I-II, 21

Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia


Prima pars secundae partis
Quaestio 21
Prooemium

[34482] Iª-IIae q. 21 pr.
Deinde considerandum est de his quae consequuntur actus humanos ratione bonitatis vel malitiae. Et circa hoc quaeruntur quatuor.
Primo, utrum actus humanus, inquantum est bonus vel malus, habeat rationem rectitudinis vel peccati.
Secundo, utrum habeat rationem laudabilis vel culpabilis.
Tertio, utrum habeat rationem meriti vel demeriti.
Quarto, utrum habeat rationem meriti vel demeriti apud Deum.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 21
Proemio

[34482] Iª-IIae q. 21 pr.
Ed eccoci a considerare le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia.
Sull'argomento si pongono quattro quesiti:

1. Se l'atto umano, in quanto buono o cattivo, implichi la nozione di rettitudine o di peccato;
2. Se abbia l'aspetto di cosa lodevole o colpevole;
3. Se rivesta la ragione di merito o di demerito;
4. Se abbia ragione di merito o di demerito presso Dio.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia > Se l'atto umano, in quanto buono o cattivo, implichi la nozione di rettitudine o di peccato


Prima pars secundae partis
Quaestio 21
Articulus 1

[34483] Iª-IIae q. 21 a. 1 arg. 1
Ad primum sic proceditur. Videtur quod actus humanus, inquantum est bonus vel malus, non habeat rationem rectitudinis vel peccati. Peccata enim sunt monstra in natura, ut dicitur in II Physic. Monstra autem non sunt actus, sed sunt quaedam res generatae praeter ordinem naturae. Ea autem quae sunt secundum artem et rationem, imitantur ea quae sunt secundum naturam, ut ibidem dicitur. Ergo actus ex hoc quod est inordinatus et malus, non habet rationem peccati.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 21
Articolo 1

[34483] Iª-IIae q. 21 a. 1 arg. 1
SEMBRA che l'atto umano, in quanto buono o cattivo, non implichi la nozione di rettitudine o di peccato. Infatti:
1. "In natura i mostri sono peccati", dice Aristotele. Ora, i mostri non sono atti, ma sono degli esseri generati fuori dell'ordine di natura. Invece le opere compiute dall'arte e dalla ragione imitano gli esseri che sono secondo natura, come nota lo stesso Aristotele. Dunque l'azione, per il fatto che è disordinata e cattiva, non implica la nozione di peccato.

[34484] Iª-IIae q. 21 a. 1 arg. 2
Praeterea, peccatum, ut dicitur in II Physic., accidit in natura et arte, cum non pervenitur ad finem intentum a natura vel arte. Sed bonitas vel malitia actus humani maxime consistit in intentione finis, et eius prosecutione. Ergo videtur quod malitia actus non inducat rationem peccati.

 

[34484] Iª-IIae q. 21 a. 1 arg. 2
2. Come insegna Aristotele, il peccato avviene nella natura e nell'arte quando non si raggiunge il fine inteso dalla natura, o dall'arte. Invece la bontà o la malizia dell'atto umano consiste proprio nell'intenzione del fine, o nel conseguimento di esso. Dunque la malizia di un atto non implica la nozione di peccato.

[34485] Iª-IIae q. 21 a. 1 arg. 3
Praeterea, si malitia actus induceret rationem peccati, sequeretur quod ubicumque esset malum, ibi esset peccatum. Hoc autem est falsum, nam poena, licet habeat rationem mali, non tamen habet rationem peccati. Non ergo ex hoc quod aliquis actus est malus, habet rationem peccati.

 

[34485] Iª-IIae q. 21 a. 1 arg. 3
3. Se la malizia di un atto implicasse la ragione di peccato, ne seguirebbe che il peccato verrebbe a trovarsi dovunque c'è un male. Ora, questo è falso: infatti la punizione, sebbene implichi la ragione di male, tuttavia non implica quella di peccato. Perciò, dal fatto che un'azione è cattiva, non segue che abbia ragione di peccato.

[34486] Iª-IIae q. 21 a. 1 s. c.
Sed contra, bonitas actus humani, ut supra ostensum est, principaliter dependet a lege aeterna, et per consequens malitia eius in hoc consistit, quod discordat a lege aeterna. Sed hoc facit rationem peccati, dicit enim Augustinus, XXII contra Faustum, quod peccatum est dictum, vel factum, vel concupitum aliquid contra legem aeternam. Ergo actus humanus ex hoc quod est malus, habet rationem peccati.

 

[34486] Iª-IIae q. 21 a. 1 s. c.
IN CONTRARIO: Come sopra abbiamo dimostrato, la bontà dell'atto umano dipende principalmente dalla legge eterna: e di conseguenza la sua malizia consiste nell'essere discorde da codesta legge. Ma questo costituisce la ragione di peccato: infatti S. Agostino scrive che "il peccato è una parola, un'opera, o un desiderio contro la legge eterna". Dunque l'atto umano, per il fatto che è cattivo, implica la nozione di peccato.

[34487] Iª-IIae q. 21 a. 1 co.
Respondeo dicendum quod malum in plus est quam peccatum, sicut et bonum in plus est quam rectum. Quaelibet enim privatio boni in quocumque constituit rationem mali, sed peccatum proprie consistit in actu qui agitur propter finem aliquem, cum non habet debitum ordinem ad finem illum. Debitus autem ordo ad finem secundum aliquam regulam mensuratur. Quae quidem regula in his quae secundum naturam agunt, est ipsa virtus naturae, quae inclinat in talem finem. Quando ergo actus procedit a virtute naturali secundum naturalem inclinationem in finem, tunc servatur rectitudo in actu, quia medium non exit ab extremis, scilicet actus ab ordine activi principii ad finem. Quando autem a rectitudine tali actus aliquis recedit, tunc incidit ratio peccati. In his vero quae aguntur per voluntatem, regula proxima est ratio humana; regula autem suprema est lex aeterna. Quando ergo actus hominis procedit in finem secundum ordinem rationis et legis aeternae, tunc actus est rectus, quando autem ab hac rectitudine obliquatur, tunc dicitur esse peccatum. Manifestum est autem ex praemissis quod omnis actus voluntarius est malus per hoc quod recedit ab ordine rationis et legis aeternae, et omnis actus bonus concordat rationi et legi aeternae. Unde sequitur quod actus humanus ex hoc quod est bonus vel malus, habeat rationem rectitudinis vel peccati.

 

[34487] Iª-IIae q. 21 a. 1 co.
RISPONDO: Il male ha un'estensione maggiore del peccato, come il bene è più esteso della rettitudine. Infatti qualsiasi privazione di bene, in qualunque campo, costituisce un male: invece il peccato propriamente consiste in un atto compiuto per un fine, senza il debito ordine rispetto a quel fine. Ora, l'ordine dovuto in rapporto a un fine viene misurato da una certa regola. Regola che negli agenti naturali è la virtù stessa della natura, che inclina verso quel fine.
Perciò, quando l'atto procede dalla virtù o facoltà naturale secondo la naturale inclinazione verso il fine, allora viene ad esserci la rettitudine nell'atto: poiché rimanendo a uguale distanza dagli estremi, segna il rapporto esatto di un principio attivo al suo fine. Invece quando un atto si scosta da tale rettitudine, allora si determina la ragione di peccato.
Ma nelle azioni che vengono compiute dalla volontà, regola prossima è la ragione umana; regola suprema è la legge eterna. Perciò, quando l'atto umano tende verso il fine secondo l'ordine della ragione e della legge eterna, allora l'azione è retta: quando invece si scosta da questa rettitudine, o direzione, allora si ha il peccato.
Ora, è evidente, da quanto abbiamo detto, che ogni atto volontario è cattivo perché si allontana dall'ordine della ragione e della legge eterna: ed ogni atto buono concorda con la ragione e con la legge eterna. Di qui si conclude che le azioni umane, per il fatto che sono buone o cattive, implicano la nozione di rettitudine o di peccato.

[34488] Iª-IIae q. 21 a. 1 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod monstra dicuntur esse peccata, inquantum producta sunt ex peccato in actu naturae existente.

 

[34488] Iª-IIae q. 21 a. 1 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. I mostri si dicono peccati, perché prodotti da un peccato insito nell'atto della natura.

[34489] Iª-IIae q. 21 a. 1 ad 2
Ad secundum dicendum quod duplex est finis, scilicet ultimus, et propinquus. In peccato autem naturae, deficit quidem actus a fine ultimo, qui est perfectio generati; non tamen deficit a quocumque fine proximo; operatur enim natura aliquid formando. Similiter in peccato voluntatis, semper est defectus ab ultimo fine intento, quia nullus actus voluntarius malus est ordinabilis ad beatitudinem, quae est ultimus finis, licet non deficiat ab aliquo fine proximo, quem voluntas intendit et consequitur. Unde etiam cum ipsa intentio huius finis ordinetur ad finem ultimum, in ipsa intentione huiusmodi finis potest inveniri ratio rectitudinis et peccati.

 

[34489] Iª-IIae q. 21 a. 1 ad 2
2. Il fine è di due tipi: ultimo e prossimo. Ora, nel peccato di ordine naturale, o fisico, l'atto può fallire il fine ultimo, che consiste nella perfezione del generato; ma non può fallire qualsiasi fine prossimo; infatti la natura opera sempre dando forma a qualche cosa. Parimente, nel peccato di ordine volitivo c'è sempre un decadimento dal fine ultimo voluto, poiché nessun atto volontario cattivo è ordinabile alla beatitudine, che è l'ultimo fine: sebbene raggiunga un qualsiasi fine prossimo, che la volontà intende e può conseguire. Perciò, siccome l'intenzione stessa di questo fine deve essere ordinata al fine ultimo, anche in codesta intenzione del fine può trovarsi la ragione di rettitudine o di peccato.

[34490] Iª-IIae q. 21 a. 1 ad 3
Ad tertium dicendum quod unumquodque ordinatur ad finem per actum suum, et ideo ratio peccati, quae consistit in deviatione ab ordine ad finem, proprie consistit in actu. Sed poena respicit personam peccantem, ut in primo dictum est.

 

[34490] Iª-IIae q. 21 a. 1 ad 3
3. Ogni cosa è ordinata ad un fine mediante il proprio atto. Quindi la ragione di peccato, consistente in una deviazione dall'ordine verso il fine, propriamente interessa l'atto. La punizione invece, come abbiamo detto nella Prima Parte, ha di mira la persona del peccatore.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia > Se l'atto umano, in quanto buono o cattivo, abbia l'aspetto di cosa lodevole o colpevole


Prima pars secundae partis
Quaestio 21
Articulus 2

[34491] Iª-IIae q. 21 a. 2 arg. 1
Ad secundum sic proceditur. Videtur quod actus humanus, ex hoc quod est bonus vel malus, non habeat rationem laudabilis vel culpabilis. Peccatum enim contingit etiam in his quae aguntur a natura, ut dicitur in II Physic. Sed tamen ea quae sunt naturalia, non sunt laudabilia nec culpabilia, ut dicitur in III Ethic. Ergo actus humanus, ex hoc quod est malus vel peccatum, non habet rationem culpae, et per consequens nec ex hoc quod est bonus, habet rationem laudabilis.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 21
Articolo 2

[34491] Iª-IIae q. 21 a. 2 arg. 1
SEMBRA che l'atto umano, per il fatto che è buono o cattivo, non abbia l'aspetto di cosa lodevole o colpevole. Infatti:
1. "Il peccato", come dice Aristotele, "può capitare anche nei fenomeni naturali". E tuttavia i fenomeni naturali non sono né lodevoli, né colpevoli, come insegna il medesimo autore. Dunque l'atto umano non è una colpa per il fatto che è cattivo ed è peccato: e quindi non è cosa lodevole per il fatto che è buono.

[34492] Iª-IIae q. 21 a. 2 arg. 2
Praeterea, sicut contingit peccatum in actibus moralibus, ita et in actibus artis, quia, ut dicitur in II Physic., peccat grammaticus non recte scribens, et medicus non recte dans potionem. Sed non culpatur artifex ex hoc quod aliquod malum facit, quia ad industriam artificis pertinet quod possit et bonum opus facere et malum, cum voluerit. Ergo videtur quod etiam actus moralis, ex hoc quod est malus, non habeat rationem culpabilis.

 

[34492] Iª-IIae q. 21 a. 2 arg. 2
2. Il peccato può capitare non solo negli atti morali, ma anche nell'attività professionale e artistica: poiché, come scrive Aristotele, "pecca il grammatico che fa sbagli di ortografia, e il medico che sbaglia nel dare una bevanda". Ma un professionista non è ritenuto colpevole solo per aver fatto male una cosa, perché spetta alla versatilità dell'arte il saper far male e bene una cosa a piacimento. Dunque anche l'atto morale non acquista colpevolezza per il fatto che è cattivo.

[34493] Iª-IIae q. 21 a. 2 arg. 3
Praeterea, Dionysius dicit, in IV cap. de Div. Nom., quod malum est infirmum et impotens. Sed infirmitas vel impotentia vel tollit vel diminuit rationem culpae. Non ergo actus humanus est culpabilis ex hoc quod est malus.

 

[34493] Iª-IIae q. 21 a. 2 arg. 3
3. Dionigi scrive che il male è "infermo e impotente". Ora, l'infermità e l'impotenza tolgono, oppure diminuiscono, la ragione di colpa. Perciò gli atti umani non sono colpevoli perché cattivi.

[34494] Iª-IIae q. 21 a. 2 s. c.
Sed contra est quod philosophus dicit, quod laudabilia sunt virtutum opera; vituperabilia autem, vel culpabilia, opera contraria. Sed actus boni sunt actus virtutis, quia virtus est quae bonum facit habentem, et opus eius bonum reddit, ut dicitur in II Ethic., unde actus oppositi sunt actus mali. Ergo actus humanus ex hoc quod est bonus vel malus, habet rationem laudabilis vel culpabilis.

 

[34494] Iª-IIae q. 21 a. 2 s. c.
IN CONTRARIO: Il Filosofo insegna, che "sono lodevoli le opere virtuose; e biasimevoli o colpevoli le opere contrarie". Ma gli atti buoni sono atti virtuosi, poiché "la virtù rende buono chi la possiede, e le opere che egli compie: perciò gli atti contrari sono atti cattivi. Dunque l'atto umano, per il fatto che è buono o cattivo, ha l'aspetto di cosa lodevole o colpevole.

[34495] Iª-IIae q. 21 a. 2 co.
Respondeo dicendum quod, sicut malum est in plus quam peccatum, ita peccatum est in plus quam culpa. Ex hoc enim dicitur aliquis actus culpabilis vel laudabilis, quod imputatur agenti, nihil enim est aliud laudari vel culpari, quam imputari alicui malitiam vel bonitatem sui actus. Tunc autem actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus. Hoc autem est in omnibus actibus voluntariis, quia per voluntatem homo dominium sui actus habet, ut ex supradictis patet. Unde relinquitur quod bonum vel malum in solis actibus voluntariis constituit rationem laudis vel culpae; in quibus idem est malum, peccatum et culpa.

 

[34495] Iª-IIae q. 21 a. 2 co.
RISPONDO: Come il male è più esteso del peccato, così il peccato è più esteso della colpa. Infatti si dice che un atto è colpevole, o lodevole, perché viene imputato a chi lo compie: infatti lodare o incolpare qualcuno equivale a imputare a lui la bontà o la malizia dei suoi atti. Ma l'atto è imputato a chi lo compie quando è in potere dell'agente, il quale ha il dominio sui propri atti. Ora, questo avviene in tutte le azioni volontarie; poiché l'uomo ha il dominio sui propri atti mediante la volontà, come si è spiegato in precedenza. Quindi rimane che il bene e il male raggiungono la nozione di lode o di colpa nelle sole azioni volontarie; nelle quali male, peccato e colpa sono la stessa cosa.

[34496] Iª-IIae q. 21 a. 2 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod actus naturales non sunt in potestate naturalis agentis, cum natura sit determinata ad unum. Et ideo, licet in actibus naturalibus sit peccatum, non tamen est ibi culpa.

 

[34496] Iª-IIae q. 21 a. 2 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Gli atti, o fenomeni, naturali non sono sotto il dominio dell'agente naturale, dato il determinismo della natura. Quindi, sebbene nei fenomeni naturali ci sia il peccato, non può esserci la colpa.

[34497] Iª-IIae q. 21 a. 2 ad 2
Ad secundum dicendum quod ratio aliter se habet in artificialibus et aliter in moralibus. In artificialibus enim ratio ordinatur ad finem particularem, quod est aliquid per rationem excogitatum. In moralibus autem ordinatur ad finem communem totius humanae vitae. Finis autem particularis ordinatur ad finem communem. Cum ergo peccatum sit per deviationem ab ordine ad finem, ut dictum est, in actu artis contingit dupliciter esse peccatum. Uno modo, per deviationem a fine particulari intento ab artifice, et hoc peccatum erit proprium arti; puta si artifex, intendens facere bonum opus, faciat malum, vel intendens facere malum, faciat bonum. Alio modo, per deviationem a fine communi humanae vitae, et hoc modo dicetur peccare, si intendat facere malum opus, et faciat, per quod alius decipiatur. Sed hoc peccatum non est proprium artificis inquantum artifex, sed inquantum homo est. Unde ex primo peccato culpatur artifex inquantum artifex, sed ex secundo culpatur homo inquantum homo. Sed in moralibus, ubi attenditur ordo rationis ad finem communem humanae vitae, semper peccatum et malum attenditur per deviationem ab ordine rationis ad finem communem humanae vitae. Et ideo culpatur ex tali peccato homo et inquantum est homo, et inquantum est moralis. Unde philosophus dicit, in VI Ethic., quod in arte volens peccans est eligibilior; circa prudentiam autem minus, sicut et in virtutibus moralibus, quarum prudentia est directiva.

 

[34497] Iª-IIae q. 21 a. 2 ad 2
2. Il compito della ragione è diverso nelle attività professionali e nelle azioni morali. Infatti nelle attività professionali la ragione viene ordinata a un fine particolare, escogitato da essa. Invece nelle azioni morali la ragione viene ordinata al fine generale di tutta la vita umana. Ora, i fini particolari vanno ordinati al fine universale.
Ma siccome, e lo abbiamo già visto, il peccato consiste nello scostarsi dall'ordine al fine, in due maniere può esserci il peccato nell'attività artistica e professionale. Primo, mediante una deviazione dal fine particolare perseguito dall'artefice: ed è il peccato caratteristico dell'arte; è il caso dell'artigiano, che, volendo fare un'opera perfetta, ne produce una di scarto, oppure, volendo produrre una anomalia, fa un'opera regolare. Secondo, mediante una deviazione dal fine generale della vita umana: e allora si dice che pecca l'artefice che intende compiere un'opera cattiva allo scopo di ingannare altri. Ma questo peccato non è proprio dell'artefice come tale, bensì dell'artefice in quanto uomo. Perciò del primo peccato si fa colpa all'artefice come artefice: invece del secondo sì incolpa l'uomo in quanto uomo. - Ma nelle azioni morali, in cui si considera l'ordine della ragione verso il fine generale della vita umana, il peccato e il male vanno considerati in base alla deviazione dall'ordine razionale verso codesto fine. Perciò per codesto peccato viene incolpato l'uomo in quanto uomo, e in quanto essere morale. Ecco perché il Filosofo scrive che "in arte è preferibile chi pecca volontariamente; non così trattandosi della prudenza, o delle virtù morali", di cui la prudenza ha la direzione.

[34498] Iª-IIae q. 21 a. 2 ad 3
Ad tertium dicendum quod illa infirmitas quae est in malis voluntariis, subiacet potestati hominis. Et ideo nec tollit nec diminuit rationem culpae.

 

[34498] Iª-IIae q. 21 a. 2 ad 3
3. L'infermità che si trova nel male volontario è sottoposta al dominio dell'uomo. E quindi non toglie e non diminuisce la colpevolezza.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia > Se l'atto umano, in quanto buono o cattivo, possa implicare merito o demerito


Prima pars secundae partis
Quaestio 21
Articulus 3

[34499] Iª-IIae q. 21 a. 3 arg. 1
Ad tertium sic proceditur. Videtur quod actus humanus non habeat rationem meriti et demeriti, propter suam bonitatem vel malitiam. Meritum enim et demeritum dicitur per ordinem ad retributionem, quae locum solum habet in his quae ad alterum sunt. Sed non omnes actus humani boni vel mali sunt ad alterum, sed quidam sunt ad seipsum. Ergo non omnis actus humanus bonus vel malus habet rationem meriti vel demeriti.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 21
Articolo 3

[34499] Iª-IIae q. 21 a. 3 arg. 1
SEMBRA che l'atto umano non implichi merito o demerito, per la sua bontà o malizia. Infatti:
1. Merito e demerito dicono ordine alla retribuzione che ha luogo soltanto nelle opere, fatte a vantaggio di altri. Ora, non tutti gli atti umani, sia buoni che cattivi, sono in rapporto ad altri, ma alcuni sono per chi opera. Dunque non tutti gli atti umani, buoni o cattivi, implicano un merito o un demerito.

[34500] Iª-IIae q. 21 a. 3 arg. 2
Praeterea, nullus meretur poenam vel praemium ex hoc quod disponit ut vult de eo cuius est dominus, sicut si homo destruat rem suam, non punitur, sicut si destrueret rem alterius. Sed homo est dominus suorum actuum. Ergo ex hoc quod bene vel male disponit de suo actu, non meretur poenam vel praemium.

 

[34500] Iª-IIae q. 21 a. 3 arg. 2
2. Nessuno merita un castigo o un premio per il fatto che dispone come vuole di quanto possiede: se un uomo, p. es., distrugge la roba sua, non viene punito come quando distrugge quella degli altri. Ma l'uomo è padrone dei propri atti. Quindi non merita un castigo o un premio, per il fatto che dispone bene o male del proprio atto.

[34501] Iª-IIae q. 21 a. 3 arg. 3
Praeterea, ex hoc quod aliquis sibi ipsi acquirit bonum, non meretur ut ei bene fiat ab alio, et eadem ratio est de malis. Sed ipse actus bonus est quoddam bonum et perfectio agentis, actus autem inordinatus est quoddam malum ipsius. Non ergo ex hoc quod homo facit malum actum vel bonum, meretur vel demeretur.

 

[34501] Iª-IIae q. 21 a. 3 arg. 3
3. Per il fatto che uno si procura del bene, non merita di essere beneficato da un altro: e lo stesso si dica per il male. Ora, l'atto buono è precisamente un bene e una perfezione per chi lo compie: mentre quello cattivo è per lui un male. Dunque l'uomo non può meritare o demeritare per il fatto che compie un atto buono, o cattivo.

[34502] Iª-IIae q. 21 a. 3 s. c.
Sed contra est quod dicitur Isaiae III, dicite iusto quoniam bene, quoniam fructum adinventionum suarum comedet. Vae impio in malum, retributio enim manuum eius fiet ei.

 

[34502] Iª-IIae q. 21 a. 3 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: " Dite al giusto che avrà bene, perché gusterà il frutto delle sue opere. Guai all'empio: avrà male, perché la retribuzione delle sue mani gli sarà resa".

[34503] Iª-IIae q. 21 a. 3 co.
Respondeo dicendum quod meritum et demeritum dicuntur in ordine ad retributionem quae fit secundum iustitiam. Retributio autem secundum iustitiam fit alicui ex eo quod agit in profectum vel nocumentum alterius. Est autem considerandum quod unusquisque in aliqua societate vivens, est aliquo modo pars et membrum totius societatis. Quicumque ergo agit aliquid in bonum vel malum alicuius in societate existentis, hoc redundat in totam societatem sicut qui laedit manum, per consequens laedit hominem. Cum ergo aliquis agit in bonum vel malum alterius singularis personae, cadit ibi dupliciter ratio meriti vel demeriti. Uno modo, secundum quod debetur ei retributio a singulari persona quam iuvat vel offendit. Alio modo, secundum quod debetur ei retributio a toto collegio. Quando vero aliquis ordinat actum suum directe in bonum vel malum totius collegii, debetur ei retributio primo quidem et principaliter a toto collegio, secundario vero, ab omnibus collegii partibus. Cum vero aliquis agit quod in bonum proprium vel malum vergit, etiam debetur ei retributio, inquantum etiam hoc vergit in commune secundum quod ipse est pars collegii, licet non debeatur ei retributio inquantum est bonum vel malum singularis personae, quae est eadem agenti, nisi forte a seipso secundum quandam similitudinem, prout est iustitia hominis ad seipsum. Sic igitur patet quod actus bonus vel malus habet rationem laudabilis vel culpabilis, secundum quod est in potestate voluntatis; rationem vero rectitudinis et peccati, secundum ordinem ad finem; rationem vero meriti et demeriti, secundum retributionem iustitiae ad alterum.

 

[34503] Iª-IIae q. 21 a. 3 co.
RISPONDO: Merito e demerito si concepiscono in ordine alla retribuzione fatta secondo giustizia. Ma a un uomo viene fatta la retribuzione secondo giustizia, perché egli ha agito a vantaggio o a danno di qualcuno. D'altra parte bisogna considerare, che chiunque vive in società è in qualche modo parte e membro dell'intera società. Perciò, se compie un'azione a vantaggio o a danno di un membro della società, ciò ridonda su tutta la società: come chi ferisce una mano, per ciò stesso ferisce un uomo. Quando perciò uno agisce a vantaggio o a danno di una persona, si trova nel suo atto una doppia ragione di merito o di demerito. Primo, in forza della retribuzione da parte della persona beneficata o danneggiata. Secondo, in forza della retribuzione a lui dovuta da parte della società. - Quando poi uno ordina direttamente il proprio atto al bene o al male di tutta una collettività, a lui è dovuta, prima di tutto e principalmente, una retribuzione da parte della collettività, e secondariamente da parte di tutti i mèmbri di essa. - Quando invece uno compie un'azione che torna a vantaggio o a danno di se stesso, anche allora merita una retribuzione, in quanto anche questo ricade sulla collettività, essendo anch'egli parte di essa: sebbene non la meriti in quanto [l'azione compiuta] è un bene o un male di una persona particolare, che nel caso si identifica con l'agente; a meno che non si contrappongano in lui l'agente e il paziente, in quanto, si può dire per analogia, che esiste anche una giustizia dell'uomo verso se stesso.
Concludendo, l'atto buono o cattivo implica la nozione di cosa lodevole o colpevole, in quanto è in potere della volontà; quella di rettitudine o di peccato per il suo ordine al fine; e la nozione di merito o di demerito in base alla giusta retribuzione che l'atto esige da parte di altri.

[34504] Iª-IIae q. 21 a. 3 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod quandoque actus hominis boni vel mali, etsi non ordinantur ad bonum vel malum alterius singularis personae, tamen ordinantur ad bonum vel ad malum alterius quod est ipsa communitas.

 

[34504] Iª-IIae q. 21 a. 3 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Talora le azioni umane, buone o cattive, non sono ordinate a vantaggio o a danno di una persona in particolare, ma sono sempre ordinate al bene o al male di altri, cioè della società.

[34505] Iª-IIae q. 21 a. 3 ad 2
Ad secundum dicendum quod homo, qui habet dominium sui actus, ipse etiam, inquantum est alterius, scilicet communitatis, cuius est pars meretur aliquid vel demeretur, inquantum actus suos bene vel male disponit, sicut etiam si alia sua, de quibus communitati servire debet, bene vel male dispenset.

 

[34505] Iª-IIae q. 21 a. 3 ad 2
2. L'uomo che pure ha il dominio dei propri atti, essendo anch'egli di un altro, cioè della collettività di cui è parte, può sempre meritare o demeritare, nel disporre bene o male dei propri atti: come nel caso in cui amministrasse bene o male gli altri suoi beni, con i quali è tenuto a servire la collettività.

[34506] Iª-IIae q. 21 a. 3 ad 3
Ad tertium dicendum quod hoc ipsum bonum vel malum quod aliquis sibi facit per suum actum, redundat in communitatem, ut dictum est.

 

[34506] Iª-IIae q. 21 a. 3 ad 3
3. Anche il bene, o il male, che uno fa a se stesso mediante i propri atti, ridonda sulla collettività, come abbiamo spiegato.




Seconda parte > Gli atti umani in generale > Le conseguenze degli atti umani in rapporto alla loro bontà o malizia > Se l'atto umano, in quanto buono o cattivo, acquisti un merito o un demerito presso Dio


Prima pars secundae partis
Quaestio 21
Articulus 4

[34507] Iª-IIae q. 21 a. 4 arg. 1
Ad quartum sic proceditur. Videtur quod actus hominis bonus vel malus non habeat rationem meriti vel demeriti per comparationem ad Deum. Quia, ut dictum est, meritum et demeritum importat ordinem ad recompensationem profectus vel damni ad alterum illati. Sed actus hominis bonus vel malus non cedit in aliquem profectum vel damnum ipsius Dei, dicitur enim Iob XXXV, si peccaveris quid ei nocebis? Porro si iuste egeris, quid donabis ei? Ergo actus hominis bonus vel malus non habet rationem meriti vel demeriti apud Deum.

 
Prima parte della seconda parte
Questione 21
Articolo 4

[34507] Iª-IIae q. 21 a. 4 arg. 1
SEMBRA che l'atto umano, buono o cattivo che sia, non abbia un merito o un demerito presso Dio. Infatti:
1. Abbiamo già visto che il merito e il demerito dicono ordine a una ricompensa per il vantaggio o per il danno procurato a un altro. Ma un'azione umana, buona o cattiva, non può portare nessun vantaggio e nessun danno a Dio; poiché sta scritto: "Se tu pecchi, che danno arrechi a lui ? Se poi agisci rettamente, che cosa gli doni ?". Dunque l'atto umano, buono o cattivo, non ha un merito o un demerito presso Dio.

[34508] Iª-IIae q. 21 a. 4 arg. 2
Praeterea, instrumentum nihil meretur vel demeretur apud eum qui utitur instrumento, quia tota actio instrumenti est utentis ipso. Sed homo in agendo est instrumentum divinae virtutis principaliter ipsum moventis, unde dicitur Isaiae X, numquid gloriabitur securis contra eum qui secat in ea? Aut exaltabitur serra contra eum a quo trahitur? Ubi manifeste hominem agentem comparat instrumento. Ergo homo, bene agendo vel male, nihil meretur vel demeretur apud Deum.

 

[34508] Iª-IIae q. 21 a. 4 arg. 2
2. Lo strumento non merita e non demerita nulla presso colui che se ne serve; poiché tutta l'azione dello strumento appartiene a chi si serve di esso. Ora, l'uomo nel suo agire è strumento della potenza divina, che è il suo motore principale: infatti si legge in Isaia: "Come si glorierà la scure contro colui che con essa taglia? O si leverà la sega contro colui che la tira ?"; parole chiare che indicano la funzione strumentale dell'uomo. Quindi l'uomo, nell'agire bene o male non merita e non demerita nulla presso Dio.

[34509] Iª-IIae q. 21 a. 4 arg. 3
Praeterea, actus humanus habet rationem meriti vel demeriti, inquantum ordinatur ad alterum. Sed non omnes actus humani ordinantur ad Deum. Ergo non omnes actus boni vel mali habent rationem meriti vel demeriti apud Deum.

 

[34509] Iª-IIae q. 21 a. 4 arg. 3
3. L'atto umano ha ragione di merito o di demerito in quanto è ordinato ad altri. Ma non tutte le azioni umane sono indirizzate a Dio. Perciò non tutte le azioni umane, buone o cattive, hanno ragione di merito o di demerito presso Dio.

[34510] Iª-IIae q. 21 a. 4 s. c.
Sed contra est quod dicitur Eccle. ult., cuncta quae fiunt adducet Deus in iudicium, sive bonum sit sive malum. Sed iudicium importat retributionem, respectu cuius meritum et demeritum dicitur. Ergo omnis actus hominis bonus vel malus habet rationem meriti vel demeriti apud Deum.

 

[34510] Iª-IIae q. 21 a. 4 s. c.
IN CONTRARIO: Sta scritto: "Ogni opera Dio sottoporrà al giudizio, sia essa buona o cattiva". Ma il giudizio implica la retribuzione, in ordine alla quale si concepisce il merito e il demerito. Dunque ogni atto umano, buono o cattivo, è un merito o un demerito presso Dio.

[34511] Iª-IIae q. 21 a. 4 co.
Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, actus alicuius hominis habet rationem meriti vel demeriti, secundum quod ordinatur ad alterum, vel ratione eius, vel ratione communitatis. Utroque autem modo actus nostri boni vel mali habent rationem meriti vel demeriti apud Deum. Ratione quidem ipsius, inquantum est ultimus hominis finis, est autem debitum ut ad finem ultimum omnes actus referantur, ut supra habitum est. Unde qui facit actum malum non referibilem in Deum, non servat honorem Dei, qui ultimo fini debetur. Ex parte vero totius communitatis universi, quia in qualibet communitate ille qui regit communitatem, praecipue habet curam boni communis, unde ad eum pertinet retribuere pro his quae bene vel male fiunt in communitate. Est autem Deus gubernator et rector totius universi, sicut in primo habitum est, et specialiter rationalium creaturarum. Unde manifestum est quod actus humani habent rationem meriti vel demeriti per comparationem ad ipsum, alioquin sequeretur quod Deus non haberet curam de actibus humanis.

 

[34511] Iª-IIae q. 21 a. 4 co.
RISPONDO: Come abbiamo spiegato, l'azione di un uomo ha ragione di merito o di demerito in rapporto ad altri, o a motivo della persona stessa interessata, o a motivo della collettività. Ora, in tutte e due le maniere i nostri atti, buoni o cattivi, costituiscono un merito o un demerito presso Dio. Per lui direttamente, in quanto è l'ultimo fine dell'uomo: infatti è doveroso riferire tutti gli atti all'ultimo fine, come abbiamo già visto. Perciò chi compie un atto cattivo, non riferibile a Dio, non salva l'onore di Dio nella sua qualità di ultimo fine. - In ordine poi alla collettività di tutto l'universo, poiché in ogni società chi è a capo di essa è tenuto principalmente a curare il bene comune: e quindi tocca a lui retribuire le azioni compiute bene o male nella collettività. Ma Dio è il moderatore e la guida di tutto l'universo, come abbiamo dimostrato nella Prima Parte; e in modo speciale delle creature ragionevoli. Perciò è evidente che gli atti umani diventano un merito o un demerito in rapporto a lui: altrimenti seguirebbe che Dio non prende cura delle azioni umane.

[34512] Iª-IIae q. 21 a. 4 ad 1
Ad primum ergo dicendum quod per actum hominis Deo secundum se nihil potest accrescere vel deperire, sed tamen homo, quantum in se est, aliquid subtrahit Deo, vel ei exhibet, cum servat vel non servat ordinem quem Deus instituit.

 

[34512] Iª-IIae q. 21 a. 4 ad 1
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Le azioni umane non possono di suo né giovare né nuocere a Dio: tuttavia l'uomo, per quanto da lui dipende, sottrae o dà a Dio qualche cosa, osservando o non osservando l'ordine che Dio ha stabilito.

[34513] Iª-IIae q. 21 a. 4 ad 2
Ad secundum dicendum quod homo sic movetur a Deo ut instrumentum, quod tamen non excluditur quin moveat seipsum per liberum arbitrium, ut ex supradictis patet. Et ideo per suum actum meretur vel demeretur apud Deum.

 

[34513] Iª-IIae q. 21 a. 4 ad 2
2. L'uomo è mosso da Dio come uno strumento, in maniera però da non escludere la sua mozione personale, mediante il libero arbitrio, come è evidente, dalle cose già dette. Perciò mediante il suo agire egli può meritare o demeritare presso Dio.

[34514] Iª-IIae q. 21 a. 4 ad 3
Ad tertium dicendum quod homo non ordinatur ad communitatem politicam secundum se totum, et secundum omnia sua, et ideo non oportet quod quilibet actus eius sit meritorius vel demeritorius per ordinem ad communitatem politicam. Sed totum quod homo est, et quod potest et habet, ordinandum est ad Deum, et ideo omnis actus hominis bonus vel malus habet rationem meriti vel demeriti apud Deum, quantum est ex ipsa ratione actus.

 

[34514] Iª-IIae q. 21 a. 4 ad 3
3. L'uomo non è ordinato alla società civile in forza di tutto il proprio essere, e di tutti i suoi beni: e quindi non è necessario che ogni suo atto sia meritorio o demeritorio in ordine alla società civile. Invece l'uomo, in tutto quello che forma il suo essere, il suo potere e il suo avere, dice ordine a Dio: e quindi ogni atto umano, buono o cattivo, ha un merito o un demerito presso Dio, per quanto esso vale come atto.

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