281] Iª-IIae q. 87 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod peccato debeatur poena infinita secundum quantitatem. Dicitur enim Ierem. X, corripe me, domine, veruntamen in iudicio, et non in furore tuo, ne forte ad nihilum redigas me. Ira autem vel furor Dei metaphorice significat vindictam divinae iustitiae, redigi autem in nihilum est poena infinita, sicut et ex nihilo aliquid facere est virtutis infinitae. Ergo secundum vindictam divinam, peccatum punitur poena infinita secundum quantitatem.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 4

[37281] Iª-IIae q. 87 a. 4 arg. 1
SEMBRA che il peccato meriti una pena quantitativamente infinita. Infatti:
1. Geremia così pregava: "Castigami, o Signore; ma con equanimità e non con tutto il tuo furore; affinché tu non mi riduca al niente". Ora, l'ira, o il furore di Dio indica metaforicamente la vendetta della giustizia divina: e ridurre al niente è una pena infinita, come è opera di una virtù infinita fare una cosa dal nulla. Dunque secondo la divina vendetta un peccato viene punito con una pena infinita nella sua gravità.

[37282] Iª-IIae q. 87 a. 4 arg. 2
Praeterea, quantitati culpae respondet quantitas poenae; secundum illud Deuteron. XXV, pro mensura peccati erit et plagarum modus. Sed peccatum quod contra Deum committitur, est infinitum, tanto enim gravius est peccatum, quanto maior est persona contra quam peccatur, sicut gravius peccatum est percutere principem quam percutere hominem privatum; Dei autem magnitudo est infinita. Ergo poena infinita debetur pro peccato quod contra Deum committitur.

 

[37282] Iª-IIae q. 87 a. 4 arg. 2
2. La gravità della pena corrisponde alla gravità della colpa; infatti sta scritto: "Secondo la gravezza del peccato sarà la misura della pena". Ma il peccato, che è commesso contro Dio, è infinito: poiché esso è tanto più grave, quanto maggiore è la persona offesa; è peccato più grave, p. es., percuotere il sovrano che percuotere una persona privata. Ora, la grandezza di Dio è infinita. Perciò il peccato commesso contro Dio merita una pena infinita.

[37283] Iª-IIae q. 87 a. 4 arg. 3
Praeterea, dupliciter est aliquid infinitum, duratione scilicet, et quantitate. Sed duratione est poena infinita. Ergo et quantitate.

 

[37283] Iª-IIae q. 87 a. 4 arg. 3
3. Una cosa può essere infinita in due maniere: nella sua durata, e nella sua grandezza. Ma la pena è infinita quanto alla durata. Dunque lo è pure nella sua grandezza.

[37284] Iª-IIae q. 87 a. 4 s. c.
Sed contra est quia secundum hoc omnium mortalium peccatorum poenae essent aequales, non enim est infinitum infinito maius.

 

[37284] Iª-IIae q. 87 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: Stando a codesta tesi le punizioni dei peccati mortali sarebbero tutte uguali: poiché un infinito non può essere maggiore di un altro infinito.

[37285] Iª-IIae q. 87 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod poena proportionatur peccato. In peccato autem duo sunt. Quorum unum est aversio ab incommutabili bono, quod est infinitum, unde ex hac parte peccatum est infinitum. Aliud quod est in peccato, est inordinata conversio ad commutabile bonum. Et ex hac parte peccatum est finitum, tum quia ipsum bonum commutabile est finitum; tum quia ipsa conversio est finita, non enim possunt esse actus creaturae infiniti. Ex parte igitur aversionis, respondet peccato poena damni, quae etiam est infinita, est enim amissio infiniti boni, scilicet Dei. Ex parte autem inordinatae conversionis, respondet ei poena sensus, quae etiam est finita.

 

[37285] Iª-IIae q. 87 a. 4 co.
RISPONDO: La pena è proporzionata alla colpa. E nella colpa si devono considerare due aspetti. Il primo è l'aversione dal bene eterno, che è infinito: e da questo lato il peccato è infinito. Il secondo è la conversione, o adesione disordinata al bene transitorio. E da questo lato il peccato è limitato, o finito: sia perché è tale il bene transitorio; sia perché l'adesione stessa è limitata, non potendo essere infinite le azioni della creatura. Perciò dal lato dell'aversione corrisponde al peccato la pena del danno, che è infinita: è infatti la perdita di un bene infinito, cioè di Dio. Invece dal lato della conversione disordinata corrisponde al peccato la pena del senso, che è limitata.

[37286] Iª-IIae q. 87 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod omnino redigi in nihilum eum qui peccat, non convenit divinae iustitiae, quia repugnat perpetuitati poenae, quae est secundum divinam iustitiam, ut dictum est. Sed in nihilum redigi dicitur qui spiritualibus bonis privatur; secundum illud I Cor. XIII, si non habuero caritatem, nihil sum.

 

[37286] Iª-IIae q. 87 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Non si addice alla divina giustizia annientare del tutto il peccatore; essendo ciò incompatibile con l'eternità della pena, che quella richiede, come abbiamo dimostrato nell'articolo precedente. Ma si dice che uno è ridotto al niente, quando viene privato dei beni spirituali, secondo l'espressione paolina: "Se non avessi la carità, non sarei nulla".

[37287] Iª-IIae q. 87 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod ratio illa procedit de peccato ex parte aversionis, sic enim homo contra Deum peccat.

 

[37287] Iª-IIae q. 87 a. 4 ad 2
2. L'argomento vale, se si considera il peccato dal lato dell'aversione: è così infatti che l'uomo pecca contro Dio.

[37288] Iª-IIae q. 87 a. 4 ad 3
Ad tertium dicendum quod duratio poenae respondet durationi culpae, non quidem ex parte actus, sed ex parte maculae, qua durante manet reatus poenae. Sed acerbitas poenae respondet gravitati culpae. Culpa autem quae est irreparabilis, de se habet quod perpetuo duret, et ideo debetur ei poena aeterna. Non autem ex parte conversionis habet infinitatem, et ideo non debetur ei ex hac parte poena infinita secundum quantitatem.

 

[37288] Iª-IIae q. 87 a. 4 ad 3
3. La durata della pena corrisponde alla durata della colpa, non quanto all'atto, bensì quanto alla macchia che esso produce, e che segna la durata dell'obbligazione alla pena. Invece la durezza della pena corrisponde alla gravità della colpa. Ora, una colpa irreparabile di suo ha una durata infinita: perciò merita una pena eterna. Ma dal lato della conversione questa infinità non esiste; perciò da questo lato la colpa non merita una pena infinita nella sua gravità.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se tutti i peccati rendano meritevoli di una pena eterna


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 5

[37289] Iª-IIae q. 87 a. 5 arg. 1
Ad quintum sic proceditur. Videtur quod omne peccatum inducat reatum poenae aeternae. Poena enim, ut dictum est, proportionatur culpae. Sed poena aeterna differt a temporali in infinitum. Nullum autem peccatum differre videtur ab altero in infinitum, cum omne peccatum sit humanus actus, qui infinitus esse non potest. Cum ergo alicui peccato debeatur poena aeterna, sicut dictum est, videtur quod nulli peccato debeatur poena temporalis tantum.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 5

[37289] Iª-IIae q. 87 a. 5 arg. 1
SEMBRA che tutti i peccati rendano meritevoli di una pena eterna. Infatti:
1. La pena, abbiamo detto, è proporzionata alla colpa. Ma la pena eterna differisce infinitamente da quella temporale. Mentre nessun peccato sembra differire infinitamente dall'altro, essendo ogni colpa un atto umano, che non può mai essere infinito. Perciò, siccome abbiamo già dimostrato che certi peccati meritano la pena eterna, sembra che a nessuno possa corrispondere una pena temporale.

[37290] Iª-IIae q. 87 a. 5 arg. 2
Praeterea, peccatum originale est minimum peccatorum, unde et Augustinus dicit, in Enchirid., quod mitissima poena est eorum qui pro solo peccato originali puniuntur. Sed peccato originali debetur poena perpetua, nunquam enim videbunt regnum Dei pueri qui sine Baptismo decesserunt cum originali peccato; ut patet per id quod dominus dicit, Ioan. III, nisi quis renatus fuerit denuo, non potest videre regnum Dei. Ergo multo magis omnium aliorum peccatorum poena erit aeterna.

 

[37290] Iª-IIae q. 87 a. 5 arg. 2
2. Il peccato originale è tra tutti il più piccolo: infatti S. Agostino scrive, che "la pena di coloro che son puniti per il peccato originale è quella più mite". Eppure al peccato originale corrisponde una pena eterna: infatti i bambini morti col peccato originale, senza battesimo, mai vedranno il regno di Dio: il che è evidente dalle parole del Signore: "Se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio". Dunque a maggior ragione sarà eterna la pena di tutti gli altri peccati.

[37291] Iª-IIae q. 87 a. 5 arg. 3
Praeterea, peccato non debetur maior poena ex hoc quod alteri peccato adiungitur, cum utrumque peccatum suam habeat poenam taxatam secundum divinam iustitiam. Sed peccato veniali debetur poena aeterna, si cum mortali peccato inveniatur in aliquo damnato, quia in Inferno nulla potest esse remissio. Ergo peccato veniali simpliciter debetur poena aeterna. Nulli ergo peccato debetur poena temporalis.

 

[37291] Iª-IIae q. 87 a. 5 arg. 3
3. Un peccato non merita una pena più grave, perché commesso con un altro, avendo ciascun di essi la pena rispettiva stabilita secondo la divina giustizia. Ora, se in un dannato, con altri peccati, si trova un peccato veniale, esso deve subire una pena eterna: poiché all'inferno non può esserci remissione alcuna. Perciò il peccato veniale merita senz'altro una pena eterna. E quindi a nessun peccato può corrispondere una pena temporale.

[37292] Iª-IIae q. 87 a. 5 s. c.
Sed contra est quod Gregorius dicit, in IV Dialog., quod quaedam leviores culpae post hanc vitam remittuntur. Non ergo omnia peccata aeterna poena puniuntur.

 

[37292] Iª-IIae q. 87 a. 5 s. c.
IN CONTRARIO: S. Gregorio insegna che certe colpe leggere vengono rimesse dopo questa vita. Dunque non tutti i peccati sono puniti con la pena eterna.

[37293] Iª-IIae q. 87 a. 5 co.
Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, peccatum causat reatum poenae aeternae, inquantum irreparabiliter repugnat ordini divinae iustitiae, per hoc scilicet quod contrariatur ipsi principio ordinis, quod est ultimus finis. Manifestum est autem quod in quibusdam peccatis est quidem aliqua inordinatio, non tamen per contrarietatem ad ultimum finem, sed solum circa ea quae sunt ad finem, inquantum plus vel minus debite eis intenditur, salvato tamen ordine ad ultimum finem, puta cum homo, etsi nimis ad aliquam rem temporalem afficiatur, non tamen pro ea vellet Deum offendere, aliquid contra praeceptum eius faciendo. Unde huiusmodi peccatis non debetur aeterna poena, sed temporalis.

 

[37293] Iª-IIae q. 87 a. 5 co.
RISPONDO: Come sopra abbiamo detto, il peccato causa l'obbligazione alla pena eterna, in quanto turba irreparabilmente l'ordine della divina giustizia, contrastando il principio stesso dell'ordine, che è l'ultimo fine. Ora, è evidente che in alcuni peccati c'è un certo disordine, però rispetto ai mezzi soltanto, senza contrastare con l'ultimo fine, occupandosi di essi più o meno del dovuto, salvo sempre l'ordine all'ultimo fine: come quando uno è troppo attaccato alle cose temporali, ma non fino al punto di voler offendere Dio, facendo però qualche cosa contro i di lui precetti. Perciò codesti peccati non meritano una pena eterna, ma temporale.

[37294] Iª-IIae q. 87 a. 5 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod peccata non differunt in infinitum ex parte conversionis ad bonum commutabile, in qua consistit substantia actus, differunt autem in infinitum ex parte aversionis. Nam quaedam peccata committuntur per aversionem ab ultimo fine, quaedam vero per inordinationem circa ea quae sunt ad finem. Finis autem ultimus ab his quae sunt ad finem, in infinitum differt.

 

[37294] Iª-IIae q. 87 a. 5 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. I peccati non differiscono infinitamente tra loro rispetto alla conversione verso i beni transitori, la quale costituisce la sostanza dell'atto: ma si ha tale differenza rispetto all'aversione. Infatti certi peccati sono commessi per un'aversione, o abbandono del fine ultimo: altri invece per un disordine rispetto ai mezzi. E la differenza tra fine e mezzi è infinita.

[37295] Iª-IIae q. 87 a. 5 ad 2
Ad secundum dicendum quod peccato originali non debetur poena aeterna ratione suae gravitatis, sed ratione conditionis subiecti, scilicet hominis qui sine gratia invenitur, per quam solam fit remissio poenae.

 

[37295] Iª-IIae q. 87 a. 5 ad 2
2. Al peccato originale corrisponde una pena eterna, non per la sua gravità, ma per la condizione del soggetto, cioè dell'uomo privo della grazia, la quale è il mezzo unico per la remissione della pena.

[37296] Iª-IIae q. 87 a. 5 ad 3
Et similiter dicendum est ad tertium, de veniali peccato. Aeternitas enim poenae non respondet quantitati culpae, sed irremissibilitati ipsius, ut dictum est.

 

[37296] Iª-IIae q. 87 a. 5 ad 3
3. Lo stesso si dica per la terza difficoltà, a proposito del peccato veniale. Infatti l'eternità della pena non è dovuta alla gravità della colpa, ma all'impossibilità di ottenerne la remissione, come abbiamo detto.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se l'obbligazione alla pena rimanga dopo il peccato


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 6

[37297] Iª-IIae q. 87 a. 6 arg. 1
Ad sextum sic proceditur. Videtur quod reatus poenae non remaneat post peccatum. Remota enim causa, removetur effectus. Sed peccatum est causa reatus poenae. Ergo, remoto peccato, cessat reatus poenae.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 6

[37297] Iª-IIae q. 87 a. 6 arg. 1
SEMBRA che l'obbligazione alla pena, o reato, non rimanga dopo il peccato. Infatti:
1. Eliminata la causa, si elimina anche l'effetto. Ma il peccato è causa dell'obbligazione alla pena. Dunque eliminato il peccato, cessa anche codesta obbligazione.

[37298] Iª-IIae q. 87 a. 6 arg. 2
Praeterea, peccatum removetur per hoc quod homo ad virtutem redit. Sed virtuoso non debetur poena, sed magis praemium. Ergo, remoto peccato, non remanet reatus poenae.

 

[37298] Iª-IIae q. 87 a. 6 arg. 2
2. Il peccato si elimina col ritorno alla virtù. Ora, a chi è virtuoso non è dovuta la pena, ma piuttosto il premio. Perciò, eliminata la colpa, non rimane l'obbligazione alla pena.

[37299] Iª-IIae q. 87 a. 6 arg. 3
Praeterea, poenae sunt medicinae, ut dicitur in II Ethic. Sed postquam aliquis iam est ab infirmitate curatus, non adhibetur sibi medicina. Ergo, remoto peccato, non remanet debitum poenae.

 

[37299] Iª-IIae q. 87 a. 6 arg. 3
3. Secondo Aristotele, "le pene sono delle medicine". Ma le medicine non si usano più, dopo che uno è guarito da una malattia. Quindi, eliminata la colpa, non rimane obbligo di pena.

[37300] Iª-IIae q. 87 a. 6 s. c.
Sed contra est quod dicitur II Reg. XII, quod David dixit ad Nathan, peccavi domino. Dixitque Nathan ad David, dominus quoque transtulit peccatum tuum, non morieris. Veruntamen quia blasphemare fecisti inimicos nomen domini, filius qui natus est tibi, morte morietur. Punitur ergo aliquis a Deo etiam postquam ei peccatum dimittitur. Et sic reatus poenae remanet, peccato remoto.

 

[37300] Iª-IIae q. 87 a. 6 s. c.
IN CONTRARIO: Narra la Scrittura, che "David disse a Natan: Ho peccato contro il Signore. E Natan rispose a David: Anche il Signore ti ha rimesso il peccato; tu non morirai. Tuttavia poiché hai fatto bestemmiare i nemici del Signore a cagione del tuo peccato, il figlio che ti è nato morirà". Dunque uno è punito anche dopo che il peccato è stato rimesso. Quindi l'obbligazione alla pena rimane anche dopo eliminata la colpa.

[37301] Iª-IIae q. 87 a. 6 co.
Respondeo dicendum quod in peccato duo possunt considerari, scilicet actus culpae, et macula sequens. Planum est autem quod, cessante actu peccati, remanet reatus, in omnibus peccatis actualibus. Actus enim peccati facit hominem reum poenae, inquantum transgreditur ordinem divinae iustitiae; ad quem non redit nisi per quandam recompensationem poenae, quae ad aequalitatem iustitiae reducit; ut scilicet qui plus voluntati suae indulsit quam debuit, contra mandatum Dei agens, secundum ordinem divinae iustitiae, aliquid contra illud quod vellet, spontaneus vel invitus patiatur. Quod etiam in iniuriis hominibus factis observatur, ut per recompensationem poenae reintegretur aequalitas iustitiae. Unde patet quod, cessante actu peccati vel iniuriae illatae, adhuc remanet debitum poenae. Sed si loquamur de ablatione peccati quantum ad maculam, sic manifestum est quod macula peccati ab anima auferri non potest, nisi per hoc quod anima Deo coniungitur, per cuius distantiam detrimentum proprii nitoris incurrebat, quod est macula, ut supra dictum est. Coniungitur autem homo Deo per voluntatem. Unde macula peccati ab homine tolli non potest nisi voluntas hominis ordinem divinae iustitiae acceptet, ut scilicet vel ipse poenam sibi spontaneus assumat in recompensationem culpae praeteritae, vel etiam a Deo illatam patienter sustineat, utroque enim modo poena rationem satisfactionis habet. Poena autem satisfactoria diminuit aliquid de ratione poenae. Est enim de ratione poenae quod sit contra voluntatem. Poena autem satisfactoria, etsi secundum absolutam considerationem sit contra voluntatem, tamen tunc, et pro hoc, est voluntaria. Unde simpliciter est voluntaria, secundum quid autem involuntaria, sicut patet ex his quae supra de voluntario et involuntario dicta sunt. Dicendum est ergo quod, remota macula culpae, potest quidem remanere reatus non poenae simpliciter, sed satisfactoriae.

 

[37301] Iª-IIae q. 87 a. 6 co.
RISPONDO: Nel peccato si possono considerare due cose: l'atto peccaminoso, e la macchia che ne deriva. Ora, è chiaro che in tutti i peccati attuali, terminato l'atto peccaminoso, rimane il reato. Infatti l'atto peccaminoso rende l'uomo reo e obbligato alla pena, in quanto trasgressore dell'ordine stabilito dalla giustizia divina. E in esso non rientra, se non mediante la soddisfazione della pena, che riporta l'uguaglianza della giustizia; in modo che colui il quale concesse alla propria volontà più del dovuto, agendo contro la legge di Dio, spontaneamente o contro voglia, soffra secondo l'ordine della giustizia divina il contrario di quanto vorrebbe. E questo, cioè il compensare con la pena per ristabilire l'equilibrio della giustizia, si osserva anche nelle ingiurie fatte agli uomini. Perciò è evidente che cessato l'atto del peccato, o dell'ingiuria, rimane ancora l'obbligo della pena.
Ma se parliamo della liberazione dal peccato rispetto alla macchia, è chiaro che quest'ultima si può togliere per il solo fatto che l'anima, col ricongiungersi a Dio, elimina la distanza da lui, la quale aveva portato in essa quella perdita di splendore che è appunto la macchia, come sopra abbiamo visto. Ora, l'uomo si ricongiunge a Dio con la volontà. Quindi non si può togliere da un uomo la macchia del peccato, senza che la sua volontà accetti l'ordine della divina giustizia, o accollandosi spontaneamente una pena in riparazione delle colpe passate, oppure sopportando pazientemente una sofferenza imposta dalla divina giustizia; perché in entrambi i casi la pena ha natura di soddisfazione. Ma la pena soddisfattoria toglie qualche cosa alla nozione di pena. Infatti la pena ha nel suo concetto di essere contraria alla volontà. Invece la pena soddisfattoria, sebbene considerata in astratto sia contraria alla volontà, tuttavia in concreto è volontaria. Perciò è volontaria in senso assoluto: com'è evidente da ciò che si disse a proposito della volontarietà. Si deve dunque concludere che, tolta la macchia della colpa, può rimanere l'obbligazione a una pena soddisfattoria, non già a una vera punizione.

[37302] Iª-IIae q. 87 a. 6 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod sicut, cessante actu peccati, remanet macula, ut supra dictum est; ita etiam potest remanere reatus. Cessante vero macula, non remanet reatus secundum eandem rationem, ut dictum est.

 

[37302] Iª-IIae q. 87 a. 6 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Dopo l'atto peccaminoso, come rimane la macchia, così può rimanere il reato. Ma scomparsa la macchia, il reato (ossia l'obbligazione alla pena) non rimane sotto il medesimo aspetto, come abbiamo visto.

[37303] Iª-IIae q. 87 a. 6 ad 2
Ad secundum dicendum quod virtuoso non debetur poena simpliciter, potest tamen sibi deberi poena ut satisfactoria, quia hoc ipsum ad virtutem pertinet, ut satisfaciat pro his in quibus offendit vel Deum vel hominem.

 

[37303] Iª-IIae q. 87 a. 6 ad 2
2. A chi è virtuoso non è dovuta una vera punizione, ma può essergli dovuta una pena soddisfattoria: poiché alla virtù spetta anche soddisfare per le offese fatte a Dio, o agli uomini.

[37304] Iª-IIae q. 87 a. 6 ad 3
Ad tertium dicendum quod, remota macula, sanatum est vulnus peccati quantum ad voluntatem. Requiritur autem adhuc poena ad sanationem aliarum virium animae, quae per peccatum praecedens deordinatae fuerunt, ut scilicet per contraria curentur. Requiritur etiam ad restituendum aequalitatem iustitiae; et ad amovendum scandalum aliorum, ut aedificentur in poena qui sunt scandalizati in culpa; ut patet ex exemplo de David inducto.

 

[37304] Iª-IIae q. 87 a. 6 ad 3
3. Tolta la macchia è risanata la piaga del peccato nella volontà. Ma si richiede ancora la pena per guarire le altre potenze dell'anima sconvolte dal peccato, mediante medicine contrarie. Si richiede anche, per ristabilire l'equilibrio della giustizia e per togliere lo scandalo altrui; in modo da edificare con la pena coloro che furono scandalizzati con la colpa; come avvenne nel ricordato esempio di David.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se tutte le pene (della vita) siano dovute a una colpa


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 7

[37305] Iª-IIae q. 87 a. 7 arg. 1
Ad septimum sic proceditur. Videtur quod non omnis poena sit propter aliquam culpam. Dicitur enim Ioan. IX, de caeco nato, neque hic peccavit, neque parentes eius, ut nasceretur caecus. Et similiter videmus quod multi pueri, etiam baptizati, graves poenas patiuntur, ut puta febres, Daemonum oppressiones, et multa huiusmodi, cum tamen in eis non sit peccatum, postquam sunt baptizati. Et antequam sint baptizati, non est in eis plus de peccato quam in aliis pueris, qui haec non patiuntur. Non ergo omnis poena est pro peccato.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 7

[37305] Iª-IIae q. 87 a. 7 arg. 1
SEMBRA che non tutte le pene (della vita), siano dovute a una colpa. Infatti:
1. A proposito del cieco nato si legge nel Vangelo: "Né lui né i suoi genitori hanno peccato, perché nascesse cieco". Così vediamo che molti bambini, anche battezzati, soffrono gravi pene: febbri, ossessioni diaboliche, e molte altre calamità del genere. E tuttavia in essi non c'è un peccato, essendo stati battezzati. E anche senza essere battezzati, in essi il peccato non si trova di più che negli altri bambini, i quali invece non soffrono. Perciò non tutte le penalità sono dovute al peccato.

[37306] Iª-IIae q. 87 a. 7 arg. 2
Praeterea, eiusdem rationis esse videtur quod peccatores prosperentur, et quod aliqui innocentes puniantur. Utrumque autem in rebus humanis frequenter invenimus, dicitur enim de iniquis in Psalmo LXXII, in labore hominum non sunt, et cum hominibus non flagellabuntur; et Iob XXI, impii vivunt, sublevati sunt, confortatique divitiis; et Habacuc I, dicitur, quare respicis contemptores et taces, conculcante impio iustiorem se? Non ergo omnis poena infligitur pro culpa.

 

[37306] Iª-IIae q. 87 a. 7 arg. 2
2. Sono ugualmente ingiuste la prosperità degli empi e la punizione degli innocenti. Ora, le due cose capitano di frequente nella vita umana; infatti a proposito degli empi sta scritto: "Ai travagli degli uomini non han parte, né con gli altri uomini son flagellati"; e altrove: "Gli empi vivono, s'innalzano e hanno grandi ricchezze"; e ancora: "Perché stai contemplando quei che commettono iniquità e taci, lasciando l'empio divorare chi è più giusto di lui?". Perciò non tutte le pene sono inflitte per una colpa.

[37307] Iª-IIae q. 87 a. 7 arg. 3
Praeterea, de Christo dicitur I Pet. II, quod peccatum non fecit, nec inventus est dolus in ore eius. Et tamen ibidem dicitur quod passus est pro nobis. Ergo non semper poena a Deo dispensatur pro culpa.

 

[37307] Iª-IIae q. 87 a. 7 arg. 3
3. Di Cristo si legge, che "non fece mai peccato, e mai sul labbro di lui fu trovato inganno". E tuttavia si dice ancora, che "ha sofferto per noi". Dunque non sempre Dio infligge la pena per una colpa.

[37308] Iª-IIae q. 87 a. 7 s. c.
Sed contra est quod dicitur Iob IV, quis unquam innocens periit? Aut quando recti deleti sunt? Quin potius vidi eos qui operantur iniquitatem, flante Deo, periisse. Et Augustinus dicit, in I Retract., quod omnis poena iusta est, et pro peccato aliquo impenditur.

 

[37308] Iª-IIae q. 87 a. 7 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: "Chi mai fu innocente e perì? O quando mai i retti furono distrutti? Al contrario, io ho visto che quei che compiono l'iniquità pel soffio di Dio periscono". E S. Agostino insegna, che "ogni pena è giusta, ed è inflitta per qualche peccato".

[37309] Iª-IIae q. 87 a. 7 co.
Respondeo dicendum quod, sicut iam dictum est, poena potest dupliciter considerari, simpliciter, et inquantum est satisfactoria. Poena quidem satisfactoria est quodammodo voluntaria. Et quia contingit eos qui differunt in reatu poenae, esse unum secundum voluntatem unione amoris, inde est quod interdum aliquis qui non peccavit, poenam voluntarius pro alio portat, sicut etiam in rebus humanis videmus quod aliquis in se transfert alterius debitum. Si vero loquamur de poena simpliciter, secundum quod habet rationem poenae, sic semper habet ordinem ad culpam propriam, sed quandoque quidem ad culpam actualem, puta quando aliquis vel a Deo vel ab homine pro peccato commisso punitur; quandoque vero ad culpam originalem. Et hoc quidem vel principaliter, vel consequenter. Principaliter quidem poena originalis peccati est quod natura humana sibi relinquitur, destituta auxilio originalis iustitiae, sed ad hoc consequuntur omnes poenalitates quae ex defectu naturae in hominibus contingunt. Sciendum tamen est quod quandoque aliquid videtur esse poenale, quod tamen non habet simpliciter rationem poenae. Poena enim est species mali, ut in primo dictum est. Malum autem est privatio boni. Cum autem sint plura hominis bona, scilicet animae, corporis, et exteriorum rerum; contingit interdum quod homo patiatur detrimentum in minori bono, ut augeatur in maiori, sicut cum patitur detrimentum pecuniae propter sanitatem corporis, vel in utroque horum propter salutem animae et propter gloriam Dei. Et tunc tale detrimentum non est simpliciter malum hominis, sed secundum quid. Unde non dicit simpliciter rationem poenae, sed medicinae, nam et medici austeras potiones propinant infirmis, ut conferant sanitatem. Et quia huiusmodi non proprie habent rationem poenae, non reducuntur ad culpam sicut ad causam, nisi pro tanto, quia hoc ipsum quod oportet humanae naturae medicinas poenales exhibere, est ex corruptione naturae, quae est poena originalis peccati. In statu enim innocentiae non oportuisset aliquem ad profectum virtutis inducere per poenalia exercitia. Unde hoc ipsum quod est poenale in talibus reducitur ad originalem culpam sicut ad causam.

 

[37309] Iª-IIae q. 87 a. 7 co.
RISPONDO: Come abbiamo già detto, la pena può essere di due qualità: vera punizione, e pena soddisfattoria. Quest'ultima è in qualche modo volontaria. E poiché capita che persone non obbligate alla pena formino volontariamente una cosa sola, con quelle che vi sono obbligate, per unione d'amore, può capitare che chi non ha peccato porti talora volontariamente la pena di un altro. Del resto anche negli affari vediamo che alcuni prendono su di sé i debiti di altri. - Se invece si parla della vera punizione come tale, allora questa è sempre connessa con una colpa propria: talora con un peccato attuale, come quando uno è punito da Dio, o dagli uomini per i peccati commessi; talora invece con il peccato originale, sia in maniera diretta, che in maniera derivata. Pena diretta del peccato originale è l'abbandono della natura umana a se stessa, priva del soccorso della giustizia originale. Ma da ciò derivano appunto tutte le penalità che colpiscono gli uomini per il guasto della loro natura.
Si noti però che talora sembra una pena quello che non lo è in senso assoluto. Infatti la pena è una suddivisione del male, come si disse nella Prima Parte. E il male è privazione di bene. Ora, essendo molteplici i beni dell'uomo, cioè beni dell'anima, del corpo, e delle cose esteriori, può capitare che uno soffra la perdita di un bene minore, per crescere in uno superiore. Uno, p. es., può accettare la perdita del danaro per la salute del corpo; oppure la perdita di entrambi per la salvezza dell'anima, e per la gloria di Dio. E allora tale perdita non è per l'uomo un male in senso assoluto, ma solo in senso relativo. Perciò non ha assolutamente parlando natura di pena, ma di medicina: infatti anche i medici somministrano delle medicine amare, per guarire gli infermi. E poiché codesti mali non sono delle vere punizioni, hanno un rapporto causale con la colpa solo in questo senso: che la necessità di curare la natura umana con queste pene medicinali deriva dalla corruzione della natura; che è punizione del peccato originale. Infatti nello stato d'innocenza non sarebbero stati necessari penosi esercizi per progredire nella virtù. Perciò l'aspetto penale di essi è un effetto del peccato originale.

[37310] Iª-IIae q. 87 a. 7 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod huiusmodi defectus eorum qui nascuntur, vel etiam puerorum, sunt effectus et poenae originalis peccati, ut dictum est. Et manent etiam post Baptismum, propter causam superius dictam. Et quod non sint aequaliter in omnibus, contingit propter naturae diversitatem, quae sibi relinquitur, ut supra dictum est. Ordinantur tamen huiusmodi defectus, secundum divinam providentiam, ad salutem hominum, vel eorum qui patiuntur, vel aliorum, qui poenis admonentur; et etiam ad gloriam Dei.

 

[37310] Iª-IIae q. 87 a. 7 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. I difetti di nascita, e quelli dei bambini sono effetto e pena del peccato originale, come abbiamo dimostrato sopra. E rimangono anche dopo il battesimo, per le ragioni sopra indicate. E la loro disuguaglianza dipende, come si è detto, dalla diversità della natura lasciata a se stessa. Tuttavia codesti difetti sono ordinati dalla divina provvidenza alla salvezza degli uomini, di quelli che ne soffrono, o di coloro per i quali sono un avvertimento; oppure alla gloria di Dio.

[37311] Iª-IIae q. 87 a. 7 ad 2
Ad secundum dicendum quod bona temporalia et corporalia sunt quidem aliqua bona hominis, sed parva, bona vero spiritualia sunt magna hominis bona. Pertinet igitur ad divinam iustitiam ut virtuosis det spiritualia bona; et de temporalibus bonis vel malis tantum det eis, quantum sufficit ad virtutem, ut enim Dionysius dicit, VIII cap. de Div. Nom., divinae iustitiae est non emollire optimorum fortitudinem materialium donationibus. Aliis vero hoc ipsum quod temporalia dantur, in malum spiritualium cedit. Unde in Psalmo LXXII concluditur, ideo tenuit eos superbia.

 

[37311] Iª-IIae q. 87 a. 7 ad 2
2. I beni temporali e materiali sono dei beni umani, ma piccoli: mentre i beni spirituali sono i grandi beni dell'uomo. Perciò è comprensibile che la divina giustizia dia alle persone virtuose beni spirituali, solo elargendo loro quel tanto di beni temporali che è sufficiente alla virtù. Infatti Dionigi scrive: "Non conviene alla divina giustizia snervare la fortezza dei migliori col dono di cose materiali". Invece agli altri vengono concessi i beni temporali, che però ridondano a loro danno. Infatti nel Salmo si legge: "Perciò li possiede l'orgoglio".

[37312] Iª-IIae q. 87 a. 7 ad 3
Ad tertium dicendum quod Christus poenam sustinuit satisfactoriam non pro suis, sed pro nostris peccatis.

 

[37312] Iª-IIae q. 87 a. 7 ad 3
3. Cristo sostenne una pena soddisfattoria per i peccati nostri, non già per i suoi.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Vizi e peccati > Il reato, od obbligazione alla pena > Se uno possa essere punito per i peccati altrui


Prima pars secundae partis
Quaestio 87
Articulus 8

[37313] Iª-IIae q. 87 a. 8 arg. 1
Ad octavum sic proceditur. Videtur quod aliquis puniatur pro peccato alterius. Dicitur enim Exodi XX, ego sum Deus Zelotes, visitans iniquitatem patrum in filios in tertiam et quartam generationem, his qui oderunt me. Et Matth. XXIII dicitur, ut veniat super vos omnis sanguis iustus qui effusus est super terram.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 87
Articolo 8

[37313] Iª-IIae q. 87 a. 8 arg. 1
SEMBRA che uno possa essere punito per i peccati altrui. Infatti:
1. Sta scritto nell'Esodo: "Io sono un Dio geloso, che visito l'iniquità dei padri nei figli, sino alla terza e quarta generazione di quelli che mi odiano". E in S. Matteo: "...affinché ricada su di voi tutto il sangue giusto sparso sulla terra".

[37314] Iª-IIae q. 87 a. 8 arg. 2
Praeterea, iustitia humana derivatur a iustitia divina. Sed secundum iustitiam humanam aliquando filii puniuntur pro parentibus, sicut patet in crimine laesae maiestatis. Ergo etiam secundum divinam iustitiam, unus punitur pro peccato alterius.

 

[37314] Iª-IIae q. 87 a. 8 arg. 2
2. La giustizia umana deriva dalla giustizia divina. Ora, secondo la giustizia umana sono puniti i figli per i loro genitori, come, p. es., nei delitti di lesa maestà. Perciò anche secondo la giustizia divina uno può essere punito per i peccati altrui.

[37315] Iª-IIae q. 87 a. 8 arg. 3
Praeterea, si dicatur filius non puniri pro peccato patris, sed pro peccato proprio, inquantum imitatur malitiam paternam, non magis hoc diceretur de filiis quam de extraneis, qui simili poena puniuntur his quorum peccata imitantur. Non ergo videtur quod filii pro peccatis propriis puniantur, sed pro peccatis parentum.

 

[37315] Iª-IIae q. 87 a. 8 arg. 3
3. Né vale rispondere che nel caso il figlio è punito non per il peccato di suo padre, ma per il proprio, in quanto imita quello paterno: poiché questo si potrebbe dire anche degli estranei, puniti da una pena analoga a quella con cui son puniti i peccati da essi imitati. Dunque i figli non sono puniti per i peccati propri, ma per quelli altrui.

[37316] Iª-IIae q. 87 a. 8 s. c.
Sed contra est quod dicitur Ezech. XVIII, filius non portabit iniquitatem patris.

 

[37316] Iª-IIae q. 87 a. 8 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: "Il figlio non porterà l'iniquità del padre".

[37317] Iª-IIae q. 87 a. 8 co.
Respondeo dicendum quod, si loquamur de poena satisfactoria, quae voluntarie assumitur, contingit quod unus portet poenam alterius inquantum sunt quodammodo unum, sicut iam dictum est. Si autem loquamur de poena pro peccato inflicta, inquantum habet rationem poenae, sic solum unusquisque pro peccato suo punitur, quia actus peccati aliquid personale est. Si autem loquamur de poena quae habet rationem medicinae, sic contingit quod unus punitur pro peccato alterius. Dictum est enim quod detrimenta corporalium rerum, vel etiam ipsius corporis, sunt quaedam poenales medicinae ordinatae ad salutem animae. Unde nihil prohibet talibus poenis aliquem puniri pro peccato alterius, vel a Deo vel ab homine, utpote filios pro patribus, et subditos pro dominis, inquantum sunt quaedam res eorum. Ita tamen quod, si filius vel subditus est particeps culpae, huiusmodi poenalis defectus habet rationem poenae quantum ad utrumque, scilicet eum qui punitur, et eum pro quo punitur. Si vero non sit particeps culpae, habet rationem poenae quantum ad eum pro quo punitur, quantum vero ad eum qui punitur, rationem medicinae tantum, nisi per accidens, inquantum peccato alterius consentit; ordinatur enim ei ad bonum animae, si patienter sustineat. Poenae vero spirituales non sunt medicinales tantum, quia bonum animae non ordinatur ad aliud melius bonum. Unde in bonis animae nullus patitur detrimentum sine culpa propria. Et propter hoc etiam talibus poenis, ut dicit Augustinus in epistola ad avitum, unus non punitur pro alio, quia quantum ad animam, filius non est res patris. Unde et huius causam dominus assignans, dicit, Ezech. XVIII, omnes animae meae sunt.

 

[37317] Iª-IIae q. 87 a. 8 co.
RISPONDO: Se parliamo di pene soddisfattorie volontariamente accettate, può capitare che uno porti, l'abbiamo detto, la pena di un altro in quanto forma quasi un'unità con lui. - Se invece parliamo di pene inflitte per dei peccati, cioè in quanto sono punizioni, allora ciascuno viene punito per i propri peccati: poiché l'atto del peccato è qualche cosa di personale. - Se poi parliamo di pene medicinali, allora può capitare che uno sia punito per i peccati altrui. Infatti nell'articolo precedente abbiamo detto che la perdita dei beni materiali, e degli stessi beni del corpo può essere una pena medicinale, ordinata alla salvezza dell'anima. Perciò niente impedisce che uno sia colpito con codeste pene, da Dio o dagli uomini, per i peccati di altri: e cioè un figlio per i peccati del padre, un suddito per quelli del suo signore, in quanto costoro sono qualche cosa di essi. Però se il figlio, o il suddito, è partecipe della colpa, codeste penalità sono punizioni per due versi: per chi è punito, e per colui che ha provocato la punizione. Se invece non è partecipe della colpa, allora sono punizioni soltanto per chi ha provocato la punizione: mentre per chi è punito si tratta solo di medicine, purché egli non abbia indirettamente consentito al peccato altrui; infatti queste penalità sono ordinate al bene dell'anima, se sopportate pazientemente.
Invece le pene spirituali non possono essere semplici medicine: poiché il bene dell'anima non può essere ordinato a un bene superiore. Perciò nei beni dell'anima nessuno soffre menomazioni, senza una colpa personale. E quindi, uno non soffre queste menomazioni per altri, come dice S. Agostino: poiché rispetto all'anima il figlio non è qualche cosa del padre. Ecco perché il Signore diceva ad Ezechiele: "Tutte le anime sono mie".

[37318] Iª-IIae q. 87 a. 8 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod utrumque dictum videtur esse referendum ad poenas temporales vel corporales, inquantum filii sunt res quaedam parentum, et successores praedecessorum. Vel si referatur ad poenas spirituales, hoc dicitur propter imitationem culpae, unde in Exodo additur, his qui oderunt me; et in Matthaeo dicitur, et vos implete mensuram patrum vestrorum. Dicit autem puniri peccata patrum in filiis, quia filii, in peccatis parentum nutriti, proniores sunt ad peccandum, tum propter consuetudinem; tum etiam propter exemplum, patrum quasi auctoritatem sequentes. Sunt etiam maiori poena digni, si, poenas patrum videntes, correcti non sunt. Ideo autem addidit, in tertiam et quartam generationem, quia tantum consueverunt homines vivere, ut tertiam et quartam generationem videant; et sic mutuo videre possunt et filii peccata patrum ad imitandum, et patres poenas filiorum ad dolendum.

 

[37318] Iª-IIae q. 87 a. 8 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. I due testi sembrano riferirsi alle pene temporali o corporali, in quanto i figli sono cosa dei loro genitori, e continuatori degli antenati. Oppure, se si riferiscono alle pene spirituali, sottintendono l'imitazione delle colpe: perciò nell'Esodo si parla di «quelli che mi odiano»; e in S. Matteo si dice: "E voi colmate la misura dei vostri padri". - La Scrittura afferma che i peccati dei genitori sono puniti nei figli, perché questi, educati nei peccati dei genitori, sono più portati alla colpa: sia per la familiarità, sia per l'esempio autorevole degli avi. E son degni di maggiore punizione, se, vedendo la pena dei genitori, non si sono corretti. - E aggiunge, "fino alla terza e alla quarta generazione", perché per gli uomini è possibile avere la vita così lunga da vedere la terza e la quarta generazione; ed entro questi limiti i figli possono vedere i peccati dei maggiori per imitarli, e questi possono vedere le pene dei figli per soffrirne.

[37319] Iª-IIae q. 87 a. 8 ad 2
Ad secundum dicendum quod poenae illae sunt corporales et temporales quas iustitia humana uni pro peccato alterius infligit. Et sunt remedia quaedam, vel medicinae, contra culpas sequentes, ut vel ipsi qui puniuntur, vel alii, cohibeantur a similibus culpis.

 

[37319] Iª-IIae q. 87 a. 8 ad 2
2. Le pene inflitte dalla legge umana e per i peccati altrui sono materiali e temporali. E sono rimedi, o medicine, contro eventuali colpe successive: e cioè per trattenere quelli che son puniti, o gli altri, da colpe consimili.

[37320] Iª-IIae q. 87 a. 8 ad 3
Ad tertium dicendum quod magis dicuntur puniri pro peccatis aliorum propinqui quam extranei, tum quia poena propinquorum quodammodo redundat in illos qui peccaverunt, ut dictum est, inquantum filius est quaedam res patris. Tum etiam quia et domestica exempla, et domesticae poenae, magis movent. Unde quando aliquis nutritus est in peccatis parentum, vehementius ea sequitur; et si ex eorum poenis non est deterritus, obstinatior videtur; unde et maiori poena dignus.

 

[37320] Iª-IIae q. 87 a. 8 ad 3
3. Si dice che per i peccati altrui sono più puniti i familiari che gli estranei, sia perché la punizione dei familiari ridonda in qualche modo su chi ha peccato, secondo le spiegazioni date, poiché il figlio è cosa del padre. Sia anche perché gli esempi di famiglia, e le loro punizioni, impressionano di più. Perciò quando uno è stato educato nei peccati dei genitori, li asseconda con più forza; e, se non viene intimorito dalle punizioni, è più ostinato; perciò merita una pena più grave.

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