III, 89

Terza parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza


Tertia pars
Quaestio 89
Prooemium

[51471] IIIª q. 89 pr.
Deinde considerandum est de recuperatione virtutum per poenitentiam. Et circa hoc quaeruntur sex.
Primo, utrum per poenitentiam restituantur virtutes.
Secundo, utrum restituantur in aequali quantitate.
Tertio, utrum restituatur poenitenti aequalis dignitas.
Quarto, utrum opera virtutum per peccatum mortificentur.
Quinto, utrum opera mortificata per peccatum per poenitentiam reviviscant.
Sexto, utrum opera mortua, idest absque caritate facta, per poenitentiam vivificentur.

 
Terza parte
Questione 89
Proemio

[51471] IIIª q. 89 pr.
Veniamo ora a considerare il ricupero delle virtù mediante la penitenza.
Sull'argomento si pongono sei quesiti:

1. Se mediante la penitenza le virtù ci vengano restituite;
2. Se vengano restituite nello stesso grado;
3. Se al penitente venga restituito lo stesso grado di dignità;
4. Se gli atti virtuosi compiuti prima vengano "mortificati" dal peccato;
5. Se le opere "mortificate" dal peccato possano reviviscere con la penitenza;
6. Se le opere morte, cioè compiute senza la carità, possano essere rese vive dalla penitenza.




Terza Parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza > Se mediante la penitenza le virtù vengano restituite


Tertia pars
Quaestio 89
Articulus 1

[51472] IIIª q. 89 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod per poenitentiam virtutes non restituantur. Non enim possent virtutes amissae per poenitentiam restitui nisi poenitentia virtutes causaret. Sed poenitentia, cum sit virtus, non potest esse causa omnium virtutum, praesertim cum quaedam virtutes sint naturaliter priores poenitentia, ut supra dictum est. Ergo per poenitentiam non restituuntur.

 
Terza parte
Questione 89
Articolo 1

[51472] IIIª q. 89 a. 1 arg. 1
SEMBRA che mediante la penitenza le virtù non vengano restituite. Infatti:
1. Le virtù perdute non possono essere restituite se non perché la penitenza è capace di causarle. Ma la penitenza, essendo una virtù, non può essere la causa di tutte le virtù: soprattutto se pensiamo che alcune sono per natura superiori alla penitenza, come sopra abbiamo visto. Dunque esse non vengono restituite dalla penitenza.

[51473] IIIª q. 89 a. 1 arg. 2
Praeterea, poenitentia in quibusdam actibus poenitentis consistit. Sed virtutes gratuitae non causantur ex actibus nostris, dicit enim Augustinus, in libro de Lib. Arbit., quod virtutes Deus in nobis sine nobis operatur. Ergo videtur quod per poenitentiam non restituantur virtutes.

 

[51473] IIIª q. 89 a. 1 arg. 2
2. La penitenza consiste in certi atti del penitente. Ora, le virtù soprannaturali non vengono causate dai nostri atti; infatti S. Agostino afferma che le virtù "Dio le causa in noi senza di noi". Perciò è evidente che le virtù non vengono restaurate dalla penitenza.

[51474] IIIª q. 89 a. 1 arg. 3
Praeterea, habens virtutem sine difficultate et delectabiliter actus virtutum operatur, unde philosophus dicit, in I Ethic., quod non est iustus qui non gaudet iusta operatione. Sed multi poenitentes adhuc difficultatem patiuntur in operando actus virtutum. Non ergo per poenitentiam restituuntur virtutes.

 

[51474] IIIª q. 89 a. 1 arg. 3
3. Chi possiede una virtù opera senza difficoltà e con piacere: cosicché il Filosofo afferma, che "non è giusto colui il quale non gode del suo atto di giustizia". Molti penitenti invece sentono difficoltà nel compiere gli atti virtuosi. Dunque dalla penitenza non vengono restituite le virtù.

[51475] IIIª q. 89 a. 1 s. c.
Sed contra est quod, Luc. XV, pater mandavit quod filius poenitens indueretur stola prima, quae, secundum Ambrosium, est amictus sapientiae, quam simul consequuntur omnes virtutes, secundum illud Sap. VIII, sobrietatem et iustitiam docet, prudentiam et virtutem, quibus in vita nihil est utilius hominibus. Ergo per poenitentiam omnes virtutes restituuntur.

 

[51475] IIIª q. 89 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: Nella parabola evangelica il padre comanda che il figlio pentito sia rivestito "con la veste più preziosa", che a detta di S. Ambrogio è "la veste della sapienza", la quale è accompagnata da tutte le virtù, secondo le parole della Scrittura: "Essa insegna la temperanza e la giustizia, la prudenza e la fortezza, delle quali non c'è nulla di più utile in vita per gli uomini". Quindi dalla penitenza vengono restituite tutte le virtù.

[51476] IIIª q. 89 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod per poenitentiam, sicut dictum est supra, remittuntur peccata. Remissio autem peccatorum non potest esse nisi per infusionem gratiae. Unde relinquitur quod per poenitentiam gratia homini infundatur. Ex gratia autem consequuntur omnes virtutes gratuitae, sicut ex essentia animae fluunt omnes potentiae, ut in secunda parte habitum est. Unde relinquitur quod per poenitentiam omnes virtutes restituantur.

 

[51476] IIIª q. 89 a. 1 co.
RISPONDO: Come sopra abbiamo visto, dalla penitenza vengono rimessi i peccati. Ma la remissione dei peccati non si può avere senza l'infusione della grazia. Quindi mediante la penitenza all'uomo viene infusa la grazia. Ma dalla grazia derivano tutte le virtù infuse, come dall'essenza dell'anima promanano tutte le potenze, secondo le spiegazioni date nella Seconda Parte. Si deve perciò concludere che dalla penitenza vengono restituite tutte le virtù.

[51477] IIIª q. 89 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod eodem modo poenitentia restituit virtutes per quem modum est causa gratiae, ut iam dictum est. Est autem causa gratiae inquantum est sacramentum, nam inquantum est virtus, est magis gratiae effectus. Et ideo non oportet quod poenitentia, secundum quod est virtus, sit causa omnium aliarum virtutum, sed quod habitus poenitentiae simul cum habitibus aliarum virtutum per sacramentum causetur.

 

[51477] IIIª q. 89 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La penitenza, come abbiamo già notato, restituisce le virtù in quanto è causa della grazia. Ora, essa è causa della grazia in quanto sacramento: poiché in quanto virtù la penitenza è più effetto che causa della grazia. Perciò non segue che la penitenza in quanto è una virtù sia causa delle altre virtù: ma che essa, come tutti gli abiti delle altre virtù, viene causata dal sacramento.

[51478] IIIª q. 89 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod in sacramento poenitentiae actus humani se habent materialiter, sed formalis vis huius sacramenti dependet ex virtute clavium. Et ideo virtus clavium effective causat gratiam et virtutes, instrumentaliter tamen. Sed actus primus poenitentis se habet ut ultima dispositio ad gratiam consequendam, scilicet contritio, alii vero sequentes actus poenitentiae procedunt iam ex gratia et virtutibus.

 

[51478] IIIª q. 89 a. 1 ad 2
2. Nel sacramento della penitenza gli atti umani costituiscono la materia: ma il principio formale di questo sacramento sta nel potere delle chiavi. Quindi il potere delle chiavi è la causa efficiente della grazia e delle virtù: sebbene in maniera strumentale. Invece il primo atto del penitente, cioè la contrizione, costituisce come l'ultima disposizione al conseguimento della grazia: gli atti successivi al contrario derivano già dalla grazia e dalle virtù.

[51479] IIIª q. 89 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod, sicut supra dictum est, quandoque post primum actum poenitentiae, qui est contritio, remanent quaedam reliquiae peccatorum, scilicet dispositiones ex prioribus actibus peccatorum causatae, ex quibus praestatur difficultas quaedam poenitenti ad operandum opera virtutum, sed quantum est ex ipsa inclinatione caritatis et aliarum virtutum, poenitens opera virtutum delectabiliter et sine difficultate operatur; sicut si virtuosus per accidens difficultatem pateretur in executione actus virtutis propter somnum aut aliquam corporis dispositionem.

 

[51479] IIIª q. 89 a. 1 ad 3
3. Come abbiamo già detto, talora dopo il primo atto della penitenza che è la contrizione, rimangono (nell'anima) delle scorie dei peccati, cioè delle disposizioni causate dagli atti peccaminosi precedenti, dalle quali nascono per il penitente certe difficoltà nel compiere gli atti virtuosi: ma per quanto dipende dall'inclinazione della carità e delle altre virtù, il penitente compie con piacere e senza difficoltà gli atti virtuosi. Si tratta cioè di una difficoltà accidentale simile a quella di una persona virtuosa, la quale nel compiere un atto di virtù è disturbata dal sonno o da un'altra indisposizione corporale.




Terza Parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza > Se dopo la penitenza l'uomo risorga nello stesso grado di virtù


Tertia pars
Quaestio 89
Articulus 2

[51480] IIIª q. 89 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod post poenitentiam resurgat homo in aequali virtute. Dicit enim apostolus, Rom. VIII, diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum, ubi dicit Glossa Augustini quod hoc adeo verum est ut, si qui horum devient et exorbitent, hoc ipsum Deus faciat eis in bonum proficere. Sed hoc non esset si homo resurgeret in minori virtute.

 
Terza parte
Questione 89
Articolo 2

[51480] IIIª q. 89 a. 2 arg. 1
SEMBRA che dopo la penitenza l'uomo risorga nello stesso grado di virtù. Infatti:
1. L'Apostolo scrive: "Per coloro che amano Dio tutto coopera al bene", e la Glossa, tratta da S. Agostino, spiega che ciò è tanto vero, "che se alcuni di essi escono fuori di strada, Dio fa sì che anche questo giovi al loro bene". Ora, ciò non avverrebbe se uno risorgesse in un grado inferiore di virtù.

[51481] IIIª q. 89 a. 2 arg. 2
Praeterea, Ambrosius dicit quod poenitentia optima res est, quae omnes defectus revocat ad perfectum. Sed hoc non esset nisi virtutes in aequali quantitate recuperarentur. Ergo per poenitentiam semper recuperatur aequalis virtus.

 

[51481] IIIª q. 89 a. 2 arg. 2
2. S. Ambrogio afferma che "la penitenza è quell'ottima cosa, la quale convoglia verso la perfezione tutti i difetti". Ora, questo non avverrebbe se le virtù non fossero ricuperate nello stesso grado di prima. Dunque mediante la penitenza si ricupera una virtù dello stesso grado.

[51482] IIIª q. 89 a. 2 arg. 3
Praeterea, super illud Genes. I, factum est vespere et mane dies unus, dicit Glossa, vespertina lux est a qua quis cecidit, matutina in qua resurgit. Sed lux matutina est maior quam vespertina. Ergo aliquis resurgit in maiori gratia vel caritate quam prius habuerat. Quod etiam videtur per id quod apostolus dicit, Rom. V, ubi abundavit delictum, superabundavit et gratia.

 

[51482] IIIª q. 89 a. 2 arg. 3
3. A proposito di quel testo della Genesi, "Tra sera e mattino si compì un giorno", la Glossa spiega: "La luce vespertina è quella che la caduta ci fa perdere; quella mattutina è quella che si conquista col risorgere". Ma la luce mattutina è superiore a quella vespertina. Quindi si risorge con una grazia o carità superiore a quella perduta. - Ciò sembra concordare con quanto dice l'Apostolo: "Dove abbondò il peccato, ivi sovrabbondò la grazia".

[51483] IIIª q. 89 a. 2 s. c.
Sed contra, caritas proficiens vel perfecta maior est quam caritas incipiens. Sed quandoque aliquis cadit a caritate proficiente, resurgit autem in caritate incipiente. Ergo semper resurgit homo in minori etiam virtute.

 

[51483] IIIª q. 89 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: La carità dei proficienti o dei perfetti è superiore a quella degli incipienti. Ora, capita che uno cada mentre possiede la carità dei proficienti, e risorga con la carità degli incipienti. Dunque l'uomo anche nella virtù risorge sempre in un grado inferiore.

[51484] IIIª q. 89 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, motus liberi arbitrii qui est in iustificatione impii, est ultima dispositio ad gratiam, unde in eodem instanti est gratiae infusio cum praedicto motu liberi arbitrii, ut in secunda parte habitum est. In quo quidem motu comprehenditur actus poenitentiae, ut supra dictum est. Manifestum est autem quod formae quae possunt recipere magis et minus, intenduntur et remittuntur secundum diversam dispositionem subiecti, ut in secunda parte habitum est. Et inde est quod, secundum quod motus liberi arbitrii in poenitentia est intensior vel remissior, secundum hoc poenitens consequitur maiorem vel minorem gratiam. Contingit autem intensionem motus poenitentis quandoque proportionatam esse maiori gratiae quam illa a qua cecidit per peccatum; quandoque vero aequali; quandoque vero minori. Et ideo poenitens quandoque resurgit in maiori gratia quam prius habuerat; quandoque autem in aequali; quandoque etiam in minori. Et eadem ratio est de virtutibus, quae ex gratia consequuntur.

 

[51484] IIIª q. 89 a. 2 co.
RISPONDO: Il moto del libero arbitrio che si riscontra nella giustificazione del peccatore, è, come abbiamo rilevato sopra, l'ultima disposizione dell'uomo alla grazia: perciò nello stesso istante si ha l'infusione della grazia e il predetto moto del libero arbitrio, come abbiamo visto nella Seconda Parte. E in codesto moto si riscontra un atto della penitenza, secondo le spiegazioni date in precedenza. Ora, è evidente che le forme suscettibili di maggiore o minore intensità sono di un grado maggiore o minore secondo la diversa disposizione del soggetto, come abbiamo spiegato nella Seconda Parte. Perciò, a seconda che il moto del libero arbitrio è nella penitenza più intenso o più debole, il penitente consegue una grazia maggiore o minore.
Ebbene, l'intensità del moto suddetto talora capita che sia proporzionata a una grazia superiore a quella da cui il penitente era decaduto col peccato; talora invece capita che sia uguale; e talora inferiore. Perciò il penitente talora risorge con una grazia superiore a quella precedente; talora con una uguale; e talora con una grazia inferiore. Lo stesso si dica delle virtù che accompagnano la grazia.

[51485] IIIª q. 89 a. 2 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod non omnibus diligentibus Deum cooperatur in bonum hoc ipsum quod per peccatum a Dei amore cadunt, quod patet in his qui cadunt et nunquam resurgunt, vel qui resurgunt iterum casuri, sed in his qui secundum propositum vocati sunt sancti, scilicet praedestinatis, qui, quotiescumque cadunt, finaliter tamen resurgunt. Cedit igitur eis in bonum hoc quod cadunt, non quia semper in maiori gratia resurgant, sed quia resurgunt in permanentiori gratia, non quidem ex parte ipsius gratiae, quia, quanto gratia est maior, tanto de se est permanentior; sed ex parte hominis, qui tanto stabilius in gratia permanet quanto est cautior et humilior. Unde et Glossa ibidem subdit quod ideo proficit eis in bonum quod cadunt, quia humiliores redeunt, et quia doctiores fiunt.

 

[51485] IIIª q. 89 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Non a tutti coloro che amano Dio coopera al bene il fatto di decadere dall'amore di Dio col peccato, com'è evidente nel caso di coloro che cadono e non risorgono più, oppure risorgono per cadere di nuovo: ma solo "per quelli che secondo il piano di Dio son chiamati ad esser santi", cioè per i predestinati; i quali per quanto cadano in definitiva risorgono. Perciò la caduta torna a loro vantaggio, non perché risorgono con una grazia più grande, ma perché risorgono con una grazia più duratura: e questo non da parte della grazia, la quale quanto è maggiore altrettanto è più duratura; ma da parte del soggetto, il quale tanto è più stabile nella grazia, quanto è più cauto e più umile. Ecco perché la Glossa riferita aggiunge che la caduta torna a loro vantaggio, "perché si rialzano più umili, e più prudenti".

[51486] IIIª q. 89 a. 2 ad 2
Ad secundum dicendum quod poenitentia, quantum est de se, habet virtutem reparandi omnes defectus ad perfectum, et etiam promovendi in ulteriorem statum, sed hoc quandoque impeditur ex parte hominis, qui remissius movetur in Deum et in detestationem peccati. Sicut etiam in Baptismo aliqui adulti consequuntur maiorem vel minorem gratiam, secundum quod diversimode se disponunt.

 

[51486] IIIª q. 89 a. 2 ad 2
2. La penitenza di suo ha la virtù di riparare tutti i difetti alla perfezione, e anzi di promuovere a uno stato superiore: questo però talora viene impedito da parte dell'uomo, che si muove con poco impegno nella ricerca di Dio e nella detestazione del peccato. Anche nel battesimo, del resto, gli adulti conseguono una grazia maggiore o minore a seconda del diverso modo col quale vi si dispongono.

[51487] IIIª q. 89 a. 2 ad 3
Ad tertium dicendum quod illa assimilatio utriusque gratiae ad lucem vespertinam et matutinam fit propter similitudinem ordinis, quia post lucem vespertinam sequuntur tenebrae noctis, post lucem autem matutinam sequitur lux diei, non autem propter maiorem vel minorem similitudinem quantitatis. Illud etiam verbum apostoli intelligitur de gratia, quae exsuperat omnem abundantiam humanorum peccatorum. Non autem hoc est verum in omnibus, quod quanto abundantius peccavit, tanto abundantiorem gratiam consequatur, pensata quantitate habitualis gratiae. Est tamen superabundans gratia quantum ad ipsam gratiae rationem, quia magis gratis beneficium remissionis magis peccatori confertur. Quamvis quandoque abundanter peccantes abundanter dolent, et sic abundantiorem habitum gratiae et virtutum consequuntur, sicut patet in Magdalena.

 

[51487] IIIª q. 89 a. 2 ad 3
3. La comparazione dell'una e dell'altra grazia alla luce vespertina e a quella mattutina è legata alla somiglianza nell'ordine di successione; poiché alla luce vespertina seguono le tenebre della notte, mentre alla luce mattutina segue la luce del giorno: ma non è legata alla maggiore o minore somiglianza rispetto all'intensità.
Le parole di S. Paolo poi vanno riferite alla grazia la quale supera tutto il cumulo dei peccati dell'uomo. Ma non è vero per tutti, che quanto più uno ha peccato, tanta più grazia riceve rispetto alla quantità della grazia abituale. Tuttavia si ha una grazia sovrabbondante rispetto alla nozione stessa di grazia: poiché per un peccatore più grande il beneficio del perdono è maggiormente gratuito. - Capita tuttavia che talora coloro i quali hanno peccato di più concepiscano maggior dolore: e allora essi conseguono un abito più ricco di grazia e di virtù, com'è evidente nel caso della Maddalena.

[51488] IIIª q. 89 a. 2 ad 4
Ad id vero quod in contrarium obiicitur, dicendum quod una et eadem gratia maior est proficiens quam incipiens, sed in diversis hoc non est necesse. Unus enim incipit a maiori gratia quam alius habeat in statu profectus, sicut Gregorius dicit, in II Dialog., praesentes et secuturi omnes cognoscant, Benedictus puer a quanta perfectione conversionis gratiam incoepisset.

 

[51488] IIIª q. 89 a. 2 ad 4
4. All'argomento in contrario si deve rispondere che nell'identico uomo la grazia di proficiente è superiore a quella di incipiente: ma in uomini diversi ciò non è necessario. Infatti uno può iniziare da una grazia più grande, che un altro raggiunge nello stato di progresso. S. Gregorio, p. es., nel Dialogo esclama: "Conoscano gli uomini presenti e futuri da quanta perfezione S. Benedetto fanciullo abbia iniziato la grazia della conversione".




Terza Parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza > Se la penitenza restituisca un uomo alla dignità precedente


Tertia pars
Quaestio 89
Articulus 3

[51489] IIIª q. 89 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod per poenitentiam non restituatur homo in pristinam dignitatem. Quia super illud Amos V, virgo Israel cecidit, dicit Glossa, non negat ut resurgat, sed ut resurgere virgo possit, quia semel oberrans ovis, etsi reportetur in humeris pastoris, non habet tantam gloriam quantam quae nunquam erravit. Ergo per poenitentiam non recuperat homo pristinam dignitatem.

 
Terza parte
Questione 89
Articolo 3

[51489] IIIª q. 89 a. 3 arg. 1
SEMBRA che la penitenza non restituisca l'uomo alla dignità precedente. Infatti:
1. A commento delle parole di Amos, "La vergine d'Israele è caduta", la Glossa spiega: "Il profeta non nega che essa possa risorgere, ma che possa risorgere vergine: perché la pecora una volta smarrita, anche se riportata sulle spalle del Pastore, non ha mai tanta gloria, quanta ne ha quella che non si smarrì". Dunque con la penitenza non si può ricuperare la dignità antecedente.

[51490] IIIª q. 89 a. 3 arg. 2
Praeterea, Hieronymus dicit, quicumque dignitatem divini gradus non custodiunt, contenti fiant animam salvare, reverti enim in pristinum gradum difficile est. Et Innocentius Papa dicit quod apud Nicaeam constituti canones poenitentes etiam ab infimis clericorum officiis excludunt. Non ergo per poenitentiam homo recuperat pristinam dignitatem.

 

[51490] IIIª q. 89 a. 3 arg. 2
2. S. Girolamo afferma: "Coloro che non hanno custodito la dignità della loro vita divina, si contentino di salvare la loro anima: poiché tornare al grado di prima è cosa difficile". - E il Papa Innocenzo I scrive, che "i canoni di Nicea escludono i penitenti anche dagli uffici più umili dei chierici". Perciò con la penitenza l'uomo non può ricuperare la dignità che aveva in precedenza.

[51491] IIIª q. 89 a. 3 arg. 3
Praeterea, ante peccatum potest aliquis ad maiorem gradum ascendere. Non autem hoc post peccatum conceditur poenitenti, dicitur enim Ezech. XLIV, Levitae qui recesserunt a me, nunquam appropinquabunt mihi, ut sacerdotio fungantur. Et, sicut habetur in decretis, dist. l, in Hilerdensi Concilio legitur, hi qui sancto altario deserviunt, si subito flenda debilitate carnis corruerint, et, domino respiciente, poenituerint, officiorum suorum loca recipiant, nec possint ad altiora officia ulterius promoveri. Non ergo poenitentia restituit hominem in pristinam dignitatem.

 

[51491] IIIª q. 89 a. 3 arg. 3
3. Prima del peccato uno ha la possibilità di salire a un grado superiore. Ma questo non si concede al penitente dopo il peccato; poiché in Ezechiele si legge: "I leviti che hanno disertato da me non si accosteranno a me per fungere da sacerdoti". Di qui la disposizione del Concilio di Lerida I inserita nei canoni del Decreto: "Coloro che addetti al servizio dell'altare hanno ceduto d'improvviso alla fragilità della carne, e per la misericordia di Dio se ne sono pentiti, riprendano i loro posti nelle funzioni sacre, però non vengano promossi ad uffici superiori". Quindi la penitenza non restituisce l'uomo alla sua dignità precedente.

[51492] IIIª q. 89 a. 3 s. c.
Sed contra est quod, sicut in eadem distinctione legitur, Gregorius, scribens Secundino, dixit, post dignam satisfactionem, credimus hominem posse redire ad suum honorem. Et in Concilio Agathensi legitur, contumaces clerici, prout dignitatis ordo permiserit, ab episcopis corrigantur, ita ut, cum eos poenitentia correxerit, gradum suum dignitatemque recipiant.

 

[51492] IIIª q. 89 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: Nella medesima distinzione del Decreto (di Graziano) viene riferito il testo seguente di S. Gregorio: "Dopo una degna soddisfazione, crediamo che uno possa riprendere la sua dignità". E nel Concilio di Agde fu decretato: "I chierici contumaci devono essere puniti dai loro vescovi avendo riguardo alla loro dignità; cosicché dopo essere stati corretti dalla penitenza, rientrino in possesso del loro grado e dignità".

[51493] IIIª q. 89 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod homo per peccatum duplicem dignitatem amittit, unam quantum ad Deum, aliam vero quantum ad Ecclesiam. Quantum autem ad Deum, amittit duplicem dignitatem. Unam principalem, qua scilicet computatus erat inter filios Dei per gratiam. Et hanc dignitatem recuperat per poenitentiam. Quod significatur Luc. XV de filio prodigo, cui pater poenitenti iussit restitui stolam primam et anulum et calceamenta. Aliam vero dignitatem amittit secundariam, scilicet innocentiam, de qua, sicut ibidem legitur, gloriabatur filius senior, dicens, ecce, tot annis servio tibi, et nunquam mandatum tuum praeterivi. Et hanc dignitatem poenitens recuperare non potest. Recuperat tamen quandoque aliquid maius. Quia, ut Gregorius dicit, in homilia de centum ovibus, qui errasse a Deo se considerant, damna praecedentia lucris sequentibus recompensant. Maius ergo gaudium de eis fit in caelo, quia et dux in praelio plus eum militem diligit qui post fugam reversus hostem fortiter premit, quam illum qui nunquam terga praebuit et nunquam aliquid fortiter fecit. Dignitatem autem ecclesiasticam homo per peccatum perdit, qui indignum se reddit ad ea quae competunt dignitati ecclesiasticae exercenda. Quam quidem recuperare prohibentur, uno modo, quia non poenitent. Unde Isidorus ad Misianum episcopum scribit, sicut in eadem distinctione legitur, cap. domino, illos ad pristinos gradus canones redire praecipiunt quos poenitentiae praecessit satisfactio, vel condigna peccatorum confessio. At contra hi qui a vitio corruptionis non emendantur, nec gradum honoris, nec gratiam recipiunt communionis. Secundo, quia poenitentiam negligenter agunt. Unde in eadem distinctione, cap. si quis diaconus, dicitur, cum in aliquibus nec compunctio humilitatis, nec instantia orandi appareat, nec ieiuniis vel lectionibus eos vacare videamus, possumus agnoscere, si ad pristinos honores redirent, cum quanta negligentia permanerent. Tertio, si commisit aliquod peccatum habens irregularitatem aliquam admixtam. Unde in eadem distinctione, ex Concilio Martini Papae, dicitur, si quis viduam, vel ab alio relictam duxerit, non admittatur ad clerum. Quod si irrepserit, deiiciatur. Similiter si homicidii aut facto aut praecepto aut consilio aut defensione, post Baptismum, conscius fuerit. Sed hoc non est ratione peccati, sed ratione irregularitatis. Quarto, propter scandalum. Unde in eadem distinctione legitur, cap. de his vero, Rabanus dicit, hi qui deprehensi vel capti fuerint publice in periurio, furto aut fornicatione, et ceteris criminibus, secundum canonum sacrorum instituta a proprio gradu decidant, quia scandalum est populo Dei tales personas superpositas habere. Qui autem de praedictis peccatis absconse a se commissis sacerdoti confitentur, si se per ieiunia et eleemosynas vigiliasque et sacras orationes purgaverint, his etiam, gradu proprio servato, spes veniae de misericordia Dei promittenda est. Et hoc etiam dicitur extra, de qualitate Ordinand., cap. quaesitum, si crimina ordine iudiciario comprobata, vel alias notoria non fuerint, praeter reos homicidii, post poenitentiam in susceptis vel iam suscipiendis ordinibus impedire non possunt.

 

[51493] IIIª q. 89 a. 3 co.
RISPONDO: L'uomo col peccato viene a perdere due tipi di dignità: il primo presso Dio, il secondo presso la Chiesa. Presso Dio egli perde una duplice dignità. Una dignità principale, per cui "era computato tra i figli di Dio" mediante la grazia. E questa viene recuperata dalla penitenza. A ciò si accenna nella parabola evangelica del figliol prodigo, allorché dopo il pentimento il padre comanda di restituire "la veste più preziosa, l'anello e i calzari". - Perde poi una dignità secondaria, cioè l'innocenza: di cui nella parabola evangelica ricordata, si gloriava il figlio maggiore con quelle parole: "Ecco io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando". E questa dignità il penitente non può ricuperarla. - Talora però egli ricupera qualche cosa di più grande. Poiché, come scrive S. Gregorio, "coloro i quali considerano le proprie defezioni da Dio, ricompensano con i guadagni successivi le perdite precedenti. Ecco perché di essi si fa più festa in cielo: perché il comandante ama di più nel combattimento quel soldato che, tornato indietro dopo aver tentato la fuga, incalza coraggiosamente il nemico, piuttosto che quello il quale, senza aver mai voltato le spalle al nemico, non compie mai un grande atto di coraggio".
Inoltre col peccato un uomo può perdere la sua dignità presso la Chiesa, rendendosi indegno di esercitare quei compiti che sono inerenti alla dignità ecclesiastica. Ebbene, questa è proibito riacquistarla per vari motivi. Primo, perché alcuni non fanno penitenza. Di qui le parole di S. Isidoro, riferite dal Decreto (di Graziano): "I canoni prescrivono di riabilitare nel loro grado gerarchico coloro che hanno soddisfatto per le loro colpe, e che le hanno confessate. Coloro invece che non si sono emendati dal peccato non devono ottenere né il loro grado né la grazia della comunione ecclesiastica". - Secondo, perché alcuni ne fanno penitenza con poco impegno. Di qui le parole dei Canoni: "Quando nei chierici penitenti non si riscontra né la compunzione dell'umiltà, né l'assiduità nella preghiera, nei digiuni o nelle buone letture, possiamo arguire con quanta negligenza si comporterebbero, se tornassero alle loro dignità precedenti". - Terzo, nel caso che uno abbia commesso un peccato cui è annessa qualche irregolarità. Di qui il canone del Concilio tenuto dal Papa Martino: "Se uno ha sposato una vedova o una donna lasciata da altri, non venga ammesso nel clero. E se vi si è intruso, venga espulso. Lo stesso si faccia qualora dopo il battesimo uno si sia reso responsabile di omicidio, o col fatto, o col comando, o col consiglio, anche se per difesa". In quest'ultimo caso l'esclusione non è dovuta al peccato, ma all'irregolarità. - Quarto, a motivo dello scandalo. Ecco perché nella stessa distinzione del Decreto si leggono le seguenti espressioni di Rabano Mauro: "Coloro che pubblicamente sono stati convinti di spergiuro, di furto, di fornicazione o di altri crimini, vengano degradati a norma dei canoni: poiché è uno scandalo per il popolo di Dio avere sopra di sé siffatte persone. A coloro invece che confessano al sacerdote peccati di codesto genere da loro commessi segretamente, se son disposti a farne penitenza mediante digiuni, elemosine, veglie e preghiere, si deve promettere la speranza del perdono per la misericordia di Dio". Nei Canoni inoltre si legge: "Se i crimini non sono stati provati per una sentenza giudiziaria, e non sono altrimenti notori, all'infuori del caso di omicidio, dopo la penitenza non possono impedire di esercitare gli ordini ricevuti e di riceverli".

[51494] IIIª q. 89 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod eadem ratio est de recuperatione virginitatis et de recuperatione innocentiae, quae pertinet ad secundariam dignitatem quoad Deum.

 

[51494] IIIª q. 89 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. La verginità al pari dell'innocenza è irreparabile, rientrando essa nella dignità secondaria che è possibile avere di fronte a Dio.

[51495] IIIª q. 89 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod Hieronymus in verbis illis non dicit esse impossibile, sed dicit esse difficile hominem recuperare post peccatum pristinum gradum, quia hoc non conceditur nisi perfecte poenitenti, ut dictum est. Ad statuta autem canonum qui hoc prohibere videntur, respondet Augustinus, Bonifacio scribens, ut constitueretur in Ecclesia ne quisquam post alicuius criminis poenitentiam clericatum accipiat, vel ad clericatum redeat, vel in clericatu maneat, non desperatione indulgentiae, sed rigore factum est disciplinae. Alioquin contra claves datas Ecclesiae disputabitur, de quibus dictum est, quaecumque solveritis super terram, erunt soluta et in caelo. Et postea subdit, nam et sanctus David de criminibus egit poenitentiam, et tamen in honore suo perstitit. Et beatum Petrum, quando amarissimas lacrimas fudit, utique dominum negasse poenituit, et tamen apostolus permansit. Sed non ideo putanda est supervacua posteriorum diligentia, qui, ubi saluti nihil detrahebatur, humilitati aliquid addiderunt, experti, ut credo, aliquorum fictas poenitentias per affectatas honorum potentias.

 

[51495] IIIª q. 89 a. 3 ad 2
2. S. Girolamo nelle parole riferite non dice che è impossibile, ma che è difficile che uno dopo il peccato riacquisti il grado di prima: perché questo non viene concesso, come abbiamo visto nell'articolo, se non a chi compie una perfetta penitenza.
Alle prescrizioni dei Canoni che sembrano proibire questa riabilitazione, S. Agostino fa il seguente commento: "La disposizione presa dalla Chiesa di vietare lo stato clericale, di tornare ad esso o di rimanervi dopo aver espiato un crimine con la penitenza, non si deve alla mancanza di fiducia nel perdono, ma al rigore della disciplina. Altrimenti si metterebbe in discussione il potere delle chiavi dato alla Chiesa con quelle parole: "Qualunque cosa scioglierete sulla terra sarà sciolta anche nei cieli"". E poco dopo aggiunge: "Infatti anche il santo re David fece penitenza dei suoi delitti; e tuttavia rimase nella sua dignità. E S. Pietro, dopo aver versato amarissime lacrime ed essersi pentito di aver rinnegato il Signore, rimase pur sempre Apostolo. Tuttavia non si deve reputare inutile il rigore degli antichi, i quali, senza togliere nulla alla certezza della salute, aggiunsero qualche cosa a vantaggio dell'umiltà: sapendo essi per esperienza, così io penso, che alcuni fingono delle penitenze per il miraggio degli onori".

[51496] IIIª q. 89 a. 3 ad 3
Ad tertium dicendum quod illud statutum intelligitur de illis qui publicam poenitentiam agunt, qui postmodum non possunt ad maiorem provehi gradum. Nam et Petrus post negationem pastor ovium Christi constitutus est, ut patet Ioan. ult. Ubi dicit Chrysostomus quod Petrus post negationem et poenitentiam ostendit se habere maiorem fiduciam ad Christum. Qui enim in cena non audebat interrogare, sed Ioanni interrogationem commisit, huic postea et praepositura fratrum credita est, et non solum non committit alteri interrogare quae ad ipsum pertinent, sed de reliquo ipse pro Ioanne magistrum interrogat.

 

[51496] IIIª q. 89 a. 3 ad 3
3. Le norme ricordate si riferiscono solo a coloro che sono stati assoggettati a una penitenza pubblica, e quindi non possono essere promossi a un grado superiore. Infatti S. Pietro fu costituito pastore del gregge di Cristo dopo il suo rinnegamento, come narra S. Giovanni. Cosicché il Crisostomo scrive, che "Pietro dopo il rinnegamento e il pentimento mostrò di avere maggiore confidenza con Cristo. Egli infatti, che nell'ultima cena non aveva osato interrogarlo, ma aveva di ciò incaricato Giovanni, dopo aver ricevuto la presidenza sui fratelli, non solo non incarica un altro di interrogarlo su quanto riguardava lui, ma direttamente interroga il Maestro per Giovanni".




Terza Parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza > Se gli atti virtuosi compiuti nella carità possano essere "mortificati"


Tertia pars
Quaestio 89
Articulus 4

[51497] IIIª q. 89 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod opera virtutum in caritate facta mortificari non possunt. Quod enim non est, immutari non potest. Sed mortificatio est quaedam mutatio de vita in mortem. Cum ergo opera virtutum, postquam facta sunt, iam non sint, videtur quod ulterius mortificari non possunt.

 
Terza parte
Questione 89
Articolo 4

[51497] IIIª q. 89 a. 4 arg. 1
SEMBRA che gli atti virtuosi compiuti nella carità non possano essere "mortificati". Infatti:
1. Ciò che non esiste non può essere mutato. Ma il subire la morte è una mutazione dalla vita alla morte. Poiché dunque gli atti virtuosi dopo essere stati compiuti non esistono più, è chiaro che essi non possono essere "mortificati".

[51498] IIIª q. 89 a. 4 arg. 2
Praeterea, per opera virtutis in caritate facta homo meretur vitam aeternam. Sed subtrahere mercedem merenti est iniustitia, quae non cadit in Deum. Ergo non potest esse quod opera virtutum in caritate facta per peccatum sequens mortificentur.

 

[51498] IIIª q. 89 a. 4 arg. 2
2. Con gli atti virtuosi compiuti nella carità l'uomo merita la vita eterna. Ora, sottrarre la mercede a chi l'ha meritata è un'ingiustizia, che è inconcepibile in Dio. Dunque è impossibile che gli atti virtuosi compiuti nella carità vengano "mortificati" dal peccato che li segue.

[51499] IIIª q. 89 a. 4 arg. 3
Praeterea, fortius non corrumpitur a debiliori. Sed opera caritatis sunt fortiora quibuslibet peccatis, quia, ut dicitur Proverb. X, universa delicta operit caritas. Ergo videtur quod opera in caritate facta per sequens mortale peccatum mortificari non possunt.

 

[51499] IIIª q. 89 a. 4 arg. 3
3. Ciò che è più potente non può essere distrutto da ciò che è più debole. Ma le opere della carità sono più forti di tutti i peccati: perché, come si dice nei Proverbi, "la carità copre tutti i peccati". Perciò le opere compiute nella carità non possono perire per il peccato mortale successivo.

[51500] IIIª q. 89 a. 4 s. c.
Sed contra est quod dicitur Ezech. XVIII, si averterit se iustus a iustitia sua, omnes iustitiae eius quas fecerat, non recordabuntur.

 

[51500] IIIª q. 89 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: In Ezechiele si legge: "Se il giusto avrà traviato dalla sua giustizia, tutte le sue opere giuste non saranno più ricordate".

[51501] IIIª q. 89 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod res viva per mortem perdit operationem vitae, unde per quandam similitudinem dicuntur res mortificari quando impediuntur a proprio suo effectu vel operatione. Effectus autem operum virtuosorum quae in caritate fiunt, est perducere ad vitam aeternam. Quod quidem impeditur per peccatum mortale sequens, quod gratiam tollit. Et secundum hoc, opera in caritate facta dicuntur mortificari per sequens peccatum mortale.

 

[51501] IIIª q. 89 a. 4 co.
RISPONDO: Un essere vivo perde con la morte le operazioni della vita: ecco perché si dice metaforicamente che le cose vengono "mortificate", quando se ne impedisce l'effetto o l'operazione. Ora, effetto degli atti virtuosi compiuti nella carità è quello di condurre alla vita eterna. E questo viene impedito dal peccato mortale successivo, il quale toglie la grazia. Ecco perché le opere compiute nella carità si dice che "vengono mortificate" dal peccato mortale successivo.

[51502] IIIª q. 89 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod, sicut opera peccatorum transeunt actu et manent reatu, ita opera in caritate facta, postquam transeunt actu, manent merito in Dei acceptatione. Et secundum hoc mortificantur, inquantum impeditur homo ne consequatur suam mercedem.

 

[51502] IIIª q. 89 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Come gli atti peccaminosi passano per il loro atto ma rimangono per il reato, così gli atti compiuti nella carità dopo essere passati per il loro atto rimangono per il merito nel gradimento di Dio. E in questo essi "vengono mortificati": perché l'uomo viene impedito dal conseguire la sua mercede.

[51503] IIIª q. 89 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod sine iniustitia potest subtrahi merces merenti quando ipse reddiderit se indignum mercede per culpam sequentem. Nam et ea quae homo iam accepit, quandoque iuste propter culpam perdit.

 

[51503] IIIª q. 89 a. 4 ad 2
2. Si può sottrarre senza ingiustizia la mercede, quando chi l'ha meritata se ne rende indegno con una colpa successiva. Infatti talora uno può perdere giustamente per una colpa persino il premio che aveva già conseguito.

[51504] IIIª q. 89 a. 4 ad 3
Ad tertium dicendum quod non est propter fortitudinem operum peccati quod mortificantur opera prius in caritate facta, sed est propter libertatem voluntatis, quae potest a bono in malum deflecti.

 

[51504] IIIª q. 89 a. 4 ad 3
3. Le opere compiute nella carità non vengono "mortificate" per la potenza delle opere del peccato; ma per la libertà del volere che può piegarsi dal bene al male.




Terza Parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza > Se le opere "mortificate" dal peccato reviviscano con la penitenza


Tertia pars
Quaestio 89
Articulus 5

[51505] IIIª q. 89 a. 5 arg. 1
Ad quintum sic proceditur. Videtur quod opera mortificata per peccatum per poenitentiam non reviviscant. Sicut enim per poenitentiam subsequentem remittuntur peccata praeterita, ita etiam per peccatum sequens mortificantur opera prius in caritate facta. Sed peccata dimissa per poenitentiam non redeunt, ut supra dictum est. Ergo videtur quod etiam opera mortificata per caritatem non reviviscant.

 
Terza parte
Questione 89
Articolo 5

[51505] IIIª q. 89 a. 5 arg. 1
SEMBRA che le opere "mortificate" dal peccato non reviviscano con la penitenza. Infatti:
1. Come i peccati passati vengono rimessi dalla penitenza che li segue, così le opere compiute nella carità vengono annullate o "mortificate" dal peccato successivo. Ma i peccati rimessi non ritornano mediante la penitenza, come sopra abbiamo dimostrato. Dunque neppure le opere mortificate reviviscono mediante la carità.

[51506] IIIª q. 89 a. 5 arg. 2
Praeterea, opera dicuntur mortificari ad similitudinem animalium quae moriuntur, ut dictum est. Sed animal mortuum non potest iterum vivificari. Ergo nec opera mortificata possunt iterum per poenitentiam reviviscere.

 

[51506] IIIª q. 89 a. 5 arg. 2
2. Le opere si dice che "vengono mortificate" a somiglianza degli animali che muoiono, come sopra abbiamo notato. Ora, l'animale morto non può essere di nuovo vivificato. Quindi neppure le opere "mortificate" possono reviviscere con la penitenza.

[51507] IIIª q. 89 a. 5 arg. 3
Praeterea, opera in caritate facta merentur gloriam secundum quantitatem gratiae vel caritatis. Sed quandoque per poenitentiam homo resurgit in minori gratia vel caritate. Ergo non consequetur gloriam secundum merita priorum operum. Et ita videtur quod opera mortificata per peccatum non reviviscant.

 

[51507] IIIª q. 89 a. 5 arg. 3
3. Le opere compiute nella carità meritano la gloria secondo la misura della grazia e della carità. Ma talora con la penitenza uno risorge con una grazia o carità inferiore a quella di prima. Quindi non può conseguire la gloria secondo i meriti delle opere precedenti. Perciò sembra che le opere "mortificate" dal peccato non reviviscano.

[51508] IIIª q. 89 a. 5 s. c.
Sed contra est quod, super illud Ioel II, reddam vobis annos quos comedit locusta, dicit Glossa, non patiar perire ubertatem quam cum perturbatione animi amisistis. Sed illa ubertas est meritum bonorum operum, quod fuit perditum per peccatum. Ergo per poenitentiam reviviscunt opera meritoria prius facta.

 

[51508] IIIª q. 89 a. 5 s. c.
IN CONTRARIO: Spiegando quel testo di Gioele, "Vi restituirò le annate che ha divorato la locusta", la Glossa afferma: "Non permetterò che perisca l'abbondanza che avete perduto per la perturbazione della vostra anima". Ma tale abbondanza è il merito delle opere buone, che fu perduto per il peccato. Quindi con la penitenza reviviscono le opere meritorie compiute prima del peccato.

[51509] IIIª q. 89 a. 5 co.
Respondeo dicendum quod quidam dixerunt quod opera meritoria per peccatum sequens mortificata non reviviscunt per poenitentiam sequentem, considerantes quod opera illa non remanent, ut iterum vivificari possent. Sed hoc impedire non potest quin vivificentur. Non enim habent vim perducendi in vitam aeternam, quod pertinet ad eorum vitam, solum secundum quod actu existunt, sed etiam postquam actu esse desinunt secundum quod remanent in acceptatione divina. Sic autem remanent, quantum est de se, etiam postquam per peccatum mortificantur, quia semper Deus illa opera, prout facta fuerunt, acceptabit, et sancti de eis gaudebunt, secundum illud Apoc. III, tene quod habes, ne alius accipiat coronam tuam. Sed quod isti qui ea fecit non sint efficacia ad ducendum ad vitam aeternam, provenit ex impedimento peccati supervenientis, per quod ipse redditur indignus vita aeterna. Hoc autem impedimentum tollitur per poenitentiam, inquantum per eam remittuntur peccata. Unde restat quod opera prius mortificata per poenitentiam recuperant efficaciam perducendi eum qui fecit ea in vitam aeternam, quod est ea reviviscere. Et ita patet quod opera mortificata per poenitentiam reviviscunt.

 

[51509] IIIª q. 89 a. 5 co.
RISPONDO: Alcuni hanno affermato che le opere meritorie mortificate dal peccato non reviviscono con la penitenza successiva, partendo dal fatto che codeste opere non rimangono per poter poi essere di nuovo vivificate.
Ma questo non può impedire la loro reviviscenza. Esse infatti hanno il potere di condurre alla vita eterna, nel quale consiste la loro vita, non solo per il fatto che esistono attualmente, ma anche dopo che cessano di esistere, in quanto rimangono nell'accettazione di Dio. E qui esse di suo rimangono anche dopo essere state mortificate dal peccato: perché codeste opere una volta fatte saranno sempre accette a Dio, e i santi ne godranno, secondo le parole dell'Apocalisse: "Tieni ciò che hai, perché altri non prenda la tua corona". Che poi esse non siano efficaci a condurre alla vita eterna colui che le compì, deriva dall'impedimento del peccato successivo, che rese costui indegno di essa. Ma tale impedimento viene tolto dalla penitenza, poiché con essa vengono rimessi i peccati. Perciò ne segue che le opere già "mortificate" ricuperano con la penitenza l'efficacia di condurre alla vita eterna colui che le aveva compiute: e ciò significa che reviviscono. Quindi è evidente che le opere mortificate, mediante la penitenza reviviscono.

[51510] IIIª q. 89 a. 5 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod opera peccati per poenitentiam abolentur secundum se, ita scilicet quod ex eis ulterius, Deo indulgente, nec macula nec reatus inducitur. Sed opera ex caritate facta non abolentur a Deo, in cuius acceptatione remanent, sed impedimentum accipiunt ex parte hominis operantis. Et ideo, remoto impedimento quod est ex parte hominis, Deus implet ex parte sua illud quod opera merebantur.

 

[51510] IIIª q. 89 a. 5 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Le opere del peccato dalla penitenza vengono distrutte direttamente: cosicché, per la misericordia di Dio, di esse non rimane né la macchia né il reato. Invece le opere compiute nella carità non vengono distrutte da Dio, nella cui accettazione rimangono: ma solo incontrano un impedimento da parte dell'uomo. Perciò tolto questo impedimento Dio compie da parte sua quello che le opere meritavano.

[51511] IIIª q. 89 a. 5 ad 2
Ad secundum dicendum quod opera in caritate facta non mortificantur secundum se, sicut dictum est, sed solum per impedimentum superveniens ex parte operantis. Animalia autem moriuntur secundum se, inquantum privantur principio vitae. Et ideo non est simile.

 

[51511] IIIª q. 89 a. 5 ad 2
2. Le opere compiute nella carità non muoiono per se stesse, come abbiamo già notato, ma solo per l'impedimento sorto da parte di chi le aveva compiute. Invece gli animali muoiono per se stessi, perché vengono privati del principio vitale. Perciò il paragone non regge.

[51512] IIIª q. 89 a. 5 ad 3
Ad tertium dicendum quod ille qui per poenitentiam resurgit in minori caritate, consequetur quidem praemium essentiale secundum quantitatem caritatis in qua invenitur, habebit tamen gaudium maius de operibus in prima caritate factis quam de operibus quae in secunda fecit. Quod pertinet ad praemium accidentale.

 

[51512] IIIª q. 89 a. 5 ad 3
3. Colui che mediante la penitenza risorge con una carità minore, conseguirà il premio essenziale secondo la misura della carità in cui si trova a morire: tuttavia avrà una gioia più grande per le opere compiute nel primo periodo vissuto nella carità, che per quelle compiute nel secondo, gioia che rientra nel premio accidentale.




Terza Parte > I Sacramenti > La penitenza > Il ricupero delle virtù mediante la penitenza > Se le opere morte siano anch'esse vivificate dalla penitenza successiva


Tertia pars
Quaestio 89
Articulus 6

[51513] IIIª q. 89 a. 6 arg. 1
Ad sextum sic proceditur. Videtur quod per poenitentiam subsequentem etiam opera mortua, quae scilicet non sunt in caritate facta, vivificentur. Difficilius enim videtur quod ad vitam perveniat illud quod fuit mortificatum, quod nunquam fit secundum naturam, quam illud quod nunquam fuit vivum, vivificetur, quia ex non vivis secundum naturam viva aliqua generantur. Sed opera mortificata per poenitentiam vivificantur, ut dictum est. Ergo multo magis opera mortua vivificantur.

 
Terza parte
Questione 89
Articolo 6

[51513] IIIª q. 89 a. 6 arg. 1
SEMBRA che anche le opere morte, cioè fatte in stato di peccato, siano vivificate dalla successiva penitenza. Infatti:
1. È più difficile che torni in vita quanto ha subito la morte, il che non si verifica mai in natura, piuttosto che venga vivificato ciò che non fu mai vivo: poiché da cose non vive secondo natura vengono generati certi viventi. Ma le opere "mortificate" dal peccato vengono vivificate dalla penitenza, come abbiamo visto nell'articolo precedente. Quindi a maggior ragione vengono così vivificate le opere morte.

[51514] IIIª q. 89 a. 6 arg. 2
Praeterea, remota causa, removetur effectus. Sed causa quare opera de genere bonorum sine caritate facta non fuerunt viva, fuit defectus caritatis et gratiae. Sed iste defectus tollitur per poenitentiam. Ergo per poenitentiam opera mortua vivificantur.

 

[51514] IIIª q. 89 a. 6 arg. 2
2. Eliminata la causa si elimina anche l'effetto. Ora, la causa per cui le opere buone compiute senza la carità non furono vive, fu la mancanza della carità e della grazia. Ma questa mancanza viene a cessare con la penitenza. Dunque con la penitenza le opere morte reviviscono.

[51515] IIIª q. 89 a. 6 arg. 3
Praeterea, Hieronymus dicit, si quando videris inter multa opera peccatorum facere quemquam aliqua quae iusta sunt, non est tam iniustus Deus ut propter multa mala obliviscatur paucorum bonorum. Sed hoc videtur maxime quando mala praeterita per poenitentiam tolluntur. Ergo videtur quod post poenitentiam Deus remuneret priora bona in statu peccati facta, quod est ea vivificari.

 

[51515] IIIª q. 89 a. 6 arg. 3
3. S. Girolamo scrive: "Quando vedi che uno tra molti mali compie qualche opera buona, non devi credere che Dio sia tanto ingiusto da dimenticare per il molto male quel poco di bene". Ma questo viene ricordato soprattutto quando con la penitenza vengono cancellate le colpe passate. Dunque in seguito alla penitenza Dio ricompensa il bene compiuto in stato di peccato: e cioè gli ridona la vita.

[51516] IIIª q. 89 a. 6 s. c.
Sed contra est quod apostolus dicit, I Cor. XIII, si distribuero in cibos pauperum omnes facultates meas, et si tradidero corpus meum ita ut ardeam, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest. Hoc autem non esset si saltem per poenitentiam subsequentem vivificarentur. Non ergo poenitentia vivificat opera prius mortua.

 

[51516] IIIª q. 89 a. 6 s. c.
IN CONTRARIO: L'Apostolo scrive: "Quando anche distribuissi tutte le mie sostanze ai poveri, e consegnassi il mio corpo alle fiamme, se non ho la carità non mi giova a nulla". Ora, questo non avverrebbe, se almeno con la penitenza successiva codeste opere potessero essere vivificate. Perciò la penitenza non ridà vita alle opere morte.

[51517] IIIª q. 89 a. 6 co.
Respondeo dicendum quod opus aliquod dicitur mortuum dupliciter. Uno modo, effective, quia scilicet est causa mortis. Et secundum hoc, opera peccati dicuntur opera mortua, secundum illud Heb. IX, sanguis Christi emundabit conscientias nostras ab operibus mortuis. Haec igitur opera mortua non vivificantur per poenitentiam, sed magis abolentur, secundum illud Heb. VI, non rursus iacientes fundamentum poenitentiae ab operibus mortuis. Alio modo dicuntur opera mortua privative, scilicet quia carent vita spirituali, quae est ex caritate, per quam anima Deo coniungitur, ex quo vivit sicut corpus per animam. Et per hunc modum etiam fides quae est sine caritate, dicitur mortua, secundum illud Iac. II, fides sine operibus mortua est. Et per hunc etiam modum omnia opera quae sunt bona ex genere, si sine caritate fiant, dicuntur mortua, inquantum scilicet non procedunt ex principio vitae; sicut si dicamus sonum citharae vocem mortuam dare. Sic igitur differentia mortis et vitae in operibus est secundum comparationem ad principium a quo procedunt. Opera autem non possunt iterum a principio procedere, quia transeunt, et iterum eadem numero assumi non possunt. Unde impossibile est quod opera mortua iterum fiant viva per poenitentiam.

 

[51517] IIIª q. 89 a. 6 co.
RISPONDO: Un'opera si può dire morta in due maniere. Primo, in senso effettivo: cioè perché causa la morte. E in tal senso si dicono morti gli atti peccaminosi, come in quelle parole di S. Paolo: "Il sangue di Cristo purificherà le nostre coscienze dalle opere morte". Perciò questo tipo di opere morte non vengono vivificate dalla penitenza, ma piuttosto cancellate, secondo l'altra espressione paolina: "Non getteremo di nuovo le fondamenta della penitenza dalle opere morte".
Secondo, le opere possono dirsi morte in senso privativo: nel senso cioè che mancano della vita spirituale che deriva dalla carità, mediante la quale l'anima è unita a Dio di cui essa vive come il corpo mediante l'anima. E in questo senso anche la fede priva della carità si dice che è morta, secondo le parole di S. Giacomo: "La fede senza le opere è morta". E in questo senso tutte le opere che son buone nel loro genere, compiute senza la carità, devono dirsi morte: poiché esse non derivano da un principio vitale; come diciamo che dà una voce morta la cetra. Perciò la distinzione tra opere morte e opere vive è fatta in base al principio da cui procedono. Ora, le opere non possono tornare di nuovo a procedere dal loro principio: perché passano e non possono essere ripetute nella loro identità numerica. Quindi è impossibile che le opere morte ridiventino vive mediante la penitenza.

[51518] IIIª q. 89 a. 6 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod in rebus naturalibus tam mortua quam mortificata carent principio vitae. Sed opera dicuntur mortificata non ex parte principii a quo processerunt, sed ex parte impedimenti extrinseci. Mortua autem dicuntur ex parte principii. Et ideo non est similis ratio.

 

[51518] IIIª q. 89 a. 6 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. In natura sia gli esseri morti che quelli mortificati (o sopraffatti dalla morte) mancano del principio vitale. Ma le opere si denominano mortificate non dal principio da cui promanano, bensì da un impedimento estrinseco. Invece si denominano morte in riferimento al loro principio. Perciò il paragone non regge.

[51519] IIIª q. 89 a. 6 ad 2
Ad secundum dicendum quod opera de genere bonorum sine caritate facta dicuntur mortua propter defectum caritatis et gratiae sicut principii. Hoc autem non praestatur eis per poenitentiam subsequentem, ut ex tali principio procedant. Unde ratio non sequitur.

 

[51519] IIIª q. 89 a. 6 ad 2
2. Le opere buone fatte senza la carità si dicono morte per la mancanza della grazia e della carità quale principio di esse. Ora non può esser loro fornito dalla penitenza successiva di derivare da tale principio. Quindi l'argomento non vale.

[51520] IIIª q. 89 a. 6 ad 3
Ad tertium dicendum quod Deus recordatur bonorum quae quis facit in statu peccati, non ut remuneret ea in vita aeterna, quod debetur solis operibus vivis, idest ex caritate factis, sed remunerat temporali remuneratione. Sicut Gregorius dicit, in homilia de divite et Lazaro, quod, nisi dives ille aliquod bonum egisset et in praesenti saeculo remunerationem accepisset, nequaquam ei Abraham diceret, recepisti bona in vita tua. Vel hoc etiam potest referri ad hoc quod patietur tolerabilius iudicium. Unde dicit Augustinus, in libro de patientia, non possumus dicere schismatico melius fuisse ei ut, Christum negando, nihil eorum pateretur quae passus est confitendo, ut illud quod ait apostolus, si tradidero corpus meum ita ut ardeam, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest, intelligatur ad regnum caelorum obtinendum, non ad extremi iudicii supplicium tolerabilius subeundum.

 

[51520] IIIª q. 89 a. 6 ad 3
3. Dio si ricorda del bene che uno compie in stato di peccato, per ricompensarlo non già nella vita eterna, dovuta solo alle opere vive, cioè fatte nella carità, ma con una ricompensa di ordine temporale. S. Gregorio, p. es., nel commentare la parabola del ricco e del povero Lazzaro, afferma che "se quel ricco non avesse fatto in vita nessun bene, mai più Abramo gli avrebbe detto: "Tu hai ricevuto dei beni nella tua vita"".
Oppure il suddetto ricordo può riferirsi a una certa mitigazione della condanna. Di qui le parole di S. Agostino: "Non possiamo dire che per uno scismatico (martirizzato) sarebbe stato meglio rinnegare Cristo, senza soffrire quel che ha sofferto confessandolo; cosicché le parole di S. Paolo, "Quand'anche consegnassi il mio corpo alle fiamme, se non ho la carità non mi giova a nulla", sono da riferirsi allo scopo di conseguire il regno dei cieli, non già a quello di mitigare il supplizio inflitto nell'ultimo giudizio".

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