I-II, 35

Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Prooemium

[35025] Iª-IIae q. 35 pr.
Deinde considerandum est de dolore et tristitia. Et circa hoc, primo considerandum est de tristitia, seu dolore, secundum se; secundo, de causis eius; tertio, de effectibus ipsius; quarto, de remediis eius; quinto, de bonitate vel malitia eius. Circa primum quaeruntur octo.
Primo, utrum dolor sit passio animae.
Secundo, utrum tristitia sit idem quod dolor.
Tertio, utrum tristitia, seu dolor, sit contraria delectationi.
Quarto, utrum omnis tristitia omni delectationi contrarietur.
Quinto, utrum delectationi contemplationis sit aliqua tristitia contraria.
Sexto, utrum magis fugienda sit tristitia, quam delectatio appetenda.
Septimo, utrum dolor exterior sit maior quam dolor interior.
Octavo, de speciebus tristitiae.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Proemio

[34992] Iª-IIae q. 34 pr.
Ed eccoci a trattare del dolore, o tristezza.
E su questo tema considereremo: primo, la tristezza, o dolore, in se medesima; secondo, le sue cause; terzo, gli effetti; quarto, i rimedi; quinto, la sua bontà o malizia.
Sul primo argomento tratteremo otto problemi:

1. Se il dolore sia una passione dell'anima;
2. Se la tristezza si identifichi col dolore;
3. Se la tristezza, o il dolore, sia contraria al piacere;
4. Se ogni tristezza sia contraria a tutti i piaceri;
5. Se al godimento della contemplazione si contrapponga qualche tristezza;
6. Se sia più forte la ripulsa del dolore, che la brama del piacere;
7. Se il dolore esterno sia più grande del dolore interno;
8. Le specie della tristezza.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se il dolore sia una passione dell'anima


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 1

[35026] Iª-IIae q. 35 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod dolor non sit passio animae. Nulla enim passio animae est in corpore. Sed dolor potest esse in corpore, dicit enim Augustinus, in libro de vera Relig., quod dolor qui dicitur corporis, est corruptio repentina salutis eius rei, quam, male utendo, anima corruptioni obnoxiavit. Ergo dolor non est passio animae.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 1

[35026] Iª-IIae q. 35 a. 1 arg. 1
SEMBRA che il dolore non sia una passione dell'anima. Infatti:
1. Nessuna passione dell'anima è nel corpo: come S. Agostino scrive, "il dolore attribuito al corpo è il guasto repentino della salute di esso, esposta alla corruzione dal cattivo uso dell'anima". Dunque il dolore non è una passione dell'anima.

[35027] Iª-IIae q. 35 a. 1 arg. 2
Praeterea, omnis passio animae pertinet ad vim appetitivam. Sed dolor non pertinet ad vim appetitivam, sed magis ad apprehensivam, dicit enim Augustinus, in libro de natura boni, quod dolorem in corpore facit sensus resistens corpori potentiori. Ergo dolor non est passio animae.

 

[35027] Iª-IIae q. 35 a. 1 arg. 2
2. Tutte le passioni dell'anima appartengono alle facoltà appetitive. Ma il dolore non spetta alle facoltà appetitive, bensì a quelle conoscitive: infatti S. Agostino scrive, che "il contrasto del senso con corpi più duri produce dolore nel corpo". Dunque il dolore non è una passione dell'anima.

[35028] Iª-IIae q. 35 a. 1 arg. 3
Praeterea, omnis passio animae pertinet ad appetitum animalem. Sed dolor non pertinet ad appetitum animalem, sed magis ad appetitum naturalem, dicit enim Augustinus, VIII super Gen. ad Litt., nisi aliquod bonum remansisset in natura, nullius boni amissi esset dolor in poena. Ergo dolor non est passio animae.

 

[35028] Iª-IIae q. 35 a. 1 arg. 3
3. Tutte le passioni dell'anima appartengono all'appetito animale. Ora, il dolore non appartiene all'appetito animale, ma piuttosto a quello naturale; infatti S. Agostino scrive: "Se nella natura non fosse rimasta una qualche bontà, non si sentirebbe dolore alcuno nel perdere in punizione un bene qualsiasi". Dunque il dolore non è una passione dell'anima.

[35029] Iª-IIae q. 35 a. 1 s. c.
Sed contra est quod Augustinus, XIV de Civ. Dei, ponit dolorem inter passiones animae, inducens illud Virgilii, hinc metuunt, cupiunt, gaudentque dolentque.

 

[35029] Iª-IIae q. 35 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: S. Agostino mette il dolore tra le passioni dell'anima, riportando le parole di Virgilio: "Donde temono, bramano, godono e si dolgono".

[35030] Iª-IIae q. 35 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod, sicut ad delectationem duo requiruntur, scilicet coniunctio boni, et perceptio huiusmodi coniunctionis; ita etiam ad dolorem duo requiruntur, scilicet coniunctio alicuius mali (quod ea ratione est malum, quia privat aliquod bonum); et perceptio huiusmodi coniunctionis. Quidquid autem coniungitur, si non habeat, respectu eius cui coniungitur, rationem boni vel mali, non potest causare delectationem vel dolorem. Ex quo patet quod aliquid sub ratione boni vel mali, est obiectum delectationis et doloris. Bonum autem et malum, inquantum huiusmodi, sunt obiecta appetitus. Unde patet quod delectatio et dolor ad appetitum pertinent. Omnis autem motus appetitivus, seu inclinatio consequens apprehensionem, pertinet ad appetitum intellectivum vel sensitivum, nam inclinatio appetitus naturalis non consequitur apprehensionem ipsius appetentis, sed alterius, ut in primo dictum est. Cum igitur delectatio et dolor praesupponant in eodem subiecto sensum vel apprehensionem aliquam, manifestum est quod dolor, sicut et delectatio, est in appetitu intellectivo vel sensitivo. Omnis autem motus appetitus sensitivi dicitur passio, ut supra dictum est. Et praecipue illi qui in defectum sonant. Unde dolor, secundum quod est in appetitu sensitivo, propriissime dicitur passio animae, sicut molestiae corporales proprie passiones corporis dicuntur. Unde et Augustinus, XIV de Civ. Dei, dolorem specialiter aegritudinem nominat.

 

[35030] Iª-IIae q. 35 a. 1 co.
RISPONDO: Come per il piacere si richiedono due cose, cioè l'unione con un bene e la conoscenza di codesta unione; così anche per il dolore si richiedono due cose: l'unione con un male (male appunto perché privazione di un bene); e la conoscenza di codesta unione. Ora, tutto ciò che viene a unirsi non può causare piacere o dolore, se non costituisce un bene o un male per il soggetto interessato. Da ciò risulta chiaro che una cosa è oggetto di piacere o di dolore sotto l'aspetto di bene o di male. Ora, bene e male, in quanto tali, sono oggetto dell'appetito. Quindi è evidente che il piacere e il dolore appartengono all'appetito.
Ma ogni moto o inclinazione dell'appetito, che segue la conoscenza, appartiene all'appetito intellettivo, o a quello sensitivo: infatti l'inclinazione dell'appetito naturale non segue la conoscenza del soggetto appetente, ma di un altro, come abbiamo spiegato nella Prima Parte. E poiché il piacere e il dolore presuppongono nel soggetto medesimo il senso o un'altra conoscenza, è chiaro che il dolore, come il piacere, risiede nell'appetito o intellettuale o sensitivo. Ma ogni moto dell'appetito sensitivo, secondo le spiegazioni già date, si denomina passione: e specialmente quei moti che denotano difetto.
Perciò il dolore, in quanto si trova nell'appetito sensitivo, si denomina in senso rigorosissimo una passione dell'anima: come i disturbi fisici si denominano propriamente passioni del corpo. Per questo S. Agostino dà specialmente al dolore il nome di "infermità".

[35031] Iª-IIae q. 35 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod dolor dicitur esse corporis, quia causa doloris est in corpore, puta cum patimur aliquod nocivum corpori. Sed motus doloris semper est in anima, nam corpus non potest dolere nisi dolente anima, ut Augustinus dicit.

 

[35031] Iª-IIae q. 35 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Si dice che un dolore è nel corpo, perché nel corpo si trova la causa di esso: p. es., quando soffriamo qualche cosa che nuoce al corpo. Ma il moto del dolore è sempre nell'anima: infatti, come si esprime S. Agostino, "il corpo non può soffrire senza che soffra l'anima".

[35032] Iª-IIae q. 35 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod dolor dicitur esse sensus, non quia sit actus sensitivae virtutis, sed quia requiritur ad dolorem corporalem, sicut ad delectationem.

 

[35032] Iª-IIae q. 35 a. 1 ad 2
2. Si dice che il dolore è una sensazione, non perché è l'atto di una facoltà sensitiva; ma perché la sensazione si richiede per il dolore, come per il piacere corporale.

[35033] Iª-IIae q. 35 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod dolor de amissione boni demonstrat bonitatem naturae, non quia dolor sit actus naturalis appetitus, sed quia natura aliquid appetit ut bonum, quod cum removeri sentitur, sequitur doloris passio in appetitu sensitivo.

 

[35033] Iª-IIae q. 35 a. 1 ad 3
3. Il dolore per la perdita di un bene dimostra la bontà della natura; non perché il dolore è un atto dell'appetito naturale, ma perché il tendere verso un dato bene provoca la passione del dolore nell'appetito sensitivo, quando si ha la sensazione di perderlo.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se la tristezza si identifichi col dolore


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 2

[35034] Iª-IIae q. 35 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod tristitia non sit dolor. Dicit enim Augustinus, XIV de Civ. Dei, quod dolor in corporibus dicitur. Tristitia autem dicitur magis in anima. Ergo tristitia non est dolor.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 2

[35034] Iª-IIae q. 35 a. 2 arg. 1
SEMBRA che la tristezza non sia un dolore. Infatti:
1. S. Agostino afferma, che "si parla di dolore nei corpi". La tristezza invece è piuttosto nell'anima. Dunque la tristezza non è un dolore.

[35035] Iª-IIae q. 35 a. 2 arg. 2
Praeterea, dolor non est nisi de praesenti malo. Sed tristitia potest esse de praeterito et de futuro, sicut poenitentia est tristitia de praeterito, et anxietas de futuro. Ergo tristitia omnino a dolore differt.

 

[35035] Iª-IIae q. 35 a. 2 arg. 2
2. Il dolore è soltanto di un male presente. Invece la tristezza può essere di un male passato o futuro: la penitenza, p. es., è tristezza per il passato, e l'ansietà per il futuro. Dunque la tristezza è del tutto differente dal dolore.

[35036] Iª-IIae q. 35 a. 2 arg. 3
Praeterea, dolor non videtur consequi nisi sensum tactus. Sed tristitia potest consequi ex omnibus sensibus. Ergo tristitia non est dolor, sed se habet in pluribus.

 

[35036] Iª-IIae q. 35 a. 2 arg. 3
3. Il dolore sembra derivare soltanto dal senso del tatto. Ora, la tristezza può derivare da tutti i sensi. Dunque la tristezza non è il dolore, essendo più estesa di esso.

[35037] Iª-IIae q. 35 a. 2 s. c.
Sed contra est quod apostolus dicit, ad Rom. IX, tristitia est mihi magna, et continuus dolor cordi meo, pro eodem utens tristitia et dolore.

 

[35037] Iª-IIae q. 35 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: L'Apostolo scrive usando nello stesso senso tristezza e dolore: "grande tristezza io provo, e continuo dolore è nel mio cuore".

[35038] Iª-IIae q. 35 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod delectatio et dolor ex duplici apprehensione causari possunt, scilicet ex apprehensione exterioris sensus, et ex apprehensione interiori sive intellectus sive imaginationis. Interior autem apprehensio ad plura se extendit quam exterior, eo quod quaecumque cadunt sub exteriori apprehensione, cadunt sub interiori, sed non e converso. Sola igitur illa delectatio quae ex interiori apprehensione causatur, gaudium nominatur, ut supra dictum est. Et similiter ille solus dolor qui ex apprehensione interiori causatur, nominatur tristitia. Et sicut illa delectatio quae ex exteriori apprehensione causatur, delectatio quidem nominatur, non autem gaudium; ita ille dolor qui ex exteriori apprehensione causatur, nominatur quidem dolor, non autem tristitia. Sic igitur tristitia est quaedam species doloris, sicut gaudium delectationis.

 

[35038] Iª-IIae q. 35 a. 2 co.
RISPONDO: Il piacere e il dolore possono essere prodotti da due diverse cognizioni: dalla percezione dei sensi esterni, e dalla conoscenza inferiore, sia dell'intelletto che dell'immaginativa. Ora, la conoscenza inferiore si estende di più che quella esterna: poiché tutto ciò che cade sotto la percezione esterna cade anche sotto quella interiore, ma non viceversa. Ecco perché soltanto il piacere prodotto dalla conoscenza inferiore viene denominato gioia, come sopra abbiamo visto. Allo stesso modo il solo dolore derivante dalla conoscenza interiore viene denominato tristezza. E come il piacere prodotto dalla percezione esterna viene denominato piacere, ma non gioia; così il dolore prodotto dalla percezione esterna viene denominato dolore, ma non tristezza. Perciò la tristezza è una specie del dolore, come la gioia è una specie del piacere.

[35039] Iª-IIae q. 35 a. 2 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod Augustinus loquitur ibi quantum ad usum vocabuli, quia dolor magis usitatur in corporalibus doloribus, qui sunt magis noti, quam in doloribus spiritualibus.

 

[35039] Iª-IIae q. 35 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. S. Agostino intende parlare dell'uso del termine: poiché dolore si usa di più per i dolori corporali meglio conosciuti, che per i dolori spirituali.

[35040] Iª-IIae q. 35 a. 2 ad 2
Ad secundum dicendum quod sensus exterior non percipit nisi praesens, vis autem cognitiva interior potest percipere praesens, praeteritum et futurum. Et ideo tristitia potest esse de praesenti, praeterito et futuro, dolor autem corporalis, qui sequitur apprehensionem sensus exterioris, non potest esse nisi de praesenti.

 

[35040] Iª-IIae q. 35 a. 2 ad 2
2. I sensi esterni percepiscono solo il presente; invece le facoltà conoscitive interiori possono conoscere il presente, il passato e il futuro. Perciò la tristezza può essere del presente, del passato e del futuro: invece il dolore fisico, che accompagna la percezione dei sensi esterni, è solo del presente.

[35041] Iª-IIae q. 35 a. 2 ad 3
Ad tertium dicendum quod sensibilia tactus sunt dolorosa, non solum inquantum sunt improportionata virtuti apprehensivae, sed etiam inquantum contrariantur naturae. Aliorum vero sensuum sensibilia possunt quidem esse improportionata virtuti apprehensivae, non tamen contrariantur naturae, nisi in ordine ad sensibilia tactus. Unde solus homo, qui est animal perfectum in cognitione, delectatur in sensibilibus aliorum sensuum secundum se ipsa, alia vero animalia non delectantur in eis nisi secundum quod referuntur ad sensibilia tactus, ut dicitur in III Ethic. Et ideo de sensibilibus aliorum sensuum non dicitur esse dolor, secundum quod contrariatur delectationi naturali, sed magis tristitia, quae contrariatur gaudio animali. Sic igitur si dolor accipiatur pro corporali dolore, quod usitatius est, dolor ex opposito dividitur contra tristitiam, secundum distinctionem apprehensionis interioris et exterioris; licet, quantum ad obiecta, delectatio ad plura se extendat quam dolor corporalis. Si vero dolor accipiatur communiter, sic dolor est genus tristitiae, ut dictum est.

 

[35041] Iª-IIae q. 35 a. 2 ad 3
3. Gli oggetti del tatto possono essere dolorosi, non solo perché sproporzionati alla facoltà conoscitiva, ma anche perché contrari alla natura. Invece gli oggetti degli altri sensi possono essere sproporzionati alla facoltà conoscitiva, ma non possono essere contrari alla natura, se non in ordine agli oggetti del tatto. Perciò soltanto l'uomo, animale dalla cognizione perfetta, prova piacere direttamente per l'oggetto degli altri sensi: mentre gli altri animali provano piacere per esso solo in vista dell'oggetto del tatto, come Aristotele osserva. Quindi per altri sensi non si parla di dolore, prendendo qui dolore come contrapposto del piacere naturale; ma piuttosto di tristezza, che è il contrario della gioia propria dell'anima. Perciò, se per dolore s'intende il dolore fisico, ed è questo il senso più usato, il dolore si contraddistingue dalla tristezza, in base alla distinzione tra conoscenza interna e conoscenza esterna; si noti però che il piacere naturale si estende a un numero maggiore di oggetti che il dolore naturale. Se invece si prende il dolore come termine generico, allora il dolore è il genere cui appartiene la tristezza, come abbiamo già notato.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se la tristezza, o dolore, sia il contrario del piacere


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 3

[35042] Iª-IIae q. 35 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod dolor delectationi non contrarietur. Unum enim contrariorum non est causa alterius. Sed tristitia potest esse causa delectationis, dicitur enim Matth. V, beati qui lugent, quoniam ipsi consolabuntur. Ergo non sunt contraria.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 3

[35042] Iª-IIae q. 35 a. 3 arg. 1
SEMBRA che il dolore non sia contrario al piacere. Infatti:
1. Una cosa non può essere causa del suo contrario. Ma la tristezza può esser causa del piacere; poiché sta scritto: "Beati coloro che piangono, perché essi saranno consolati". Dunque dolore e tristezza non sono contrari.

[35043] Iª-IIae q. 35 a. 3 arg. 2
Praeterea, unum contrariorum non denominat aliud. Sed in quibusdam ipse dolor vel tristitia est delectabilis, sicut Augustinus dicit, in III Confess., quod dolor in spectaculis delectat. Et IV Confess., dicit quod fletus amara res est, et tamen quandoque delectat. Ergo dolor non contrariatur delectationi.

 

[35043] Iª-IIae q. 35 a. 3 arg. 2
2. Tra due contrari l'uno non può qualificare l'altro. Ora, in certi casi il dolore stesso, o tristezza, è piacevole: poiché, come S. Agostino nota, negli spettacoli il dolore piace. E aggiunge che "il pianto è una cosa amara, che però qualche volta riesce gradita". Dunque il dolore non è il contrario del piacere.

[35044] Iª-IIae q. 35 a. 3 arg. 3
Praeterea, unum contrariorum non est materia alterius, quia contraria simul esse non possunt. Sed dolor potest esse materia delectationis, dicit enim Augustinus, in libro de poenitentia, semper poenitens doleat, et de dolore gaudeat. Et philosophus dicit, in IX Ethic., quod e converso malus dolet de eo quod delectatus est. Ergo delectatio et dolor non sunt contraria.

 

[35044] Iª-IIae q. 35 a. 3 arg. 3
3. Uno dei contrari non è materia dell'altro: poiché i contrari non possono stare insieme. Ma il dolore può essere materia del piacere; infatti S. Agostino scrive: "Il penitente si dolga sempre, e goda del suo dolore". Il Filosofo afferma che, all'inverso, "chi ha fatto del male si rattrista di ciò che ha goduto". Dunque piacere e dolore non sono contrari.

[35045] Iª-IIae q. 35 a. 3 s. c.
Sed contra est quod Augustinus dicit, XIV de Civ. Dei, quod laetitia est voluntas in eorum consensione quae volumus, tristitia autem est voluntas in dissensione ab his quae nolumus. Sed consentire et dissentire sunt contraria. Ergo laetitia et tristitia sunt contraria.

 

[35045] Iª-IIae q. 35 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: Scrive S. Agostino, che "la gioia è la volontà in accordo con ciò che vogliamo: mentre la tristezza è la volontà che è in disaccordo con ciò che non vogliamo". Ora, accordo e disaccordo sono cose contrarie. Dunque gioia e tristezza sono contrarie.

[35046] Iª-IIae q. 35 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod, sicut philosophus dicit X Metaphys., contrarietas est differentia secundum formam. Forma autem, seu species, passionis et motus sumitur ex obiecto vel termino. Unde, cum obiecta delectationis et tristitiae, seu doloris, sint contraria, scilicet bonum praesens et malum praesens, sequitur quod dolor et delectatio sint contraria.

 

[35046] Iª-IIae q. 35 a. 3 co.
RISPONDO: Come insegna il Filosofo, la contrarietà è una differenza formale. Ma la forma, ovvero la specie delle passioni, come del moto, si desume dal loro oggetto, o termine. Ora, gli oggetti del piacere e del dolore, o tristezza, cioè il bene presente e il male presente, sono contrari. Perciò dolore e piacere sono contrari.

[35047] Iª-IIae q. 35 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod nihil prohibet unum contrariorum esse causam alterius per accidens. Sic autem tristitia potest esse causa delectationis. Uno quidem modo, inquantum tristitia de absentia alicuius rei, vel de praesentia contrarii, vehementius quaerit id in quo delectetur, sicut sitiens vehementius quaerit delectationem potus, ut remedium contra tristitiam quam patitur. Alio modo, inquantum ex magno desiderio delectationis alicuius, non recusat aliquis tristitias perferre, ut ad illam delectationem perveniat. Et utroque modo luctus praesens ad consolationem futurae vitae perducit. Quia ex hoc ipso quod homo luget pro peccatis, vel pro dilatione gloriae, meretur consolationem aeternam. Similiter etiam meretur eam aliquis ex hoc quod, ad ipsam consequendam, non refugit labores et angustias propter ipsam sustinere.

 

[35047] Iª-IIae q. 35 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Niente impedisce che uno dei contrari sia per accidens causa dell'altro. E la tristezza può causare il piacere in codesto modo. Prima di tutto perché la tristezza, dovuta alla mancanza di una cosa, o alla presenza del suo contrario, fa cercare con più impegno l'oggetto che piace: chi, p. es., soffre la sete, cerca con più impegno il godimento del bere, come rimedio alla tristezza che lo affligge. In secondo luogo perché per il grande desiderio di un dato piacere, uno non rifiuta di sopportare dei dolori, per raggiungere codesto godimento. E in tutti e due i modi la presente tristezza conduce alla consolazione della vita futura. Poiché per il fatto stesso che l'uomo piange a motivo dei peccati e del ritardo della gloria, merita la consolazione della vita eterna. Così pure la merita chi non risparmia travagli e amarezze, per poterla raggiungere.

[35048] Iª-IIae q. 35 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod dolor ipse potest esse delectabilis per accidens, inquantum scilicet habet adiunctam admirationem, ut in spectaculis; vel inquantum facit recordationem rei amatae, et facit percipere amorem eius, de cuius absentia doletur. Unde, cum amor sit delectabilis, et dolor et omnia quae ex amore consequuntur, inquantum in eis sentitur amor, sunt delectabilia. Et propter hoc etiam dolores in spectaculis possunt esse delectabiles, inquantum in eis sentitur aliquis amor conceptus ad illos qui in spectaculis commemorantur.

 

[35048] Iª-IIae q. 35 a. 3 ad 2
2. Il dolore stesso può essere piacevole per accidens: cioè perché è accompagnato dalla meraviglia, come negli spettacoli, oppure perché implica il ricordo di una cosa amata, facendone sentire l'amore mediante la pena per la sua mancanza. E poiché l'amore è piacevole, fa sì che siano piacevoli e il dolore e tutte le altre cose che dall'amore derivano, in quanto servono a far sentire l'amore. Anche per questo motivo può esser piacevole il dolore negli spettacoli; poiché in esso si fa sentire l'amore che uno ha concepito verso i personaggi ricordati.

[35049] Iª-IIae q. 35 a. 3 ad 3
Ad tertium dicendum quod voluntas et ratio supra suos actus reflectuntur, inquantum ipsi actus voluntatis et rationis accipiuntur sub ratione boni vel mali. Et hoc modo tristitia potest esse materia delectationis, vel e converso, non per se, sed per accidens, inquantum scilicet utrumque accipitur in ratione boni vel mali.

 

[35049] Iª-IIae q. 35 a. 3 ad 3
3. La volontà e la ragione possono riflettere sui loro atti, considerando gli atti stessi della volontà e della ragione sotto l'aspetto di atti buoni o cattivi. E in tal modo non direttamente, ma per accidens, la tristezza può essere materia del godimento, e viceversa: in quanto, cioè, l'una e l'altro vengono considerati buoni, o cattivi.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se ogni tristezza sia contraria a tutti i piaceri


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 4

[35050] Iª-IIae q. 35 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod omnis tristitia omni delectationi contrarietur. Sicut enim albedo et nigredo sunt contrariae species coloris, ita delectatio et tristitia sunt contrariae species animae passionum. Sed albedo et nigredo universaliter sibi opponuntur. Ergo etiam delectatio et tristitia.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 4

[35050] Iª-IIae q. 35 a. 4 arg. 1
SEMBRA che ogni tristezza sia contraria a tutti i piaceri. Infatti:
1. Come il bianco e il nero sono specie contrarie del colore, così piacere e tristezza sono specie contrarie delle passioni. Ma bianco e nero sono sempre contrapposti. Dunque lo sono pure sempre il piacere e la tristezza.

[35051] Iª-IIae q. 35 a. 4 arg. 2
Praeterea, medicinae per contraria fiunt. Sed quaelibet delectatio est medicina contra quamlibet tristitiam, ut patet per philosophum, in VII Ethic. Ergo quaelibet delectatio cuilibet tristitiae contrariatur.

 

[35051] Iª-IIae q. 35 a. 4 arg. 2
2. I rimedi si desumono da cose contrarie. Ora, qualsiasi piacere è un rimedio contro qualsiasi tristezza, come spiega Aristotele. Dunque qualsiasi piacere è contrario a qualsiasi tristezza.

[35052] Iª-IIae q. 35 a. 4 arg. 3
Praeterea, contraria sunt quae se invicem impediunt. Sed quaelibet tristitia impedit quamlibet delectationem, ut patet per illud quod dicitur X Ethic. Ergo quaelibet tristitia cuilibet delectationi contrariatur.

 

[35052] Iª-IIae q. 35 a. 4 arg. 3
3. Cose che si ostacolano a vicenda sono contrarie. Ma qualsiasi tristezza ostacola qualsiasi piacere, come Aristotele dimostra. Dunque, qualsiasi tristezza è contraria a qualsiasi piacere.

[35053] Iª-IIae q. 35 a. 4 s. c.
Sed contra, contrariorum non est eadem causa. Sed ab eodem habitu procedit quod aliquis gaudeat de uno, et tristetur de opposito, ex caritate enim contingit gaudere cum gaudentibus, et flere cum flentibus, ut dicitur Rom. XII. Ergo non omnis tristitia omni delectationi contrariatur.

 

[35053] Iª-IIae q. 35 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: I contrari non derivano da una stessa causa. Ora, invece, può derivare da una medesima virtù godere di una cosa, e rattristarsi del suo opposto; infatti, come scrive S. Paolo, deriva dalla carità "godere con chi gode", e "piangere con chi piange". Dunque non è vero che ogni tristezza sia contraria a tutti i piaceri.

[35054] Iª-IIae q. 35 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod, sicut dicitur in X Metaphys., contrarietas est differentia secundum formam. Forma autem est et generalis, et specialis. Unde contingit esse aliqua contraria secundum formam generis, sicut virtus et vitium; et secundum formam speciei, sicut iustitia et iniustitia. Est autem considerandum quod quaedam specificantur secundum formas absolutas, sicut substantiae et qualitates, quaedam vero specificantur per comparationem ad aliquid extra, sicut passiones et motus recipiunt speciem ex terminis sive ex obiectis. In his ergo quorum species considerantur secundum formas absolutas, contingit quidem species quae continentur sub contrariis generibus, non esse contrarias secundum rationem speciei, non tamen contingit quod habeant aliquam affinitatem vel convenientiam ad invicem. Intemperantia enim et iustitia, quae sunt in contrariis generibus, virtute scilicet et vitio, non contrariantur ad invicem secundum rationem propriae speciei, nec tamen habent aliquam affinitatem vel convenientiam ad invicem. Sed in illis quorum species sumuntur secundum habitudinem ad aliquid extrinsecum, contingit quod species contrariorum generum non solum non sunt contrariae ad invicem, sed etiam habent quandam convenientiam et affinitatem ad invicem, eo quod eodem modo se habere ad contraria, contrarietatem inducit, sicut accedere ad album et accedere ad nigrum habent rationem contrarietatis; sed contrario modo se habere ad contraria, habet rationem similitudinis, sicut recedere ab albo et accedere ad nigrum. Et hoc maxime apparet in contradictione, quae est principium oppositionis, nam in affirmatione et negatione eiusdem consistit oppositio, sicut album et non album; in affirmatione autem unius oppositorum et negatione alterius, attenditur convenientia et similitudo, ut si dicam nigrum et non album. Tristitia autem et delectatio, cum sint passiones, specificantur ex obiectis. Et quidem secundum genus suum, contrarietatem habent, nam unum pertinet ad prosecutionem, aliud vero ad fugam, quae se habent in appetitu sicut affirmatio et negatio in ratione, ut dicitur in VI Ethic. Et ideo tristia et delectatio quae sunt de eodem, habent oppositionem ad invicem secundum speciem. Tristitia vero et delectatio de diversis, si quidem illa diversa non sint opposita, sed disparata, non habent oppositionem ad invicem secundum rationem speciei, sed sunt etiam disparatae, sicut tristari de morte amici, et delectari in contemplatione. Si vero illa diversa sint contraria, tunc delectatio et tristitia non solum non habent contrarietatem secundum rationem speciei, sed etiam habent convenientiam et affinitatem, sicut gaudere de bono, et tristari de malo.

 

[35054] Iª-IIae q. 35 a. 4 co.
RISPONDO: Come spiega Aristotele, la contrarietà è una differenza formale. Ora, la forma può essere generica, o specifica. Perciò avviene che alcune cose sono contrarie per la forma del genere: virtù e vizio, p. es.; e altre per la forma della specie: come giustizia e ingiustizia.
Si deve però notare che alcune cose sono specificate da forme autonome, come le sostanze e le qualità; altre invece sono specificate in ordine a qualcosa di estrinseco: le passioni e i moti, p. es., ricevono la specie dal loro termine, od oggetto. Ebbene, nelle cose che devono le loro specie a forme autonome, può capitare che specie appartenenti a generi contrari non siano contrarie nella loro ragione specifica; però si esclude una qualsiasi affinità o convenienza reciproca.
Infatti l'intemperanza e la giustizia, che appartengono a generi contrari, cioè l'una al vizio e l'altra alla virtù, non sono contrarie per la loro ragione specifica: però non hanno neppure alcuna affinità o convenienza reciproca. - Invece nelle cose che devono la loro specie a qualcosa di estrinseco, può capitare che specie di generi contrari, pur essendo contrarie tra loro, abbiano dei punti di contatto e delle affinità reciproche: poiché l'identico comportamento verso termini tra loro contrari determina una contrarietà, così l'atto di avvicinarsi al bianco e l'atto di avvicinarsi al nero fanno contrarietà; invece il contrario comportamento verso termini tra loro contrari, p. es., l'allontanarsi dal bianco e l'accedere al nero, determinano una somiglianza. E questo si rileva specialmente nella contraddizione, che è il principio di ogni opposizione: infatti si ha opposizione nell'affermare e nel negare la stessa cosa, p. es.: questa cosa è bianca, questa cosa non è bianca; invece nell'affermazione di un opposto e nella negazione dell'altro si riscontra una coincidenza e una somiglianza, come quando dico: questa cosa non è nera, e questa cosa non è bianca.
Ora, le passioni della tristezza e del piacere sono specificate dall'oggetto. E, stando al loro genere sono contrarie: infatti l'una ha di mira il conseguimento, l'altra la fuga che, a dire di Aristotele, "rispetto all'appetito sono come l'affermazione e la negazione rispetto alla ragione". Perciò dolore e piacere riguardo al medesimo oggetto sono specificamente contrari tra loro. Invece tristezza e gioia per oggetti diversi, non sono termini opposti ma disparati: l'amarezza per la morte di un amico, e la gioia della contemplazione, p. es., non si contrappongono specificamente fra loro, ma sono cose disparate. Se poi quegli oggetti diversi sono contrari, allora piacere e tristezza, oltre a non essere specificamente contrari, sono addirittura armonizzati ed affini: tali sono, p. es., il godimento del bene, e la tristezza per il male.

[35055] Iª-IIae q. 35 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod albedo et nigredo non habent speciem ex habitudine ad aliquid exterius, sicut delectatio et tristitia. Unde non est eadem ratio.

 

[35055] Iª-IIae q. 35 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il bianco e il nero non devono la loro specie a una relazione con qualche cosa di esterno, come il piacere e la tristezza. Dunque il confronto non regge.

[35056] Iª-IIae q. 35 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod genus sumitur ex materia, ut patet in VIII Metaphys. In accidentibus autem loco materiae est subiectum. Dictum est autem quod delectatio et tristitia contrariantur secundum genus. Et ideo in qualibet tristitia est contraria dispositio subiecti dispositioni quae est in qualibet delectatione, nam in qualibet delectatione appetitus se habet ut acceptans id quod habet; in qualibet autem tristitia se habet ut fugiens. Et ideo ex parte subiecti quaelibet delectatio est medicina contra quamlibet tristitiam, et quaelibet tristitia est impeditiva cuiuslibet delectationis, praecipue tamen quando delectatio tristitiae contrariatur etiam secundum speciem.

 

[35056] Iª-IIae q. 35 a. 4 ad 2
2. Come scrive Aristotele, il genere si desume dalla materia. Ora, negli accidenti è il soggetto a sostenere le parti della materia. E abbiamo già detto che il piacere e la tristezza sono contrari nel loro genere. Perciò in qualsiasi tristezza troviamo nel soggetto una disposizione contraria alla disposizione in cui esso si trova, quando gode un qualsiasi piacere: infatti in qualsiasi piacere l'appetito è nell'attitudine di accettazione verso l'oggetto presente; invece in qualsiasi tristezza è nell'attitudine di ripulsa. Perciò rispetto al soggetto qualsiasi piacere è un rimedio per qualsiasi tristezza, e qualsiasi tristezza è un ostacolo per qualsiasi piacere: specialmente però quando il piacere è contrario anche specificatamente alla tristezza.

[35057] Iª-IIae q. 35 a. 4 ad 3
Unde patet solutio ad tertium. Vel aliter dicendum quod, etsi non omnis tristitia contrarietur omni delectationi secundum speciem, tamen quantum ad effectum contrariantur, nam ex uno confortatur natura animalis, ex alio vero quodammodo molestatur.

 

[35057] Iª-IIae q. 35 a. 4 ad 3
3. È così risolta anche la terza difficoltà. - Ma si potrebbe anche rispondere che sebbene ogni tristezza non sia contraria specificamente a qualsiasi piacere, è tuttavia contraria per i suoi effetti: infatti mentre il piacere da un conforto alla natura animale, la tristezza le procura un impaccio.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se vi siano dolori o tristezze contrari al godimento della contemplazione


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 5

[35058] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 1
Ad quintum sic proceditur. Videtur quod delectationi contemplationis sit aliqua tristitia contraria. Dicit enim apostolus, II ad Cor. VII, quae secundum Deum est tristitia, poenitentiam in salutem stabilem operatur. Sed respicere ad Deum pertinet ad superiorem rationem, cuius est contemplationi vacare, secundum Augustinum, in XII de Trin. Ergo delectationi contemplationis opponitur tristitia.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 5

[35058] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 1
SEMBRA che non vi siano dolori o tristezze contrari al godimento
della contemplazione. Infatti:
1. L'Apostolo afferma: "La tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che conduce alla salvezza". Ora, spetta alla ragione superiore avere Dio per oggetto; ma a tale ragione spetta pure attendere alla contemplazione, come osserva S. Agostino. Quindi c’è una tristezza che si oppone al godimento della contemplazione.

[35059] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 2
Praeterea, contrariorum contrarii sunt effectus. Si ergo unum contrariorum contemplatum est causa delectationis, aliud erit causa tristitiae. Et sic delectationi contemplationis erit tristitia contraria.

 

[35059] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 2
2. Cose contrarie hanno effetti contrari. Se, dunque, uno dei contrari è causa di piacere come oggetto di contemplazione, l'altro sarà causa di tristezza. E quindi il godimento della contemplazione trova una tristezza contraria.

[35060] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 3
Praeterea, sicut obiectum delectationis est bonum, ita obiectum tristitiae est malum. Sed contemplatio potest habere mali rationem, dicit enim philosophus, in XII Metaphys., quod quaedam inconveniens est meditari. Ergo contemplationis delectationi potest esse contraria tristitia.

 

[35060] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 3
3. Il godimento ha per oggetto il bene, la tristezza il male. Ora, la contemplazione può presentarsi come un male: infatti il Filosofo scrive, che "ci sono cose che non è bene pensare". Dunque ci può essere una tristezza contraria al godimento della contemplazione.

[35061] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 4
Praeterea, operatio quaelibet, secundum quod non est impedita, est causa delectationis, ut dicitur in VII et X Ethic. Sed operatio contemplationis potest multipliciter impediri, vel ut totaliter non sit, vel ut cum difficultate sit. Ergo in contemplatione potest esse tristitia delectationi contraria.

 

[35061] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 4
4. Qualsiasi operazione non ostacolata è causa di godimento, come dice ripetutamente Aristotele. Ora, l'atto del contemplare può essere ostacolato in molte maniere, o totalmente, o in modo da metterlo in difficoltà. Dunque nella contemplazione può esserci una tristezza contraria al suo godimento.

[35062] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 5
Praeterea, carnis afflictio est causa tristitiae. Sed sicut dicitur Eccle. ult., frequens meditatio carnis est afflictio. Ergo contemplatio habet tristitiam delectationi contrariam.

 

[35062] Iª-IIae q. 35 a. 5 arg. 5
5. L'afflizione della carne è causa di tristezza. Ma sta scritto che "il troppo meditare è travaglio del corpo". Quindi esiste una tristezza contraria alla contemplazione.

[35063] Iª-IIae q. 35 a. 5 s. c.
Sed contra est quod dicitur Sap. VIII, non habet amaritudinem conversatio illius scilicet sapientiae, nec taedium convictus eius; sed laetitiam et gaudium. Conversatio autem et convictus sapientiae est per contemplationem. Ergo nulla tristitia est quae sit contraria delectationi contemplationis.

 

[35063] Iª-IIae q. 35 a. 5 s. c.
IN CONTRARIO: Della sapienza si legge nella Scrittura: "Non ha amarezza la sua conversazione; né tedio il conviver con lei, ma letizia e gioia". Ora, si ha la conversazione e la convivenza col sapere mediante la contemplazione. Dunque non esiste nessuna tristezza contraria al godimento della contemplazione.

[35064] Iª-IIae q. 35 a. 5 co.
Respondeo dicendum quod delectatio contemplationis potest intelligi dupliciter. Uno modo, ita quod contemplatio sit delectationis causa, et non obiectum. Et tunc delectatio non est de ipsa contemplatione, sed de re contemplata. Contingit autem contemplari aliquid nocivum et contristans, sicut et aliquid conveniens et delectans. Unde si sic delectatio contemplationis accipiatur, nihil prohibet delectationi contemplationis esse tristitiam contrariam. Alio modo potest dici delectatio contemplationis, quia contemplatio est eius obiectum et causa, puta cum aliquis delectatur de hoc ipso quod contemplatur. Et sic, ut dicit Gregorius Nyssenus, ei delectationi quae est secundum contemplationem, non opponitur aliqua tristitia. Et hoc idem philosophus dicit, in I Topic. et in X Ethic. Sed hoc est intelligendum, per se loquendo. Cuius ratio est, quia tristitia per se contrariatur delectationi quae est de contrario obiecto, sicut delectationi quae est de calore, contrariatur tristitia quae est de frigore. Obiecto autem contemplationis nihil est contrarium, contrariorum enim rationes, secundum quod sunt apprehensae, non sunt contrariae, sed unum contrarium est ratio cognoscendi aliud. Unde delectationi quae est in contemplando, non potest, per se loquendo, esse aliqua tristitia contraria. Sed nec etiam habet tristitiam annexam, sicut corporales delectationes, quae sunt ut medicinae quaedam contra aliquas molestias, sicut aliquis delectatur in potu ex hoc quod anxiatur siti, quando autem iam tota sitis est repulsa, etiam cessat delectatio potus. Delectatio enim contemplationis non causatur ex hoc quod excluditur aliqua molestia, sed ex hoc quod est secundum seipsam delectabilis, non est enim generatio, sed operatio quaedam perfecta, ut dictum est. Per accidens autem admiscetur tristitia delectationi apprehensionis. Et hoc dupliciter, uno modo, ex parte organi; alio modo, ex impedimento apprehensionis. Ex parte quidem organi, admiscetur tristitia vel dolor apprehensioni, directe quidem in viribus apprehensivis sensitivae partis, quae habent organum corporale, vel ex sensibili, quod est contrarium debitae complexioni organi, sicut gustus rei amarae et olfactus rei foetidae; vel ex continuitate sensibilis convenientis, quod per assiduitatem facit superexcrescentiam naturalis habitus, ut supra dictum est, et sic redditur apprehensio sensibilis quae prius erat delectabilis, taediosa. Sed haec duo directe in contemplatione mentis locum non habent, quia mens non habet organum corporale. Unde dictum est in auctoritate inducta, quod non habet contemplatio mentis nec amaritudinem nec taedium. Sed quia mens humana utitur in contemplando viribus apprehensivis sensitivis, in quarum actibus accidit lassitudo; ideo indirecte admiscetur aliqua afflictio vel dolor contemplationi. Sed neutro modo tristitia contemplationi per accidens adiuncta, contrariatur delectationi eius. Nam tristitia quae est de impedimento contemplationis, non contrariatur delectationi contemplationis, sed magis habet affinitatem et convenientiam cum ipsa, ut ex supradictis patet. Tristitia vero vel afflictio quae est de lassitudine corporali, non ad idem genus refertur, unde est penitus disparata. Et sic manifestum est quod delectationi quae est de ipsa contemplatione, nulla tristitia contrariatur; nec adiungitur ei aliqua tristitia nisi per accidens.

 

[35064] Iª-IIae q. 35 a. 5 co.
RISPONDO: Il piacere della contemplazione si può intendere in due modi. Primo, nel senso che la contemplazione ne è la causa, non però l'oggetto. E allora abbiamo il godimento non dell'atto stesso del contemplare, ma della cosa contemplata. Ora, siccome capita di contemplare, sia cose nocive e dolorose, sia cose buone e piacevoli; niente impedisce che al godimento del contemplare inteso in codesto senso possa corrispondere una contraria tristezza.
Secondo, si può parlare di godimento della contemplazione nel senso che il godimento deriva dalla contemplazione considerata come causa e oggetto del medesimo: quando uno, per es., gode dell'atto stesso del contemplare. E in questo caso, come dice S. Gregorio Nisseno [ovvero Nemesio], "nessuna tristezza si oppone al piacere della contemplazione". La stessa cosa è affermata più volte da Aristotele. Ma ciò vale parlando in senso assoluto. E lo dimostra il fatto che di suo un dolore contrasta col godimento del suo oggetto contrario: la sofferenza del freddo, p. es., è contraria al godimento del caldo. Invece niente è contrario alla contemplazione: infatti le ragioni stesse dei contrari, in quanto conosciute, non sono contrarie; che anzi un contrario è ragione per conoscere l'altro. Perciò il godimento che si ha nel contemplare non può avere, assolutamente parlando, nessuna tristezza contraria. - E neppure è in connessione con qualche tristezza, come i piaceri corporali, che sono altrettanti rimedi di contrari fastidi: uno, p. es., gode nel bere, perché angustiato dalla sete, e appena spenta la sete cessa il godimento del bere. Invece il godimento della contemplazione non viene dall'eliminazione di qualche fastidio, ma dall'essere per se stessa piacevole: infatti la contemplazione non è una generazione, bensì un'operazione perfetta, come abbiamo detto.
Tuttavia indirettamente si può frapporre la tristezza al godimento del conoscere. E questo in due modi: primo, per parte degli organi corporei; secondo, per gli ostacoli della cognizione. Per parte degli organi la tristezza, o dolore, si frappone direttamente alla conoscenza nelle facoltà conoscitive della parte sensitiva, che sono dotate di organi corporei: o perché l'oggetto è contrario alla debita disposizione dell'organo, come nel gusto di una cosa amara, e nell'olfatto di una cosa fetida; oppure per l'insistenza di un oggetto conveniente, che con la sua durata produce uno squilibrio nella complessione naturale, come sopra abbiamo notato, così da rendere fastidiosa quella conoscenza, che prima era piacevole. - Ma queste due cose non possono aver luogo nella contemplazione intellettiva; poiché l'intelletto non ha un organo corporeo. Perciò nel passo riferito [della Scrittura] si dice che la contemplazione intellettiva "non ha amarezza, né tedio". Siccome però, la mente umana nel contemplare si serve delle facoltà conoscitive sensibili, nell'atto delle quali può determinarsi la stanchezza, indirettamente può mescolarsi tristezza, o dolore alla contemplazione.
Ma la tristezza, che per accidens accompagna la contemplazione, non può essere contraria così al godimento di essa. Infatti la tristezza che nasce dalle difficoltà del contemplare non è contraria al godimento della contemplazione, ma è piuttosto affine e in armonia con essa, com'è evidente da quanto sopra abbiamo detto. La tristezza poi, o afflizione, che deriva dalla stanchezza del corpo, è di un genere diverso; perciò è del tutto disparata. È chiaro, quindi, che nessuna tristezza è contraria al diretto godimento della contemplazione; e che essa non è accompagnata da nessuna pena, se non per accidens.

[35065] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod illa tristitia quae est secundum Deum, non est de ipsa contemplatione mentis, sed est de aliquo quod mens contemplatur, scilicet de peccato, quod mens considerat ut contrarium dilectioni divinae.

 

[35065] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La tristezza indicata, secondo Dio, non ha per oggetto diretto la contemplazione mentale stessa; ma ciò che la mente contempla: cioè il peccato, che l'anima considera come contrario all'amore di Dio.

[35066] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 2
Ad secundum dicendum quod ea quae sunt contraria in rerum natura, secundum quod sunt in mente, non habent contrarietatem. Non enim rationes contrariorum sunt contrariae, sed magis unum contrarium est ratio cognoscendi aliud. Propter quod est una scientia contrariorum.

 

[35066] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 2
2. Le cose che sono contrarie nella realtà non hanno contrarietà in quanto sono nella mente. Infatti le ragioni dei contrari non sono contrarie: che anzi un contrario è ragione della conoscenza dell'altro. Per questo i contrari appartengono a una medesima scienza.

[35067] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 3
Ad tertium dicendum quod contemplatio, secundum se, nunquam habet rationem mali, cum contemplatio nihil aliud sit quam consideratio veri, quod est bonum intellectus, sed per accidens tantum, inquantum scilicet contemplatio vilioris impedit contemplationem melioris; vel ex parte rei contemplatae, ad quam inordinatae appetitus afficitur.

 

[35067] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 3
3. La contemplazione di per sé non ha mai ragione di male, non essendo essa che la considerazione del vero, il quale è il bene dell'intelletto: può aver ragione di male solo per accidens, cioè in quanto la considerazione di una cosa più vile impedisce la contemplazione di una cosa più nobile; oppure sarà cattiva a motivo della cosa contemplata, atta a muovere l'appetito ad un affetto disordinato.

[35068] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 4
Ad quartum dicendum quod tristitia quae est de impedimento contemplationis, non contrariatur delectationi contemplationis, sed est ei affinis, ut dictum est.

 

[35068] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 4
4. Il dolore per l'ostacolo della contemplazione non è contrario al piacere di essa, ma è piuttosto affine, come abbiamo spiegato.

[35069] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 5
Ad quintum dicendum quod afflictio carnis per accidens et indirecte se habet ad contemplationem mentis, ut dictum est.

 

[35069] Iª-IIae q. 35 a. 5 ad 5
5. L'afflizione della carne, come abbiamo detto, è accidentale e indiretta rispetto alla contemplazione intellettiva.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se sia più forte la ripulsa del dolore che l'attrattiva del piacere


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 6

[35070] Iª-IIae q. 35 a. 6 arg. 1
Ad sextum sic proceditur. Videtur quod magis sit fugienda tristitia, quam delectatio appetenda. Dicit enim Augustinus, in libro octoginta trium quaest., nemo est qui non magis dolorem fugiat, quam appetat voluptatem. Illud autem in quo communiter omnia consentiunt, videtur esse naturale. Ergo naturale est et conveniens quod plus tristitia fugiatur, quam delectatio appetatur.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 6

[35070] Iª-IIae q. 35 a. 6 arg. 1
SEMBRA che sia più forte la ripulsa del dolore che l'attrattiva del piacere. Infatti:
1. S. Agostino scrive: "Non c’è nessuno il quale non desideri di più fuggire il dolore, che bramare il piacere". Ora, quello in cui tutti consentono è cosa naturale. Dunque è naturale ed è giusto che si fugga la tristezza più di quanto si brami il piacere.

[35071] Iª-IIae q. 35 a. 6 arg. 2
Praeterea, actio contrarii facit ad velocitatem et intensionem motus, aqua enim calida citius et fortius congelatur, ut dicit philosophus, in libro Meteor. Sed fuga tristitiae est ex contrarietate contristantis, appetitus autem delectationis non est ex aliqua contrarietate, sed magis procedit ex convenientia delectantis. Ergo maior est fuga tristitiae quam appetitus delectationis.

 

[35071] Iª-IIae q. 35 a. 6 arg. 2
2. L'azione dei contrari rende il moto più impetuoso e più veloce: infatti, come osserva il Filosofo, "l'acqua calda si congela prima e con più forza". Ora, la ripulsa del dolore deriva dalla contrarietà di ciò che addolora: invece l'appetito del piacere non deriva da una contrarietà, ma piuttosto dall'affinità di ciò che piace. Dunque la ripulsa del dolore è superiore all'attrattiva del piacere.

[35072] Iª-IIae q. 35 a. 6 arg. 3
Praeterea, quanto aliquis secundum rationem fortiori passioni repugnat, tanto laudabilior est et virtuosior, quia virtus est circa difficile et bonum, ut dicitur in II Ethic. Sed fortis, qui resistit motui quo fugitur dolor, est virtuosior quam temperatus, qui resistit motui quo appetitur delectatio, dicit enim philosophus, in II Rhetoric., quod fortes et iusti maxime honorantur. Ergo vehementior est motus quo fugitur tristitia, quam motus quo appetitur delectatio.

 

[35072] Iª-IIae q. 35 a. 6 arg. 3
3. Più è forte la passione alla quale uno resiste per seguire la ragione, e più uno è degno di lode ed è più virtuoso: poiché, come scrive Aristotele, "la virtù si prova nel difficile e nel bene". Ora, il coraggioso, che resiste al moto di ripulsa per il dolore, è più virtuoso del temperante che resiste all'attrattiva del piacere: infatti il Filosofo altrove osserva, che "i coraggiosi e i giusti sono i più onorati". Dunque è più forte il moto di ripulsa per il dolore, che l'attrattiva del piacere.

[35073] Iª-IIae q. 35 a. 6 s. c.
Sed contra, bonum est fortius quam malum, ut patet per Dionysium, IV cap. de Div. Nom. Sed delectatio est appetibilis propter bonum, quod est eius obiectum, fuga autem tristitiae est propter malum. Ergo fortior est appetitus delectationis quam fuga tristitiae.

 

[35073] Iª-IIae q. 35 a. 6 s. c.
IN CONTRARIO: Il bene è più forte del male, come Dionigi dimostra. Ma il piacere è desiderabile per il bene, che ne forma l'oggetto; mentre la ripulsa del dolore ha per oggetto il male. Dunque è più forte l'attrattiva del piacere che la ripulsa del dolore.

[35074] Iª-IIae q. 35 a. 6 co.
Respondeo dicendum quod, per se loquendo, appetitus delectationis est fortior quam fuga tristitiae. Cuius ratio est, quia causa delectationis est bonum conveniens, causa autem doloris sive tristitiae est aliquod malum repugnans. Contingit autem aliquod bonum esse conveniens absque omni dissonantia, non autem potest esse aliquod malum totaliter, absque omni convenientia, repugnans. Unde delectatio potest esse integra et perfecta, tristitia autem est semper secundum partem. Unde naturaliter maior est appetitus delectationis quam fuga tristitiae. Alia vero ratio est, quia bonum, quod est obiectum delectationis, propter seipsum appetitur, malum autem, quod est obiectum tristitiae, est fugiendum inquantum est privatio boni. Quod autem est per se, potius est illo quod est per aliud. Cuius etiam signum apparet in motibus naturalibus. Nam omnis motus naturalis intensior est in fine, cum appropinquat ad terminum suae naturae convenientem, quam in principio, cum recedit a termino suae naturae non convenienti, quasi natura magis tendat in id quod est sibi conveniens, quam fugiat id quod est sibi repugnans. Unde et inclinatio appetitivae virtutis, per se loquendo, vehementius tendit in delectationem quam fugiat tristitiam. Sed per accidens contingit quod tristitiam aliquis magis fugit, quam delectationem appetat. Et hoc tripliciter. Primo quidem, ex parte apprehensionis. Quia, ut Augustinus dicit, X de Trin., amor magis sentitur, cum eum prodit indigentia. Ex indigentia autem amati procedit tristitia, quae est ex amissione alicuius boni amati, vel ex incursu alicuius mali contrarii. Delectatio autem non habet indigentiam boni amati, sed quiescit in eo iam adepto. Cum igitur amor sit causa delectationis et tristitiae, tanto magis fugitur tristitia, quanto magis sentitur amor ex eo quod contrariatur amori. Secundo, ex parte causae contristantis, vel dolorem inferentis, quae repugnat bono magis amato quam sit bonum illud in quo delectamur. Magis enim amamus consistentiam corporis naturalem, quam delectationem cibi. Et ideo timore doloris qui provenit ex flagellis vel aliis huiusmodi, quae contrariantur bonae consistentiae corporis, dimittimus delectationem ciborum vel aliorum huiusmodi. Tertio, ex parte effectus, inquantum scilicet tristitia impedit non unam tantum delectationem, sed omnes.

 

[35074] Iª-IIae q. 35 a. 6 co.
RISPONDO: Di per sé l'attrattiva del piacere è più forte della ripulsa del dolore. E la ragione è questa, che la causa del piacere è il bene il quale conviene; mentre la causa del dolore è il male, che invece ripugna. Ora, può esserci un bene che conviene senza alcuna dissonanza: invece non può esserci un male totalmente ripugnante senza alcuna convenienza. Perciò il godimento può essere integro e perfetto: invece il dolore è sempre parziale. Perciò la brama del piacere è naturalmente superiore alla ripulsa del dolore. - Ma vi è un'altra ragione, nel fatto che il bene, oggetto del piacere, viene cercato per se stesso: mentre il male, oggetto del dolore, è ripulsivo, perché privazione di bene. Ora, ciò che vale per se stesso è superiore a ciò che vale per un altro. - Di ciò abbiamo un segno nei moti di ordine fisico. Difatti ogni moto fisico naturale è più intenso alla fine, quando si avvicina al termine proporzionato alla sua natura, che quando, in principio, lascia il termine non conveniente alla sua natura: mostrando in qualche modo che la natura ha più tendenza a ciò che le conviene, che ripulsa verso ciò che la contrasta. Perciò l'inclinazione della facoltà appetitiva, assolutamente parlando, tende con più forza verso il piacere, di quanto non rifugga dal dolore.
Ma può capitare per accidens che uno senta più forte la ripulsa per il dolore che l'attrattiva del piacere. E questo può avvenire in tre modi. - Primo, a motivo della conoscenza. Poiché, come scrive S. Agostino, "si sente di più l'amore quando il bisogno lo manifesta". Ora, dal bisogno dell'oggetto amato nasce il dolore, che deriva dalla perdita del bene bramato, o dal sopraggiungere di un male contrario. Invece il piacere è incompossibile col bisogno del bene amato, essendo riposto nel bene già conseguito. Perciò, essendo l'amore causa del piacere e del dolore, quanto più forte è il sentimento dell'amore acuito dal contrasto, tanto più grande è la ripulsa per il dolore. - Secondo, a motivo della causa che addolora o che rattrista, la quale talora contrasta con un bene più amato dei bene di cui godiamo. Infatti noi amiamo di più l'incolumità naturale del corpo, che il piacere del cibo. Perciò per paura del dolore prodotto dalle frustate, o da altre pene consimili che minacciano l'incolumità del corpo, rinunziamo al piacere del cibo, e ad altri piaceri. - Terzo, a motivo degli effetti: poiché un dolore non ostacola un piacere soltanto, ma tutti.

[35075] Iª-IIae q. 35 a. 6 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod illud quod Augustinus dicit, quod dolor magis fugitur quam voluptas appetatur, est verum per accidens, et non per se. Et hoc patet ex eo quod subdit, quandoquidem videmus etiam immanissimas bestias a maximis voluptatibus absterreri dolorum metu, qui contrariatur vitae, quae maxime amatur.

 

[35075] Iª-IIae q. 35 a. 6 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quanto dice S. Agostino, che "il dolore è più fuggito di quanto il piacere sia desiderato", è vero per accidens, non per se. E ciò è evidente da quello che aggiunge: "Talora vediamo anche le belve più feroci astenersi dai più grandi piaceri, per paura del dolore", il quale appunto, è contrario alla vita, che è la cosa più amata.

[35076] Iª-IIae q. 35 a. 6 ad 2
Ad secundum dicendum quod aliter est in motu qui est ab interiori, et aliter in motu qui est ab exteriori. Motus enim qui est ab interiori, magis tendit in id quod est conveniens, quam recedat a contrario, sicut supra dictum est de motu naturali. Sed motus qui est ab extrinseco, intenditur ex ipsa contrarietate, quia unumquodque suo modo nititur ad resistendum contrario, sicut ad conservationem sui ipsius. Unde motus violentus intenditur in principio, et remittitur in fine. Motus autem appetitivae partis est ab intrinseco, cum sit ab anima ad res. Et ideo, per se loquendo, magis appetitur delectatio quam fugiatur tristitia. Sed motus sensitivae partis est ab exteriori, quasi a rebus ad animam. Unde magis sentitur quod est magis contrarium. Et sic etiam per accidens, inquantum sensus requiritur ad delectationem et tristitiam, magis fugitur tristitia quam delectatio appetatur.

 

[35076] Iª-IIae q. 35 a. 6 ad 2
2. Il caso del moto [naturale] proveniente dall'interno è diverso dal caso del moto proveniente dall'esterno. Il moto interiore tende di più verso l'oggetto conveniente di quanto non si ritragga dal suo contrario: come sopra abbiamo detto per il moto fisico naturale. Invece il moto che proviene dal di fuori s'intensifica per la stessa contrarietà: poiché ogni essere tende a resistere al suo contrario, quasi per conservare se stesso. Per questo il moto violento è intenso all’inizio e debole alla fine. - Ora, il moto della parte appetitiva è un moto dall'interno: portandosi dall'anima alle cose. Perciò, assolutamente parlando, è più forte l'attrattiva del piacere, che la ripulsa del dolore. Invece il moto della parte sensitiva proviene dall'esterno, cioè va dalle cose all'anima. E quindi si sente di più ciò che è maggiormente contrario. Cosicché in quanto si richiedono i sensi per il piacere e per il dolore, per accidens è più fuggito il dolore, di quanto non sia desiderato il piacere.

[35077] Iª-IIae q. 35 a. 6 ad 3
Ad tertium dicendum quod fortis non laudatur ex eo quod secundum rationem non vincitur a dolore vel tristitia quacumque, sed ea quae consistit in periculis mortis. Quae quidem tristitia magis fugitur quam appetatur delectatio ciborum vel venereorum, circa quam est temperantia, sicut vita magis amatur quam cibus vel coitus. Sed temperatus magis laudatur ex hoc quod non prosequitur delectationes tactus, quam ex hoc quod non fugit tristitias contrarias, ut patet in III Ethic.

 

[35077] Iª-IIae q. 35 a. 6 ad 3
3. Il coraggioso non è lodato perché virtuosamente non si lascia vincere da un dolore, o da una tristezza qualsiasi, ma da quella tristezza che consiste nel pericolo di morte. La quale tristezza è fuggita con più forza di quanto non siano bramati i piaceri venerei o gastronomici, oggetto della temperanza; appunto perché la vita è amata più del cibo o dell'atto coniugale. La persona temperante è invece più lodata, per non avere assecondato i piaceri del tatto, che per non aver fuggito i dolori contrari, come Aristotele dimostra.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se il dolore esterno sia maggiore di quello interno


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 7

[35078] Iª-IIae q. 35 a. 7 arg. 1
Ad septimum sic proceditur. Videtur quod dolor exterior sit maior quam dolor cordis interior. Dolor enim exterior causatur ex causa repugnante bonae consistentiae corporis, in quo est vita, dolor autem interior causatur ex aliqua imaginatione mali. Cum ergo vita magis ametur quam imaginatum bonum, videtur, secundum praedicta, quod dolor exterior sit maior quam dolor interior.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 7

[35078] Iª-IIae q. 35 a. 7 arg. 1
SEMBRA che il dolore esterno sia maggiore dell'interno dolore del cuore. Infatti:
1. Il dolore esterno è prodotto da una causa che si oppone alla incolumità del corpo, in cui sta la vita: invece il dolore interno è prodotto dall'immaginazione di un male. E poiché la vita è più amata di un bene immaginato, è evidente, da quanto sopra abbiamo detto, che il dolore esterno è più grave di quello interiore.

[35079] Iª-IIae q. 35 a. 7 arg. 2
Praeterea, res magis movet quam rei similitudo. Sed dolor exterior provenit ex reali coniunctione alicuius contrarii, dolor autem interior ex similitudine contrarii apprehensa. Ergo maior est dolor exterior quam dolor interior.

 

[35079] Iª-IIae q. 35 a. 7 arg. 2
2. Muovono di più le cose reali che le immagini di esse. Ora, il dolore esterno deriva dal contatto reale con le cose contrarie: invece il dolore interno deriva dall'immagine conoscitiva di esse. Perciò il dolore esterno è superiore al dolore interno.

[35080] Iª-IIae q. 35 a. 7 arg. 3
Praeterea, causa ex effectu cognoscitur. Sed dolor exterior habet fortiores effectus, facilius enim homo moritur propter dolores exteriores quam propter dolorem interiorem. Ergo exterior dolor est maior, et magis fugitur, quam dolor interior.

 

[35080] Iª-IIae q. 35 a. 7 arg. 3
3. Le cause si conoscono dagli effetti. Ora, il dolore esterno produce effetti più gravi: infatti è più facile che un uomo muoia per i dolori esterni che per quelli interni. Dunque il dolore esterno è più grave ed è più temuto del dolore interno.

[35081] Iª-IIae q. 35 a. 7 s. c.
Sed contra est quod dicitur Eccli. XXV, omnis plaga tristitia cordis est, et omnis malitia nequitia mulieris. Ergo, sicut nequitia mulieris alias nequitias superat, ut ibi intenditur; ita tristitia cordis omnem plagam exteriorem excedit.

 

[35081] Iª-IIae q. 35 a. 7 s. c.
IN CONTRARIO: Dice l’Ecclesiastico: "Cumulo di ogni piaga è la tristezza del cuore, e cumulo d'ogni male è la malvagità della donna". Perciò, come la malvagità della donna, stando a quel testo, supera tutte le altre malvagità, così la tristezza del cuore supera ogni piaga esteriore.

[35082] Iª-IIae q. 35 a. 7 co.
Respondeo dicendum quod dolor interior et exterior in uno conveniunt, et in duobus differunt. Conveniunt quidem in hoc, quod uterque est motus appetitivae virtutis, ut supra dictum est. Differunt autem secundum illa duo quae ad tristitiam et delectationem requiruntur, scilicet secundum causam, quae est bonum vel malum coniunctum; et secundum apprehensionem. Causa enim doloris exterioris est malum coniunctum quod repugnat corpori, causa autem interioris doloris est malum coniunctum quod repugnat appetitui. Dolor etiam exterior sequitur apprehensionem sensus, et specialiter tactus, dolor autem interior sequitur apprehensionem interiorem, imaginationis scilicet vel etiam rationis. Si ergo comparatur causa interioris doloris ad causam exterioris, una per se pertinet ad appetitum, cuius est uterque dolor, alia vero per aliud. Nam dolor interior est ex hoc quod aliquid repugnat ipsi appetitui, exterior autem dolor, ex hoc quod repugnat appetitui quia repugnat corpori. Semper autem quod est per se, prius est eo quod est per aliud. Unde ex parte ista, dolor interior praeeminet dolori exteriori. Similiter etiam ex parte apprehensionis. Nam apprehensio rationis et imaginationis altior est quam apprehensio sensu tactus. Unde simpliciter et per se loquendo, dolor interior potior est quam dolor exterior. Cuius signum est, quod etiam dolores exteriores aliquis voluntarie suscipit, ut evitet interiorem dolorem. Et inquantum non repugnat dolor exterior interiori appetitui, fit quodammodo delectabilis et iucundus interiori gaudio. Quandoque tamen dolor exterior est cum interiori dolore, et tunc dolor augetur. Non solum enim interior dolor est maior quam exterior, sed etiam universalior. Quidquid enim est repugnans corpori, potest esse repugnans interiori appetitui; et quidquid apprehenditur sensu, potest apprehendi imaginatione et ratione; sed non convertitur. Et ideo signanter in auctoritate adducta dicitur, omnis plaga tristitia cordis est, quia etiam dolores exteriorum plagarum sub interiori cordis tristitia comprehenduntur.

 

[35082] Iª-IIae q. 35 a. 7 co.
RISPONDO: Il dolore interno e quello esterno in una cosa convengono e in due differiscono. Convengono nel fatto che sono entrambi moti della potenza appetitiva, come abbiamo visto. Differiscono invece, per i due requisiti della tristezza e del piacere: differiscono cioè, per la causa, che è il bene o il male presente; e per la conoscenza. Infatti causa del dolore esterno è il male presente che ripugna al corpo; causa invece del dolore interno è il male presente che ripugna all'appetito. Inoltre il dolore esterno segue la cognizione dei sensi, e specialmente del tatto; invece il dolore interno segue la conoscenza inferiore, e cioè quella dell'immaginativa, o anche della ragione.
Se dunque si confronta la causa del dolore interno alla causa di quello esterno, vediamo che l'una appartiene di per sé all'appetito, sede propria di entrambi i dolori; l'altra gli appartiene indirettamente. Poiché il dolore interno deriva dal fatto che una cosa ripugna all'appetito stesso; invece il dolore esterno deriva dal fatto che ripugna all'appetito, perché ripugna al corpo. Ora, ciò che si fa valere di per sé è sempre superiore a ciò che vale in forza di altri. Perciò da questo lato il dolore interno sorpassa il dolore esterno. – Lo stesso si dica per quanto riguarda la conoscenza. Infatti la conoscenza dell'immaginativa e della ragione è più alta della conoscenza del tatto. - Perciò, parlando in senso assoluto, il dolore interno è più forte del dolore esterno. E se ne ha la riprova nel fatto che alcuni affrontano volontariamente i dolori esterni, per evitare quelli interni. E poiché non si contrappone all'appetito inferiore, il dolore esterno può diventare in qualche modo piacevole e giocondo per la gioia interiore.
Tuttavia il dolore esterno più volte è unito al dolore interno: e allora lo accresce. Poiché il dolore interno non solo è più forte di quello esterno, ma è anche più esteso. Infatti tutto ciò che ripugna al corpo, può anche ripugnare all'appetito interiore; e tutto ciò che è conosciuto dai sensi, può esser conosciuto anche dall'immaginativa e dalla ragione; ma non viceversa. Perciò è detto espressamente nel testo riportato: "Cumulo di ogni piaga è la tristezza del cuore", poiché anche i dolori delle piaghe esterne sono compresi nella tristezza del cuore.

[35083] Iª-IIae q. 35 a. 7 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod dolor interior potest etiam esse de his quae contrariantur vitae. Et sic comparatio doloris interioris ad exteriorem non est accipienda secundum diversa mala quae sunt causa doloris, sed secundum diversam comparationem huius causae doloris ad appetitum.

 

[35083] Iª-IIae q. 35 a. 7 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Anche il dolore interno può avere per oggetto ciò che è contrario alla vita. Perciò il confronto tra il dolore interno e quello esterno non va fatto in base ai diversi mali che causano il dolore; ma in base alla diversità dei rapporti che cedeste cause di dolore hanno con l'appetito.

[35084] Iª-IIae q. 35 a. 7 ad 2
Ad secundum dicendum quod tristitia interior non procedit ex similitudine rei apprehensa, sicut ex causa, non enim homo tristatur interius de ipsa similitudine apprehensa, sed de re cuius est similitudo. Quae quidem res tanto perfectius apprehenditur per aliquam similitudinem, quanto similitudo est magis immaterialis et abstracta. Et ideo dolor interior, per se loquendo, est maior, tanquam de maiori malo existens; propter hoc quod interiori apprehensione magis cognoscitur malum.

 

[35084] Iª-IIae q. 35 a. 7 ad 2
2. La tristezza interiore non è causata dall'immagine conoscitiva di una cosa; infatti un uomo non si rattrista interiormente per l'immagine eidetica conosciuta, ma per la cosa reale di cui è immagine. La quale cosa tanto più perfettamente è conosciuta mediante un'immagine eidetica, quanto più immateriale e astratta è codesta immagine. Perciò il dolore interno di per sé è più grave, avendo per oggetto un male maggiore; poiché mediante la conoscenza interiore un dato male meglio si conosce.

[35085] Iª-IIae q. 35 a. 7 ad 3
Ad tertium dicendum quod immutationes corporales magis causantur ex dolore exteriori, tum quia causa doloris exterioris est corrumpens coniunctum corporaliter, quod exigit apprehensio tactus. Tum etiam quia sensus exterior est magis corporalis quam sensus interior, sicut et appetitus sensitivus quam intellectivus. Et propter hoc, ut supra dictum est, ex motu appetitus sensitivi magis corpus immutatur. Et similiter ex dolore exteriori, magis quam ex dolore interiori.

 

[35085] Iª-IIae q. 35 a. 7 ad 3
3. Le alterazioni fisiche sono causate di più dal dolore esterno, sia perché la causa del dolore esterno fisicamente incide sull'organismo provocando direttamente le percezioni del tatto, sia perché i sensi esterni sono più corporei dei sensi interni, e l'appetito sensitivo più corporeo di quello intellettivo. Per questi motivi, come sopra abbiamo detto, il corpo è più pronto ad alterarsi per i moti dell'appetito sensitivo. Ed ecco perché l'uomo è più sensibile al dolore esterno che a quello interiore.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le passioni > Il dolore, o tristezza > Se vi siano soltanto quattro specie di dolore, o tristezza


Prima pars secundae partis
Quaestio 35
Articulus 8

[35086] Iª-IIae q. 35 a. 8 arg. 1
Ad octavum sic proceditur. Videtur quod Damascenus inconvenienter quatuor tristitiae species assignet, quae sunt acedia, achthos (vel anxietas secundum Gregorium Nyssenum), misericordia et invidia. Tristitia enim delectationi opponitur. Sed delectationis non assignantur aliquae species. Ergo nec tristitiae species debent assignari.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 35
Articolo 8

[35086] Iª-IIae q. 35 a. 8 arg. 1
SEMBRA che il Damasceno abbia fissato, senza giusti motivi, quattro specie di tristezza, cioè l'accidia, l'abbattimento (o l'ansietà, per S. Gregorio Nisseno [cioè Nemesio]), la misericordia, e l’invidia. Infatti:
1. La tristezza è il contrario del piacere. Ma del piacere non vengono determinate specie di sorta. Dunque non si devono determinare neppure per la tristezza.

[35087] Iª-IIae q. 35 a. 8 arg. 2
Praeterea, poenitentia est quaedam species tristitiae. Similiter etiam Nemesis et zelus, ut dicit philosophus, II Rhetoric. Quae quidem sub his speciebus non comprehenduntur. Ergo insufficiens est eius praedicta divisio.

 

[35087] Iª-IIae q. 35 a. 8 arg. 2
2. La penitenza è una specie di tristezza. Così pure la nemesis e lo zelo, ricordate dal Filosofo. Eppure esse non sono comprese in quelle quattro specie. Dunque la suddetta divisione è insufficiente.

[35088] Iª-IIae q. 35 a. 8 arg. 3
Praeterea, omnis divisio debet esse per opposita. Sed praedicta non habent oppositionem ad invicem. Nam secundum Gregorium acedia est tristitia vocem amputans; anxietas vero est tristitia aggravans; invidia vero est tristitia in alienis bonis; misericordia autem est tristitia in alienis malis. Contingit autem aliquem tristari et de alienis malis, et de alienis bonis et simul cum hoc interius aggravari, et exterius vocem amittere. Ergo praedicta divisio non est conveniens.

 

[35088] Iª-IIae q. 35 a. 8 arg. 3
3. Ogni divisione deve farsi per termini opposti. Ma le cose indicate non hanno opposizione reciproca. Infatti per S. Gregorio [Nemesio] "l'accidia è una tristezza che toglie la voce; l'ansietà una tristezza che aggrava; l'invidia è tristezza dei beni altrui; e la misericordia tristezza dei mali altrui". Ora, può capitare che uno si rattristi del male e del bene altrui, e assieme si senta interiormente aggravato ed esteriormente perda la voce. Dunque codesta divisione non si giustifica.

[35089] Iª-IIae q. 35 a. 8 s. c.
Sed contra est auctoritas utriusque, scilicet Gregorii Nysseni et Damasceni.

 

[35089] Iª-IIae q. 35 a. 8 s. c.
IN CONTRARIO: Sta l'autorità di S. Gregorio Nisseno [cioè di Nemesio] e del Damasceno.

[35090] Iª-IIae q. 35 a. 8 co.
Respondeo dicendum quod ad rationem speciei pertinet quod se habeat ex additione ad genus. Sed generi potest aliquid addi dupliciter. Uno modo, quod per se ad ipsum pertinet, et virtute continetur in ipso, sicut rationale additur animali. Et talis additio facit veras species alicuius generis, ut per philosophum patet, in VII et VIII Metaphys. Aliquid vero additur generi quasi aliquid extraneum a ratione ipsius, sicut si album animali addatur, vel aliquid huiusmodi. Et talis additio non facit veras species generis, secundum quod communiter loquimur de genere et speciebus. Interdum tamen dicitur aliquid esse species alicuius generis propter hoc quod habet aliquid extraneum ad quod applicatur generis ratio, sicut carbo et flamma dicuntur esse species ignis, propter applicationem naturae ignis ad materiam alienam. Et simili modo loquendi dicuntur astrologia et perspectiva species mathematicae, inquantum principia mathematica applicantur ad materiam naturalem. Et hoc modo loquendi assignantur hic species tristitiae, per applicationem rationis tristitiae ad aliquid extraneum. Quod quidem extraneum accipi potest vel ex parte causae, obiecti; vel ex parte effectus. Proprium enim obiectum tristitiae est proprium malum. Unde extraneum obiectum tristitiae accipi potest vel secundum alterum tantum, quia scilicet est malum, sed non proprium, et sic est misericordia, quae est tristitia de alieno malo, inquantum tamen aestimatur ut proprium. Vel quantum ad utrumque, quia neque est de proprio, neque de malo, sed de bono alieno, inquantum tamen bonum alienum aestimatur ut proprium malum, et sic est invidia. Proprius autem effectus tristitiae consistit in quadam fuga appetitus. Unde extraneum circa effectum tristitiae, potest accipi quantum ad alterum tantum, quia scilicet tollitur fuga, et sic est anxietas quae sic aggravat animum, ut non appareat aliquod refugium, unde alio nomine dicitur angustia. Si vero intantum procedat talis aggravatio, ut etiam exteriora membra immobilitet ab opere, quod pertinet ad acediam; sic erit extraneum quantum ad utrumque, quia nec est fuga, nec est in appetitu. Ideo autem specialiter acedia dicitur vocem amputare, quia vox inter omnes exteriores motus magis exprimit interiorem conceptum et affectum, non solum in hominibus, sed etiam in aliis animalibus, ut dicitur in I Polit.

 

[35090] Iª-IIae q. 35 a. 8 co.
RISPONDO: È proprio della specie essere come un'aggiunta determinante del genere. Ora, una cosa si può aggiungere al genere in due maniere. Primo, come determinazione che lo riguarda, e che virtualmente è contenuta in esso: razionale, p. es., è così contenuto in animale. E tale aggiunta produce le varie specie di un dato genere, come il Filosofo dimostra. - Ci sono invece delle determinazioni che si aggiungono al genere come qualche cosa di estraneo alla sua nozione: come quando all'animale si aggiunge bianco. E tale aggiunta non produce vere specie del genere, stando all'uso comune dei termini genere e specie. Tuttavia talora si dice che una cosa è specie di un dato genere, perché implica un elemento estraneo, al quale viene applicata la nozione di quel genere: si dice, p. es., che la brace e la fiamma sono specie del fuoco, perché la natura del fuoco è applicata a una materia estranea. Stando a codesto modo di parlare si dice pure che l'astronomia e la prospettiva sono specie della matematica, in quanto i principii della matematica sono applicati a cose d'ordine fisico.
In codesto senso vengono qui determinate le specie della tristezza, mediante l'applicazione della nozione di tristezza a qualche cosa di estraneo. E codesto elemento estraneo si può desumere, o da parte della causa, ossia dall'oggetto; oppure da parte dell'effetto. Infatti oggetto della tristezza è il male proprio o soggettivo. Perciò si può considerare oggetto estraneo alla tristezza, o il male altrui, perché, pur essendo male, non è il proprio: e allora abbiamo la misericordia che è tristezza del male altrui, però in quanto si considera come male proprio. Oppure si possono riscontrare estranei entrambi gli elementi, non avendo per oggetto né il male, né ciò che è proprio, ma il bene altrui, considerato però come male proprio: e allora abbiamo l’invidia. - Effetto poi caratteristico della tristezza è una certa fuga dell'appetito. Perciò si può riscontrare un effetto estraneo soltanto per parte della fuga, in quanto questa può mancare: e in tal caso abbiamo l'ansietà, che aggrava l'animo da non dare più scampo: per questo si denomina anche angustia. Se poi tale gravezza cresce al punto di inibire l'operazione, provocando cosi l'accidia, allora l'elemento estraneo si presenta in rapporto ai due termini indicati, poiché manca la fuga e non si produce nell'appetito. E si dice in particolare che l'accidia toglie la voce, perché la voce tra tutti i moti esterni meglio esprime il concetto e l’affetto interiore, non solo negli uomini ma anche negli altri animali, come insegna Aristotele.

[35091] Iª-IIae q. 35 a. 8 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod delectatio causatur ex bono, quod uno modo dicitur. Et ideo delectationis non assignantur tot species sicut tristitiae, quae causatur ex malo, quod multifariam contingit, ut dicit Dionysius, IV cap. de Div. Nom.

 

[35091] Iª-IIae q. 35 a. 8 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il piacere ha per causa il bene, che si definisce in una sola maniera. Perciò non vengono determinate varie specie di piacere come si fa con la tristezza, la quale ha per causa il male, che, come scrive Dionigi, "in più modi si produce".

[35092] Iª-IIae q. 35 a. 8 ad 2
Ad secundum dicendum quod poenitentia est de malo proprio, quod per se est obiectum tristitiae. Unde non pertinet ad has species. Zelus vero et Nemesis sub invidia continentur, ut infra patebit.

 

[35092] Iª-IIae q. 35 a. 8 ad 2
2. La penitenza ha per oggetto il male proprio, oggetto diretto della tristezza. Perciò non appartiene a cedeste specie. - Lo zelo poi, e la nemesis ricadono nell'invidia, come vedremo.

[35093] Iª-IIae q. 35 a. 8 ad 3
Ad tertium dicendum quod divisio ista non sumitur secundum oppositiones specierum, sed secundum diversitatem extraneorum ad quae trahitur ratio tristitiae, ut dictum est.

 

[35093] Iª-IIae q. 35 a. 8 ad 3
3. La divisione suddetta non si desume dall'opposizione delle specie: ma dalla diversità degli elementi estranei, sui quali si applica la nozione di tristezza, secondo le spiegazioni date.

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