[36241] Iª-IIae q. 66 a. 1 co. Respondeo dicendum quod cum quaeritur utrum virtus una possit esse maior alia, dupliciter intelligi potest quaestio. Uno modo, in virtutibus specie differentibus. Et sic manifestum est quod una virtus est alia maior. Semper enim est potior causa suo effectu, et in effectibus, tanto aliquid est potius, quanto est causae propinquius. Manifestum est autem ex dictis quod causa et radix humani boni est ratio. Et ideo prudentia, quae perficit rationem, praefertur in bonitate aliis virtutibus moralibus, perficientibus vim appetitivam inquantum participat rationem. Et in his etiam tanto est una altera melior, quanto magis ad rationem accedit. Unde et iustitia, quae est in voluntate, praefertur aliis virtutibus moralibus, et fortitudo, quae est in irascibili, praefertur temperantiae, quae est in concupiscibili, quae minus participat rationem, ut patet in VII Ethic. Alio modo potest intelligi quaestio in virtute eiusdem speciei. Et sic, secundum ea quae dicta sunt supra, cum de intensionibus habituum ageretur, virtus potest dupliciter dici maior et minor, uno modo, secundum seipsam; alio modo, ex parte participantis subiecti. Si igitur secundum seipsam consideretur, magnitudo vel parvitas eius attenditur secundum ea ad quae se extendit. Quicumque autem habet aliquam virtutem, puta temperantiam, habet ipsam quantum ad omnia ad quae se temperantia extendit. Quod de scientia et arte non contingit, non enim quicumque est grammaticus, scit omnia quae ad grammaticam pertinent. Et secundum hoc bene dixerunt Stoici, ut Simplicius dicit in commento praedicamentorum, quod virtus non recipit magis et minus, sicut scientia vel ars; eo quod ratio virtutis consistit in maximo. Si vero consideretur virtus ex parte subiecti participantis, sic contingit virtutem esse maiorem vel minorem, sive secundum diversa tempora, in eodem; sive in diversis hominibus. Quia ad attingendum medium virtutis, quod est secundum rationem rectam, unus est melius dispositus quam alius, vel propter maiorem assuetudinem, vel propter meliorem dispositionem naturae, vel propter perspicacius iudicium rationis, aut etiam propter maius gratiae donum, quod unicuique donatur secundum mensuram donationis Christi, ut dicitur ad Ephes. IV. Et in hoc deficiebant Stoici, aestimantes nullum esse virtuosum dicendum, nisi qui summe fuerit dispositus ad virtutem. Non enim exigitur ad rationem virtutis, quod attingat rectae rationis medium in indivisibili, sicut Stoici putabant, sed sufficit prope medium esse, ut in II Ethic. dicitur. Idem etiam indivisibile signum unus propinquius et promptius attingit quam alius, sicut etiam patet in sagittatoribus trahentibus ad certum signum.
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[36241] Iª-IIae q. 66 a. 1 co.
RISPONDO: La questione se una virtù possa essere maggiore dell'altra si può intendere in due modi. Primo, a proposito di virtù specificamente diverse. E allora è evidente che una virtù è maggiore dell'altra. Infatti una causa è sempre superiore ai suoi effetti: e tra gli effetti più uno è prossimo alla causa, e più sovrasta. Ora, è evidente, da quanto abbiamo detto, che causa e radice del bene umano è la ragione. Perciò la prudenza, che affina la ragione, sovrasta in bontà le altre virtù morali, che affinano la parte appetitiva in quanto partecipe della ragione. E tra queste tanto più una è superiore all'altra, quanto più si avvicina alla ragione. E quindi la giustizia, che è nella volontà, è preferibile alle altre virtù morali: e la fortezza che è nell'irascibile, va preferita alla temperanza, la quale essendo nel concupiscibile, partecipa meno della ragione, come nota Aristotele.
Secondo, la questione può essere intesa a proposito di virtù della medesima specie. E allora, stando a quello che abbiamo detto sopra, parlando dello sviluppo degli abiti, una virtù può dirsi maggiore o minore sotto due aspetti: primo, per se stessa; secondo, per parte del soggetto in cui si trova. Considerata per se stessa, la grandezza di una virtù si misura dalle cose cui si estende. Ora, chiunque abbia una virtù, mettiamo la temperanza, la possiede in rapporto a tutte le cose cui la temperanza si estende. Il che non avviene per le scienze e per le arti: non è detto, infatti, che ogni grammatico sappia tutto ciò che appartiene alla grammatica. E in questo dissero bene gli Stoici, come riferisce Simplicio, che la virtù non ammette il più e il meno come la scienza e le arti; perché la virtù consiste essenzialmente in un massimo.
Se invece si considera la virtù dal lato del soggetto che ne partecipa, allora essa può essere maggiore o minore, sia per la diversità dei soggetti, sia rispetto alle varie epoche, se si tratta del medesimo soggetto. Infatti, per raggiungere il giusto mezzo della virtù, conforme alla retta ragione, uno può essere meglio disposto di un altro: o per la maggiore pratica, o per una migliore disposizione naturale, o per un giudizio più perspicace della ragione, oppure per un maggior dono di grazia, il quale, a detta di S. Paolo, viene elargito a ciascuno "secondo la misura della donazione di Cristo". - E in questo gli Stoici si ingannavano, pensando che nessuno dovesse essere considerato virtuoso, se non fosse disposto alla virtù nel modo più perfetto. Infatti per la nozione di virtù non si richiede, come essi pensavano, che si raggiunga il giusto mezzo della ragione in un punto indivisibile; ma basta tenersi presso il mezzo, come dice Aristotele. Del resto anche un bersaglio unico e indivisibile può essere raggiunto più o meno esattamente, e più o meno presto: il che è evidente nel caso degli arcieri che si esercitano al bersaglio.
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