II-II, 69

Seconda parte > Le azioni umane > La giustizia > Peccati contro la giustizia da parte del reo


Secunda pars secundae partis
Quaestio 69
Prooemium

[41992] IIª-IIae q. 69 pr.
Deinde considerandum est de peccatis quae sunt contra iustitiam ex parte rei. Et circa hoc quaeruntur quatuor.
Primo, utrum peccet aliquis mortaliter veritatem negando per quam condemnaretur.
Secundo, utrum liceat alicui se calumniose defendere.
Tertio, utrum liceat alicui iudicium subterfugere appellando.
Quarto, utrum liceat alicui condemnato per violentiam se defendere, si adsit facultas.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 69
Proemio

[41992] IIª-IIae q. 69 pr.
Passiamo a considerare i peccati contro la giustizia da parte del reo.
Sull'argomento si pongono quattro quesiti:

1. Se uno negando la verità, che gli meriterebbe la condanna, pecchi mortalmente;
2. Se uno possa difendersi con la menzogna;
3. Se sia lecito scansare la condanna ricorrendo in appello;
4. Se chi è condannato possa difendersi con la violenza, avendone i mezzi.




Seconda parte > Le azioni umane > La giustizia > Peccati contro la giustizia da parte del reo > Se l'accusato, senza peccato mortale, possa negare la verità che gli meriterebbe la condanna


Secunda pars secundae partis
Quaestio 69
Articulus 1

[41993] IIª-IIae q. 69 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod absque peccato mortali possit accusatus veritatem negare per quam condemnaretur. Dicit enim Chrysostomus, non tibi dico ut te prodas in publicum, neque apud alium accuses. Sed si veritatem confiteretur in iudicio accusatus, seipsum proderet et accusaret. Non ergo tenetur veritatem dicere. Et ita non peccat mortaliter si in iudicio mentiatur.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 69
Articolo 1

[41993] IIª-IIae q. 69 a. 1 arg. 1
SEMBRA che l'accusato possa negare la verità che gli meriterebbe la condanna, senza peccato mortale. Infatti:
1. Il Crisostomo insegna: "Non ti dico di esporti al pubblico, né di accusarti presso altri". Ma se l'accusato confessasse la verità in giudizio accuserebbe ed esporrebbe se stesso. Dunque non è tenuto a dire la verità. E quindi non pecca mortalmente, se mente in giudizio.

[41994] IIª-IIae q. 69 a. 1 arg. 2
Praeterea, sicut mendacium officiosum est quando aliquis mentitur ut alium a morte liberet, ita mendacium officiosum esse videtur quando aliquis mentitur ut se liberet a morte, quia plus sibi tenetur quam alteri. Mendacium autem officiosum non ponitur esse peccatum mortale, sed veniale. Ergo si accusatus veritatem in iudicio neget ut se a morte liberet, non peccat mortaliter.

 

[41994] IIª-IIae q. 69 a. 1 arg. 2
2. Come è una bugia ufficiosa mentire per liberare un altro dalla morte, così è una bugia ufficiosa mentire per liberare se stessi: poiché uno è più obbligato verso se stesso che verso altri. Ora, la bugia ufficiosa non si considera peccato mortale, ma veniale. Quindi l'accusato, se nega la verità in giudizio per liberarsi dalla morte, non pecca mortalmente.

[41995] IIª-IIae q. 69 a. 1 arg. 3
Praeterea, omne peccatum mortale est contra caritatem, ut supra dictum est. Sed quod accusatus mentiatur excusando se a peccato sibi imposito, non contrariatur caritati, neque quantum ad dilectionem Dei neque quantum ad dilectionem proximi. Ergo huiusmodi mendacium non est peccatum mortale.

 

[41995] IIª-IIae q. 69 a. 1 arg. 3
3. Tutti i peccati mortali sono, come abbiamo detto, contro la carità. Ma la bugia di un accusato che cerca di scolparsi del delitto a lui attribuito non è né contro la carità di Dio, né contro la carità del prossimo. Perciò codesta bugia non è un peccato mortale.

[41996] IIª-IIae q. 69 a. 1 s. c.
Sed contra, omne quod est contrarium divinae gloriae est peccatum mortale, quia ex praecepto tenemur omnia in gloriam Dei facere, ut patet I ad Cor. X. Sed quod reus id quod contra se est confiteatur, pertinet ad gloriam Dei, ut patet per id quod Iosue dixit ad Achar, fili mi, da gloriam domino Deo Israel, et confitere atque indica mihi quid feceris, ne abscondas, ut habetur Iosue VII. Ergo mentiri ad excusandum peccatum est peccatum mortale.

 

[41996] IIª-IIae q. 69 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: Quanto è incompatibile con la gloria di Dio è peccato mortale; poiché siamo tenuti strettamente a "far tutto a gloria di Dio", come insegna S. Paolo. Ma la confessione che fa il reo di ciò che è contro di lui rientra nella gloria di Dio; il che è evidente dalle parole dette da Giosuè ad Acam: "Figlio mio, da' gloria al Signore Dio d'Israele, e confessami e mostrami ciò che hai fatto, non nascondermelo". Dunque mentire per scolparsi è peccato mortale.

[41997] IIª-IIae q. 69 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod quicumque facit contra debitum iustitiae, mortaliter peccat, sicut supra dictum est. Pertinet autem ad debitum iustitiae quod aliquis obediat suo superiori in his ad quae ius praelationis se extendit. Iudex autem, ut supra dictum est, superior est respectu eius qui iudicatur. Et ideo ex debito tenetur accusatus iudici veritatem exponere quam ab eo secundum formam iuris exigit. Et ideo si confiteri noluerit veritatem quam dicere tenetur, vel si eam mendaciter negaverit, mortaliter peccat. Si vero iudex hoc exquirat quod non potest secundum ordinem iuris, non tenetur ei accusatus respondere, sed potest vel per appellationem vel aliter licite subterfugere, mendacium tamen dicere non licet.

 

[41997] IIª-IIae q. 69 a. 1 co.
RISPONDO: Chiunque agisce contro un dovere di giustizia pecca mortalmente, come sopra abbiamo dimostrato. Ora, è un dovere di giustizia ubbidire al proprio superiore nelle cose alle quali si estende il suo diritto di superiore. Ma il giudice è un superiore nei riguardi di chi viene giudicato, stando alle cose già dette. Perciò l'accusato è tenuto strettamente a esporre la verità che il giudice esige da lui a norma di diritto. E quindi se uno non vuol confessare la verità che è tenuto a dire, o se la nega con la menzogna, pecca mortalmente. Se però il giudice chiedesse cose non esigibili a norma di diritto, l'accusato non sarebbe tenuto a rispondergli, ma potrebbe lecitamente sfuggire la domanda, o con l'appello, o in altre maniere: tuttavia non potrebbe dire una bugia.

[41998] IIª-IIae q. 69 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod quando aliquis secundum ordinem iuris a iudice interrogatur, non ipse se prodit, sed ab alio proditur, dum ei necessitas respondendi imponitur per eum cui obedire tenetur.

 

[41998] IIª-IIae q. 69 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Quando uno è interrogato dal giudice a norma del diritto, non espone e non tradisce se stesso, ma viene smascherato da un altro, venendogli imposta la necessità di rispondere da uno, al quale è tenuto a ubbidire.

[41999] IIª-IIae q. 69 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod mentiri ad liberandum aliquem a morte cum iniuria alterius, non est mendacium simpliciter officiosum, sed habet aliquid de pernicioso admixtum. Cum autem aliquis mentitur in iudicio ad excusationem sui, iniuriam facit ei cui obedire tenetur, dum sibi denegat quod ei debet, scilicet confessionem veritatis.

 

[41999] IIª-IIae q. 69 a. 1 ad 2
2. Mentire per liberare una persona dalla morte, facendo un torto ad altri, non è una semplice bugia ufficiosa, ma implica una bugia dannosa. Ora, quando in giudizio uno mente per scusare se stesso, fa un torto a colui cui è tenuto a ubbidire; poiché gli nega ciò che gli è dovuto, cioè la confessione della verità.

[42000] IIª-IIae q. 69 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod ille qui mentitur in iudicio se excusando, facit et contra dilectionem Dei, cuius est iudicium; et contra dilectionem proximi, tum ex parte iudicis, cui debitum negat; tum ex parte accusatoris, qui punitur si in probatione deficiat. Unde et in Psalm. dicitur, ne declines cor meum in verba malitiae, ad excusandas excusationes in peccatis, ubi dicit Glossa, haec est consuetudo impudentium, ut deprehensi per aliqua falsa se excusent. Et Gregorius, XXII Moral., exponens illud Iob XXXI, si abscondi quasi homo peccatum meum, dicit, usitatum humani generis vitium est et latendo peccatum committere, et commissum negando abscondere, et convictum defendendo multiplicare.

 

[42000] IIª-IIae q. 69 a. 1 ad 3
3. Chi mente in giudizio per scagionare se stesso agisce, sia contro l'amore di Dio, cui spetta il giudizio, sia contro l'amore del prossimo: e cioè, verso il giudice, al quale nega quanto gli deve; e verso l'accusatore, il quale viene punito se non riesce a provare l'accusa. Ecco perché nei Salmi si legge: "Non inclinare il mio cuore a parole malvagie, a scolparmi nella discolpa dei peccati". E la Glossa commenta: "Questo è il modo di fare degli impudenti i quali scoperti si scolpano con le bugie". E S. Gregorio, commentando quel passo di Giobbe: "Se nascosi, come fa l'uomo, la mia mancanza", afferma: "È un vizio inveterato dell'uomo, commettere i peccati di nascosto, e una volta commessi nasconderli col negarli, e una volta smascherati moltiplicarli col discolparsi".




Seconda parte > Le azioni umane > La giustizia > Peccati contro la giustizia da parte del reo > Se sia lecito all'accusato difendersi con la falsità


Secunda pars secundae partis
Quaestio 69
Articulus 2

[42001] IIª-IIae q. 69 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod accusato liceat calumniose se defendere. Quia secundum iura civilia, in causa sanguinis licitum est cuilibet adversarium corrumpere. Sed hoc maxime est calumniose se defendere. Ergo non peccat accusatus in causa sanguinis si calumniose se defendat.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 69
Articolo 2

[42001] IIª-IIae q. 69 a. 2 arg. 1
SEMBRA che sia lecito all'accusato difendersi con la falsità. Infatti:
1. Secondo il diritto civile nei processi capitali è permesso a chiunque di corrompere l'accusatore. Ora, questa è la difesa più menzognera. Dunque l'accusato non pecca, se in una causa capitale si difende con la menzogna.

[42002] IIª-IIae q. 69 a. 2 arg. 2
Praeterea, accusator cum accusato colludens poenam recipit legibus constitutam, ut habetur, II, qu. III, non autem imponitur poena accusato propter hoc quod cum accusatore colludit. Ergo videtur quod liceat accusato calumniose se defendere.

 

[42002] IIª-IIae q. 69 a. 2 arg. 2
2. "L'accusatore che viene a patti con l'accusato riceve il castigo stabilito dalle leggi", come dice il diritto: al contrario non è contemplata nessuna pena per l'accusato che viene a patti con l'accusatore. Perciò all'accusato è permesso difendersi con la menzogna.

[42003] IIª-IIae q. 69 a. 2 arg. 3
Praeterea, Prov. XIV dicitur, sapiens timet et declinat a malo, stultus transilit et confidit. Sed illud quod fit per sapientiam non est peccatum. Ergo si aliquis qualitercumque se liberet a malo, non peccat.

 

[42003] IIª-IIae q. 69 a. 2 arg. 3
3. Si legge nei Proverbi: "Il saggio teme e schiva il male, lo stolto trascorre e si tiene sicuro". Ma ciò che si compie con saggezza non è peccato. Quindi se uno in qualsiasi maniera si libera dal male, non pecca.

[42004] IIª-IIae q. 69 a. 2 s. c.
Sed contra est quod etiam in causa criminali iuramentum de calumnia est praestandum, ut habetur extra, de iuramento Calum., inhaerentes. Quod non esset si calumniose defendere se liceret. Ergo non est licitum accusato calumniose se defendere.

 

[42004] IIª-IIae q. 69 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: Anche nei processi criminali, a norma del diritto, si deve prestare giuramento di escludere la menzogna. Ora, ciò non avverrebbe, se fosse lecito difendersi con la menzogna. Dunque non è lecito all'accusato difendersi col falso.

[42005] IIª-IIae q. 69 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod aliud est veritatem tacere, aliud est falsitatem proponere. Quorum primum in aliquo casu licet. Non enim aliquis tenetur omnem veritatem confiteri, sed illam solum quam ab eo potest et debet requirere iudex secundum ordinem iuris, puta cum praecessit infamia super aliquo crimine, vel aliqua expressa indicia apparuerunt, vel etiam cum praecessit probatio semiplena. Falsitatem tamen proponere in nullo casu licet alicui. Ad id autem quod licitum est potest aliquis procedere vel per vias licitas et fini intento accommodas, quod pertinet ad prudentiam, vel per aliquas vias illicitas et proposito fini incongruas, quod pertinet ad astutiam, quae exercetur per fraudem et dolum, ut ex supradictis patet. Quorum primum est laudabile; secundum vero vitiosum. Sic igitur reo qui accusatur licet se defendere veritatem occultando quam confiteri non tenetur, per aliquos convenientes modos, puta quod non respondeat ad quae respondere non tenetur. Hoc autem non est calumniose se defendere, sed magis prudenter evadere. Non autem licet ei vel falsitatem dicere, vel veritatem tacere quam confiteri tenetur; neque etiam aliquam fraudem vel dolum adhibere, quia fraus et dolus vim mendacii habent. Et hoc est calumniose se defendere.

 

[42005] IIª-IIae q. 69 a. 2 co.
RISPONDO: Una cosa è tacere la verità, e un'altra proferire la menzogna. La prima in certi casi può essere permessa. Infatti uno non è tenuto a dire tutta la verità, ma quella soltanto che il giudice può e deve esigere da lui a norma del diritto: quando un crimine, p. es., ha già dato origine alla pubblica infamia, o è emerso da chiari indizi, oppure da una prova quasi completa. Ma in nessun caso è permesso presentare una menzogna.
Ora, uno può ricorrere a ciò che è lecito, o per vie lecite e proporzionate al fine perseguito, e questo appartiene alla prudenza; oppure per vie illecite e inadeguate al debito fine, e questo appartiene all'astuzia, la quale si esplica nella frode e nell'inganno, come fu spiegato in precedenza. Il primo di questi modi di fare è lodevole; il secondo invece è peccaminoso. Perciò al reo che viene accusato è lecito difendersi nascondendo nei debiti modi la verità che non è tenuto a confessare: p. es., non rispondendo alle domande cui non è tenuto a rispondere. Ma questo non è un difendersi con la falsità, bensì cavarsela con prudenza. - Al contrario non gli è lecito dire il falso; e neppure ricorrere alla frode o all'inganno, poiché la frode e l'inganno equivalgono a una menzogna. E questo è precisamente difendersi con la falsità.

[42006] IIª-IIae q. 69 a. 2 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod multa secundum leges humanas impunita relinquuntur quae secundum divinum iudicium sunt peccata, sicut patet in simplici fornicatione, quia lex humana non exigit ab homine omnimodam virtutem, quae paucorum est, et non potest inveniri in tanta multitudine populi quantam lex humana sustinere habet necesse. Quod autem aliquis non velit aliquod peccatum committere ut mortem corporalem evadat, cuius periculum in causa sanguinis imminet reo, est perfectae virtutis, quia omnium temporalium maxime terribile est mors, ut dicitur in III Ethic. Et ideo si reus in causa sanguinis corrumpat adversarium suum, peccat quidem inducendo eum ad illicitum, non autem huic peccato lex civilis adhibet poenam. Et pro tanto licitum esse dicitur.

 

[42006] IIª-IIae q. 69 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Secondo la legge umana rimangono impuniti molti atti che però sono peccati secondo il giudizio di Dio, com'è evidente nel caso della semplice fornicazione: poiché la legge umana non esige dall'uomo una virtù completa, che è cosa di pochi, e non è reperibile nella massa del popolo che la legge umana è chiamata a regolare. Ora, che uno si astenga dal peccato per scansare la morte, il cui pericolo incombe sul reo nelle cause criminali, è impresa degna di una virtù perfetta: poiché, a detta di Aristotele, "tra tutti i mali temporali il più terribile è la morte". Ecco perché, se nei processi capitali il reo corrompe l'accusa, pur peccando nel portare l'avversario a commettere una cosa illecita, non è punito per questo dalla legge civile. E in tal senso codesto atto può dirsi lecito.

[42007] IIª-IIae q. 69 a. 2 ad 2
Ad secundum dicendum quod accusator, si colludat cum reo qui noxius, est, poenam incurrit, ex quo patet quod peccat. Unde, cum inducere aliquem ad peccandum sit peccatum, vel qualitercumque peccati participem esse, cum apostolus dicat dignos morte eos qui peccantibus consentiunt, manifestum est quod etiam reus peccat cum adversario colludendo. Non tamen secundum leges humanas imponitur sibi poena, propter rationem iam dictam.

 

[42007] IIª-IIae q. 69 a. 2 ad 2
2. L'accusatore che viene a patti con il reo colpevole incorre una pena: e ciò dimostra che egli commette un delitto. Perciò, siccome indurre altri a peccare o a partecipare a una colpa in qualsiasi modo è peccato, poiché a detta dell'Apostolo, sono degni di morte coloro che consentono con chi pecca, è chiaro che anche il reo pecca quando si mette in collusione con l'avversario. Tuttavia secondo le leggi umane non gli viene imposta una pena per questo, per la ragione sopra indicata.

[42008] IIª-IIae q. 69 a. 2 ad 3
Ad tertium dicendum quod sapiens non abscondit se calumniose, sed prudenter.

 

[42008] IIª-IIae q. 69 a. 2 ad 3
3. Il saggio non si nasconde con la menzogna, bensì con prudenza.




Seconda parte > Le azioni umane > La giustizia > Peccati contro la giustizia da parte del reo > Se sia lecito al reo sfuggire la sentenza ricorrendo in appello


Secunda pars secundae partis
Quaestio 69
Articulus 3

[42009] IIª-IIae q. 69 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod reo non liceat iudicium declinare per appellationem. Dicit enim apostolus, Rom. XIII, omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit. Sed reus appellando recusat subiici potestati superiori, scilicet iudici. Ergo peccat.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 69
Articolo 3

[42009] IIª-IIae q. 69 a. 3 arg. 1
SEMBRA che al reo non sia lecito sfuggire la sentenza ricorrendo in appello. Infatti:
1. L'Apostolo insegna: "Ogni persona sia sottoposta alle autorità superiori". Ma il reo che appella ricusa di sottomettersi all'autorità superiore, cioè al giudice. Dunque commette peccato.

[42010] IIª-IIae q. 69 a. 3 arg. 2
Praeterea, maius est vinculum ordinariae potestatis quam propriae electionis. Sed sicut legitur II, qu. VI, a iudicibus quos communis consensus elegerit non liceat provocari. Ergo multo minus licet appellare a iudicibus ordinariis.

 

[42010] IIª-IIae q. 69 a. 3 arg. 2
2. L'obbligazione di un potere ordinario è più grave di quella di un potere di propria scelta. Ora, a norma dei Canoni, "non è lecito sottrarsi ai giudici scelti di comune accordo". Molto meno, quindi, è lecito appellare nel caso dei giudici ordinari.

[42011] IIª-IIae q. 69 a. 3 arg. 3
Praeterea, illud quod semel est licitum, semper est licitum. Sed non est licitum appellare post decimum diem, neque tertio super eodem. Ergo videtur quod appellatio non sit secundum se licita.

 

[42011] IIª-IIae q. 69 a. 3 arg. 3
3. Ciò che è lecito una volta è lecito sempre. Ma sta il fatto che non è lecito appellare dopo dieci giorni, e neppure per la terza volta nella stessa causa. Perciò l'appello sembra per se stesso illecito.

[42012] IIª-IIae q. 69 a. 3 s. c.
Sed contra est quod Paulus Caesarem appellavit, ut habetur Act. XXV.

 

[42012] IIª-IIae q. 69 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: S. Paolo, come narrano gli Atti, appellò a Cesare.

[42013] IIª-IIae q. 69 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod duplici de causa contingit aliquem appellare. Uno quidem modo, confidentia iustae causae, quia videlicet iniuste a iudice gravatur. Et sic licitum est appellare, hoc enim est prudenter evadere. Unde II, qu. VI, dicitur, omnis oppressus libere sacerdotum si voluerit appellet iudicium, et a nullo prohibeatur. Alio modo aliquis appellat causa afferendae morae, ne contra eum iusta sententia proferatur. Et hoc est calumniose se defendere, quod est illicitum, sicut dictum est, facit enim iniuriam et iudici, cuius officium impedit, et adversario suo, cuius iustitiam, quantum potest, perturbat. Et ideo sicut dicitur II, qu. VI, omni modo puniendus est cuius iniusta appellatio pronuntiatur.

 

[42013] IIª-IIae q. 69 a. 3 co.
RISPONDO: Uno può appellare per due motivi. Primo, perché persuaso della giustizia della propria causa: e cioè perché si sente trattato ingiustamente dal giudice. E in tal caso è lecito appellare: essendo questo uno scampo suggerito dalla prudenza. Di qui la disposizione dei Canoni: "Chiunque si sente oppresso appelli liberamente al giudizio dei sacerdoti, e nessuno lo impedisca".
Secondo, può darsi che uno appelli per rimandare il processo, e la giusta sentenza contro di lui. E questo è un difendersi con la finzione, il che è illecito, come abbiamo visto nell'articolo precedente: infatti egli così fa un torto al giudice, di cui impedisce le funzioni, e al suo avversario, di cui contesta per quanto gli è possibile i diritti. Ecco perché, a norma dei Canoni, "in tutti i modi dev'esser punito colui il cui ricorso è dichiarato ingiusto".

[42014] IIª-IIae q. 69 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod potestati inferiori intantum aliquis subiici debet inquantum ordinem superioris servat, a quo si exorbitaverit, ei subiici non oportet, puta si aliud iusserit proconsul, et aliud imperator, ut patet per Glossam Rom. XIII. Cum autem iudex iniuste aliquem gravat, quantum ad hoc relinquit ordinem superioris potestatis, secundum quam necessitas sibi iuste iudicandi imponitur. Et ideo licitum est ei qui contra iustitiam gravatur, ad directionem superioris potestatis recurrere appellando, vel ante sententiam vel post. Et quia non praesumitur esse rectitudo ubi vera fides non est, ideo non licet Catholico ad infidelem iudicem appellare, secundum illud II, qu. VI, Catholicus qui causam suam, sive iustam sive iniustam, ad iudicium alterius fidei iudicis provocaverit, excommunicetur. Nam et apostolus arguit eos qui iudicio contendebant apud infideles.

 

[42014] IIª-IIae q. 69 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. In tanto uno è tenuto a sottomettersi all'autorità inferiore, in quanto questa rispetta l'ordine di quella superiore; ché se invece ad essa si sottrae, allora non si è tenuti a sottomettersi. Nel caso, p. es., ricordato dalla Glossa, in cui "una cosa comanda il proconsole, e un'altra l'Imperatore". Ora, quando un giudice tratta ingiustamente una persona, si allontana in questo dall'ordine dei poteri superiori, che gli impongono di giudicare con giustizia. Perciò a chi è trattato contro giustizia è lecito ricorrere in appello, prima o dopo la sentenza, al giudizio dell'autorità superiore. - E poiché non si può presumere che ci sia rettitudine dove manca la vera fede, non è lecito a un cattolico appellarsi a un giudice di altra religione. Di qui la norma: "Il cattolico, che in appello porta la propria causa dinanzi a un giudice di altra fede, sia scomunicato". Del resto anche l'Apostolo rimprovera coloro che ricorrono al giudizio presso gli infedeli.

[42015] IIª-IIae q. 69 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod ex proprio defectu vel negligentia procedit quod aliquis sua sponte se alterius iudicio subiiciat de cuius iustitia non confidit. Levis etiam animi esse videtur ut quis non permaneat in eo quod semel approbavit. Et ideo rationabiliter denegatur subsidium appellationis a iudicibus arbitrariis, qui non habent potestatem nisi ex consensu litigantium. Sed potestas iudicis ordinarii non dependet ex consensu illius qui eius iudicio subditur, sed ex auctoritate regis et principis, qui eum instituit. Et ideo contra eius iniustum gravamen lex tribuit appellationis subsidium, ita quod, etiam si sit simul ordinarius et arbitrarius iudex, potest ab eo appellari; quia videtur ordinaria potestas occasio fuisse quod arbiter eligeretur; nec debet ad defectum imputari eius qui consensit sicut in arbitrum in eum quem princeps iudicem ordinarium dedit.

 

[42015] IIª-IIae q. 69 a. 3 ad 2
2. Che una persona si sottometta spontaneamente al giudizio di un altro, sulla cui giustizia non ha fiducia, dipende soltanto dalla propria negligenza o cattiveria. Del resto è anche leggerezza d'animo non persistere in quello che una volta uno ha approvato. Perciò è ragionevole che si neghi il ricorso in appello contro i giudici arbitrali, i quali non hanno autorità che per il consenso dei litiganti. - Ma il potere del giudice ordinario non dipende dal consenso di colui che dev'essere giudicato, bensì dall'autorità del re o dell'autorità suprema, che lo istituisce. Ecco perché la legge offre la facoltà di appellare contro i suoi torti: fino al punto che nel caso in cui uno sia simultaneamente giudice ordinario ed arbitrale, si può sempre appellare contro di lui. Poiché si può pensare che egli sia stato scelto come arbitro, perché investito di poteri ordinari; e quindi ciò non deve pregiudicare chi ha acconsentito ad avere come arbitro una persona che il principe aveva designato come giudice ordinario.

[42016] IIª-IIae q. 69 a. 3 ad 3
Ad tertium dicendum quod aequitas iuris ita subvenit uni parti quod altera non gravetur. Et ideo tempus decem dierum concessit ad appellandum, quod sufficiens aestimavit ad deliberandum an expediat appellare. Si vero non esset determinatum tempus in quo appellare liceret, semper certitudo iudicii remaneret in suspenso, et ita pars altera damnaretur. Ideo autem non est concessum ut tertio aliquis appellet super eodem, quia non est probabile toties iudices a recto iudicio declinare.

 

[42016] IIª-IIae q. 69 a. 3 ad 3
3. L'equità del diritto deve venire incontro a una delle parti, senza far torto all'altra. Ecco perché furono concessi dieci giorni di tempo per appellare, credendo che fossero sufficienti per deliberare se fosse il caso di ricorrere in appello. Se invece non fosse determinato nessun limite di tempo, la stabilità della sentenza resterebbe sempre in sospeso, con danno della parte contraria. - E non è concesso di appellare per la terza volta nella stessa causa, per il fatto che non è probabile che i giudici si siano allontanati dalla giustizia tante volte.




Seconda parte > Le azioni umane > La giustizia > Peccati contro la giustizia da parte del reo > Se a un condannato a morte, potendolo, sia lecito difendersi


Secunda pars secundae partis
Quaestio 69
Articulus 4

[42017] IIª-IIae q. 69 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod liceat condemnato ad mortem se defendere, si possit. Illud enim ad quod natura inclinat semper est licitum, quasi de iure naturali existens. Sed naturae inclinatio est ad resistendum corrumpentibus, non solum in hominibus et animalibus, sed etiam in insensibilibus rebus. Ergo licet reo condemnato resistere, si potest, ne tradatur in mortem.

 
Seconda parte della seconda parte
Questione 69
Articolo 4

[42017] IIª-IIae q. 69 a. 4 arg. 1
SEMBRA che a un condannato a morte, potendolo, sia lecito difendersi. Infatti:
1. È sempre lecito ciò che è oggetto dell'inclinazione di natura, derivando in qualche modo dal diritto naturale. Ora, l'inclinazione naturale spinge a resistere agli elementi distruttori, non solo gli uomini e gli animali, ma persino le cose prive di sensibilità. Dunque al reo condannato è lecito far resistenza, per non subire la morte.

[42018] IIª-IIae q. 69 a. 4 arg. 2
Praeterea, sicut aliquis sententiam mortis contra se latam subterfugit resistendo, ita etiam fugiendo. Sed licitum esse videtur quod aliquis se a morte per fugam liberet, secundum illud Eccli. IX, longe esto ab homine potestatem habente occidendi et non vivificandi. Ergo etiam licitum est resistere.

 

[42018] IIª-IIae q. 69 a. 4 arg. 2
2. Uno può sottrarsi alla sentenza di morte proferita contro di lui, sia con la resistenza, che con la fuga. Ora, essendo lecito sottrarsi alla morte con la fuga, secondo le parole dell'Ecclesiastico: "Sta' lontano da chi ha potere di uccidere"; sarà lecito anche sottrarsi da essa con la resistenza.

[42019] IIª-IIae q. 69 a. 4 arg. 3
Praeterea, Prov. XXIV dicitur, erue eos qui ducuntur ad mortem, et eos qui trahuntur ad interitum liberare ne cesses. Sed plus tenetur aliquis sibi quam alteri. Ergo licitum est quod aliquis condemnatus seipsum defendat ne in mortem tradatur.

 

[42019] IIª-IIae q. 69 a. 4 arg. 3
3. Sta scritto: "Libera coloro che son condotti alla morte, e non indugiare a salvare quelli che son trascinati al supplizio". Ma uno è più obbligato verso se stesso che verso gli altri. Dunque è permesso che un condannato difenda se stesso, per non subire la morte.

[42020] IIª-IIae q. 69 a. 4 s. c.
Sed contra est quod dicit apostolus, Rom. XIII, qui potestati resistit, Dei ordinationi resistit, et ipse sibi damnationem acquirit. Sed condemnatus se defendendo potestati resistit quantum ad hoc in quo est divinitus instituta ad vindictam malefactorum, laudem vero bonorum. Ergo peccat se defendendo.

 

[42020] IIª-IIae q. 69 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: L'Apostolo insegna: "Chi si oppone all'autorità, resiste all'ordine di Dio, e si tira addosso la condanna". Ora, il condannato che si difende resiste all'autorità, proprio in quanto è istituita da Dio "per far vendetta dei malfattori e per onorare i buoni". Perciò nel difendersi commette peccato.

[42021] IIª-IIae q. 69 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod aliquis damnatur ad mortem dupliciter. Uno modo, iuste. Et sic non licet condemnato se defendere, licitum enim est iudici eum resistentem impugnare; unde relinquitur quod ex parte eius sit bellum iniustum. Unde indubitanter peccat. Alio modo condemnatur aliquis iniuste. Et tale iudicium simile est violentiae latronum, secundum illud Ezech. XXII, principes eius in medio eius quasi lupi rapientes praedam ad effundendum sanguinem. Et ideo sicut licet resistere latronibus, ita licet resistere in tali casu malis principibus, nisi forte propter scandalum vitandum, cum ex hoc aliqua gravis turbatio timeretur.

 

[42021] IIª-IIae q. 69 a. 4 co.
RISPONDO: In due maniere si può essere condannati a morte. Primo, giustamente. E in tal caso al condannato non è lecito difendersi: infatti il giudice ha il diritto di combatterlo, se fa resistenza; e quindi da parte del reo si ha una guerra ingiusta. Perciò non c'è dubbio che egli pecca.
Secondo, uno può essere condannato ingiustamente. E codesta sentenza è simile alla violenza dei briganti, conforme alle parole di Ezechiele: "In mezzo ad essa i principi suoi sono come lupi rapaci che attentano al sangue altrui". Perciò come è lecito resistere ai briganti, così è lecito resistere in tal caso ai cattivi governanti: a meno che non si tratti di evitare lo scandalo, nel timore che da questo possa nascere un grave turbamento.

[42022] IIª-IIae q. 69 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod ideo homini data est ratio, ut ea ad quae natura inclinat non passim, sed secundum rationis ordinem exequatur. Et ideo non quaelibet defensio sui est licita, sed quae fit cum debito moderamine.

 

[42022] IIª-IIae q. 69 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. L'uomo ha ricevuto la ragione proprio per questo, cioè per mettere in atto le cose cui la natura inclina, non alla rinfusa, ma seguendo l'ordine della ragione. Perciò è lecita non qualsiasi difesa di se stessi, ma quella fatta con criterio.

[42023] IIª-IIae q. 69 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod nullus ita condemnatur quod ipse sibi inferat mortem, sed quod ipse mortem patiatur. Et ideo non tenetur facere id unde mors sequatur, quod est manere in loco unde ducatur ad mortem. Tenetur tamen non resistere agenti, quin patiatur quod iustum est eum pati. Sicut etiam si aliquis sit condemnatus ut fame moriatur, non peccat si cibum sibi occulte ministratum sumat, quia non sumere esset seipsum occidere.

 

[42023] IIª-IIae q. 69 a. 4 ad 2
2. Nessuno può essere condannato a darsi la morte, ma solo a subirla. Perciò nessuno è tenuto a fare quanto è richiesto all'esecuzione capitale, e cioè a restare nel luogo di dove sarà condotto a morire. Ma il reo è tenuto a non opporre resistenza al carnefice, per scansare la giusta punizione. Così pure chi è condannato a morir di fame non pecca prendendo il cibo a lui offerto di soppiatto: perché non prenderlo equivale ad uccidersi.

[42024] IIª-IIae q. 69 a. 4 ad 3
Ad tertium dicendum quod per illud dictum sapientis non inducitur aliquis ad liberandum alium a morte contra ordinem iustitiae. Unde nec seipsum contra iustitiam resistendo aliquis debet liberare a morte.

 

[42024] IIª-IIae q. 69 a. 4 ad 3
3. Le parole del Savio non intendono esortare a strappare qualcuno dalla morte contro l'ordine della giustizia. Perciò uno non deve liberare neppure se stesso dalla morte, facendo resistenza contro l'ordine della giustizia.

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