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LETTERA ENCICLICA
Introduzione 1. « SPE SALVI facti sumus » – nella
speranza siamo stati salvati, dice san Paolo ai Romani e anche a noi (Rm 8,24). La « redenzione », la salvezza,
secondo la fede cristiana, non è un semplice dato di fatto. La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza,
una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il
nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto
ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo
essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del
cammino. Ora, si impone immediatamente la domanda:
ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l'affermazione
secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c'è, noi siamo
redenti? E di quale tipo di certezza si tratta? La fede è speranza 2. Prima di dedicarci a queste nostre domande, oggi particolarmente sentite,
dobbiamo ascoltare ancora un po' più attentamente la testimonianza della
Bibbia sulla speranza. « Speranza », di fatto, è una parola centrale della
fede biblica – al punto che in diversi passi le parole « fede » e « speranza
» sembrano interscambiabili. Così 3. Ora, però, si impone la domanda: in che cosa consiste questa speranza
che, come speranza, è « redenzione »? Bene: il nucleo della risposta è dato
nel brano della Lettera agli Efesini citato poc'anzi:
gli Efesini, prima dell'incontro con Cristo erano
senza speranza, perché erano « senza Dio nel mondo ». Giungere a conoscere
Dio – il vero Dio, questo significa ricevere
speranza. Per noi che viviamo da sempre con il concetto cristiano di Dio e ci
siamo assuefatti ad esso, il possesso della
speranza, che proviene dall'incontro reale con questo Dio, quasi non è più
percepibile. L'esempio di una santa del nostro tempo può in qualche misura
aiutarci a capire che cosa significhi incontrare per la prima volta e
realmente questo Dio. Penso all'africana Giuseppina Bakhita,
canonizzata da Papa Giovanni Paolo II. Era nata nel 1869
circa – lei stessa non sapeva la data precisa – nel Darfur, in Sudan. All'età di nove anni fu rapita da trafficanti di schiavi, picchiata a sangue e venduta
cinque volte sui mercati del Sudan. Da ultimo, come schiava
si ritrovò al servizio della madre e della moglie di un generale e lì ogni
giorno veniva fustigata fino al sangue; in conseguenza di ciò le rimasero per
tutta la vita 144 cicatrici. Infine, nel 1882 fu comprata da un mercante italiano
per il console italiano Callisto Legnani
che, di fronte all'avanzata dei mahdisti, tornò in Italia. Qui, dopo «
padroni » così terribili di cui fino a quel momento era stata proprietà, Bakhita venne a conoscere un « padrone » totalmente
diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava « paron » il Dio vivente, il Dio
di Gesù Cristo. Fino ad allora
aveva conosciuto solo padroni che la disprezzavano e la maltrattavano o, nel
caso migliore, la consideravano una schiava utile. Ora, però, sentiva dire che esiste un « paron » al
di sopra di tutti i padroni, il Signore di tutti i signori, e che questo
Signore è buono, la bontà in persona. Veniva a sapere che questo Signore
conosceva anche lei, aveva creato anche lei – anzi che Egli la amava. Anche
lei era amata, e proprio dal « Paron » supremo,
davanti al quale tutti gli altri padroni sono essi
stessi soltanto miseri servi. Lei era conosciuta e amata ed era attesa. Anzi,
questo Padrone aveva affrontato in prima persona il destino di essere picchiato
e ora la aspettava « alla destra di Dio Padre ». Ora lei aveva « speranza » –
non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la
grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io
sono attesa da questo Amore. E
così la mia vita è buona. Mediante la conoscenza di questa speranza lei era «
redenta », non si sentiva più schiava, ma libera
figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando
ricordava agli Efesini che prima erano senza
speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio. Così,
quando si volle riportarla nel Sudan, Bakhita si
rifiutò; non era disposta a farsi di nuovo separare dal suo « Paron ». Il 9 gennaio 1890, fu battezzata e cresimata e
ricevette la prima santa Comunione dalle mani del Patriarca di Venezia. L'8 dicembre Il concetto di speranza
basata sulla fede nel Nuovo Testamento e nella Chiesa primitiva 4. Prima di affrontare la
domanda se l'incontro con quel Dio che in Cristo ci ha mostrato il suo Volto
e aperto il suo Cuore possa essere anche per noi non
solo « informativo », ma anche « performativo », vale a dire se possa
trasformare la nostra vita così da farci sentire redenti mediante la speranza
che esso esprime, torniamo ancora alla Chiesa primitiva. Non è difficile
rendersi conto che l'esperienza della piccola schiava africana Bakhita è stata anche l'esperienza di molte persone
picchiate e condannate alla schiavitù nell'epoca del cristianesimo nascente.
Il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario
come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito. Gesù non era Spartaco, non era
un combattente per una liberazione politica, come Barabba o Bar-Kochba. Ciò che Gesù, Egli
stesso morto in croce, aveva portato era qualcosa di totalmente diverso:
l'incontro col Signore di tutti i signori, l'incontro con il Dio vivente e
così l'incontro con una speranza che era più forte delle sofferenze della
schiavitù e che per questo trasformava dal di dentro
la vita e il mondo. Ciò che di nuovo era avvenuto
appare con massima evidenza nella Lettera di san Paolo a Filemone.
Si tratta di una lettera molto personale, che Paolo scrive nel carcere e
affida allo schiavo fuggitivo Onesimo per il suo
padrone – appunto Filemone. Sì, Paolo rimanda lo schiavo al suo padrone da
cui era fuggito, e lo fa non ordinando, ma pregando:
« Ti supplico per il mio figlio che ho generato in catene [...] Te l'ho
rimandato, lui, il mio cuore [...] Forse per questo
è stato separato da te per un momento, perché tu lo riavessi per sempre; non
più però come schiavo, ma molto più che schiavo,
come un fratello carissimo » (Fm 10-16).
Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano
tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell'unica Chiesa sono
diventati tra loro fratelli e sorelle – così i cristiani si chiamavano a
vicenda. In virtù del Battesimo erano stati rigenerati, si erano abbeverati
dello stesso Spirito e ricevevano insieme, uno accanto all'altro, il Corpo
del Signore. Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo
cambiava la società dal di dentro. Se 5. Dobbiamo aggiungere ancora
un altro punto di vista. 6. I sarcofaghi degli inizi
del cristianesimo illustrano visivamente questa concezione – al cospetto
della morte, di fronte alla quale la questione circa il significato della
vita si rende inevitabile. La figura di Cristo viene
interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini:
quella del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere,
non si intendeva una difficile disciplina
accademica, come essa si presenta oggi. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l'arte essenziale: l'arte di
essere uomo in modo retto – l'arte di vivere e di morire. Certamente gli
uomini già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro
che andavano in giro come filosofi, come maestri di vita, erano
soltanto dei ciarlatani che con le loro parole si procuravano denaro, mentre
sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto più si cercava il vero
filosofo che sapesse veramente indicare la via della vita. Verso la fine del
terzo secolo incontriamo per la prima volta a Roma, sul sarcofago di un
bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro,
la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e
nell'altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo
bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la verità che i filosofi
peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine,
che poi per un lungo periodo permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende
evidente ciò che le persone colte come le semplici trovavano in Cristo: Egli
ci dice chi in realtà è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente
uomo. Egli ci indica la via e questa via è la
verità. Egli stesso è tanto l'una quanto l'altra, e perciò è anche la vita
della quale siamo tutti alla ricerca. Egli indica anche la via oltre la
morte; solo chi è in grado di fare questo, è un vero maestro di vita. La
stessa cosa si rende visibile nell'immagine del pastore. Come nella
rappresentazione del filosofo, anche per la figura del pastore 7. Dobbiamo ancora una volta
tornare al Nuovo Testamento. Nell'undicesimo capitolo della Lettera agli
Ebrei (v.1) si trova una sorta di definizione
della fede che intreccia strettamente questa virtù con la speranza. Intorno
alla parola centrale di questa frase si è creata fin dalla Riforma una
disputa tra gli esegeti, nella quale sembra riaprirsi oggi la via per una interpretazione comune. Per il momento lascio questa
parola centrale non tradotta. La frase dunque suona così: « La fede è hypostasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono ». Per i Padri e per i teologi del
Medioevo era chiaro che la parola greca hypostasis
era da tradurre in latino con il termine substantia. La traduzione latina del testo, nata
nella Chiesa antica, dice quindi: « Est autem fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium
» – la fede è la « sostanza » delle cose che si sperano; la prova delle cose
che non si vedono. Tommaso d'Aquino [4], utilizzando la terminologia della
tradizione filosofica nella quale si trova, spiega questo così: la fede è un
« habitus », cioè una costante disposizione
dell'animo, grazie a cui la vita eterna prende inizio in noi e la ragione è
portata a consentire a ciò che essa non vede. Il concetto di « sostanza » è
quindi modificato nel senso che per la fede, in modo iniziale, potremmo dire
« in germe » – quindi secondo la « sostanza » – sono già presenti in noi le
cose che si sperano: il tutto, la vita vera. E proprio perché la cosa stessa
è già presente, questa presenza di ciò che verrà crea anche certezza: questa
« cosa » che deve venire non è ancora visibile nel mondo esterno (non «
appare »), ma a causa del fatto che, come realtà
iniziale e dinamica, la portiamo dentro di noi, nasce già ora una qualche
percezione di essa. A Lutero, al quale 8. Questa spiegazione viene ulteriormente rafforzata e rapportata alla vita
concreta, se consideriamo il versetto 34 del decimo capitolo della Lettera
agli Ebrei che, sotto l'aspetto linguistico e contenutistico, è collegato
con questa definizione di una fede permeata di speranza e la prepara. Qui l'autore parla ai credenti che hanno subito l'esperienza
della persecuzione e dice loro: « Avete preso parte alle sofferenze dei
carcerati e avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre
sostanze (hyparchonton – Vg:
bonorum), sapendo di possedere beni migliori (hyparxin – Vg: substantiam) e più duraturi ». Hyparchonta sono le proprietà, ciò che nella vita
terrena costituisce il sostentamento, appunto la base, la « sostanza » per la
vita sulla quale si conta. Questa « sostanza », la normale sicurezza per la
vita, è stata tolta ai cristiani nel corso della persecuzione. L'hanno
sopportato, perché comunque ritenevano questa
sostanza materiale trascurabile. Potevano abbandonarla, perché avevano
trovato una « base » migliore per la loro esistenza – una base che rimane e
che nessuno può togliere. Non si può non vedere il collegamento che
intercorre tra queste due specie di « sostanza », tra sostentamento o base
materiale e l'affermazione della fede come « base », come « sostanza » che
permane. La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo
fondamento sul quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale,
l'affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una
nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo
apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale
non è con ciò certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza
della nuova « sostanza » che ci è stata donata, si è
rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo
strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro
morte, hanno rinnovato il mondo. Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi
rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a
Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti
e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare
agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti
nel corpo e nell'anima. Lì la nuova « sostanza » si è comprovata realmente
come « sostanza », dalla speranza di queste persone
toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e
senza speranza. Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente «
sostanza » ed è una « sostanza » che suscita vita
per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e
vivere è di fatto una « prova » che le cose future,
la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza:
Egli è veramente il « filosofo » e il « pastore » che ci indica che cosa è e
dove sta la vita. 9. Per comprendere più nel profondo questa riflessione sulle due specie di
sostanze – hypostasis e hyparchonta – e sui due modi di vita espressi con
esse, dobbiamo riflettere ancora brevemente su due parole attinenti
l'argomento, che si trovano nel decimo capitolo della Lettera agli Ebrei.
Si tratta delle parole hypomone (10,36)
e hypostole (10,39). Hypomone
si traduce normalmente con « pazienza » – perseveranza, costanza. Questo saper
aspettare sopportando pazientemente le prove è necessario al credente per
poter « ottenere le cose promesse » (cfr 10,36).
Nella religiosità dell'antico giudaismo questa parola veniva
usata espressamente per l'attesa di Dio caratteristica di Israele: per questo
perseverare nella fedeltà a Dio, sulla base della certezza dell'Alleanza, in
un mondo che contraddice Dio. Così la parola indica una speranza vissuta, una
vita basata sulla certezza della speranza. Nel Nuovo Testamento questa attesa di Dio, questo stare dalla parte di Dio
assume un nuovo significato: in Cristo Dio si è mostrato. Ci ha ormai
comunicato la « sostanza » delle cose future, e così l'attesa di Dio ottiene
una nuova certezza. È attesa delle cose future a partire da
un presente già donato. È attesa, alla presenza di Cristo, col Cristo
presente, del completarsi del suo Corpo, in vista della sua
venuta definitiva. Con hypostole invece è
espresso il sottrarsi di chi non osa dire apertamente e con franchezza la
verità forse pericolosa. Questo nascondersi davanti agli uomini per spirito
di timore nei loro confronti conduce alla « perdizione » (Eb
10,39). « Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza » – così invece La vita eterna – che
cos'è? 10. Abbiamo
finora parlato della fede e della speranza nel Nuovo Testamento e agli inizi
del cristianesimo; è stato però anche sempre evidente che non discorriamo
solo del passato; l'intera riflessione interessa il vivere e morire dell'uomo
in genere e quindi interessa anche noi qui ed ora. Tuttavia
dobbiamo adesso domandarci esplicitamente: la fede cristiana è anche per noi
oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita? È essa per noi «
performativa » – un messaggio che plasma in modo nuovo la vita stessa, o è
ormai soltanto « informazione » che, nel frattempo, abbiamo accantonata e che ci sembra superata da informazioni più
recenti? Nella ricerca di una risposta vorrei partire dalla forma classica
del dialogo con cui il rito del Battesimo esprimeva
l'accoglienza del neonato nella comunità dei credenti e la sua rinascita in
Cristo. Il sacerdote chiedeva innanzitutto quale
nome i genitori avevano scelto per il bambino, e continuava poi con la
domanda: « Che cosa chiedi alla Chiesa? » Risposta: « La fede ». « E che cosa ti dona la fede? » « La vita eterna ». Stando a
questo dialogo, i genitori cercavano per il bambino l'accesso alla fede, la
comunione con i credenti, perché vedevano nella fede
la chiave per « la vita eterna ». Di fatto, oggi come ieri, di questo si
tratta nel Battesimo, quando si diventa cristiani: non soltanto di un atto di
socializzazione entro la comunità, non semplicemente di accoglienza
nella Chiesa. I genitori si aspettano di più per il battezzando: si aspettano
che la fede, di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti,
gli doni la vita – la vita eterna. Fede è sostanza
della speranza. Ma allora sorge la domanda: Vogliamo
noi davvero questo – vivere eternamente? Forse oggi molte persone rifiutano
la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa
desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna,
ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo,
piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare
più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il
più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine –
questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile. È
precisamente questo che, per esempio, dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel
discorso funebre per il fratello defunto Satiro: « È vero che la morte non
faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti
Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A
causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole
nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un
termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto.
L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la
grazia » [6]. Già prima
Ambrogio aveva detto: « Non dev'essere
pianta la morte, perché è causa di salvezza... » [7]. 11. Qualunque cosa sant'Ambrogio intendesse dire
precisamente con queste parole – è vero che l'eliminazione della morte o
anche il suo rimando quasi illimitato metterebbe la terra e l'umanità in una
condizione impossibile e non renderebbe neanche al singolo stesso un
beneficio. Ovviamente c'è una contraddizione nel nostro atteggiamento, che
rimanda ad una contraddittorietà interiore della nostra stessa esistenza. Da
una parte, non vogliamo morire; soprattutto chi ci ama non vuole che moriamo.
Dall'altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere
illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva.
Allora, che cosa vogliamo veramente? Questo paradosso del nostro stesso
atteggiamento suscita una domanda più profonda: che cosa è, in realtà, la «
vita »? E che cosa significa veramente « eternità »?
Ci sono dei momenti in cui percepiamo all'improvviso: sì, sarebbe
propriamente questo – la « vita » vera – così essa dovrebbe essere. A confronto,
ciò che nella quotidianità chiamiamo « vita », in
verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera
indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli,
scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – « la vita beata », la vita che è semplicemente vita, semplicemente « felicità ».
Non c'è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso
nient'altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta.
Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo
affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente.
Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo
di toccarla non la raggiungiamo veramente. « Non sappiamo che cosa sia
conveniente domandare », egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è
questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere. «
C'è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza » (docta
ignorantia), egli scrive. Non
sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa « vera vita »; e
tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e
verso il quale ci sentiamo spinti [8]. 12. Penso che Agostino
descriva lì in modo molto preciso e sempre valido la situazione essenziale
dell'uomo, la situazione da cui provengono tutte le
sue contraddizioni e le sue speranze. Desideriamo in qualche modo la vita
stessa, quella vera, che non venga poi toccata
neppure dalla morte; ma allo stesso tempo non conosciamo ciò verso cui ci
sentiamo spinti. Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo
sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa « cosa » ignota è la
vera « speranza » che ci spinge e il suo essere ignota
è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli
slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l'autentico uomo. La
parola « vita eterna » cerca di dare un nome a
questa sconosciuta realtà conosciuta. Necessariamente è una parola
insufficiente che crea confusione. « Eterno », infatti, suscita in noi l'idea
dell'interminabile, e questo ci fa paura; « vita » ci fa
pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che,
tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché
mentre per un verso la desideriamo, per l'altro non la vogliamo. Possiamo
soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale
siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l'eternità non sia un
continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento
colmo di appagamento, in cui la totalità ci
abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell'immergersi
nell'oceano dell'infinito amore, nel quale il tempo – il
prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare
che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella
vastità dell'essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così
lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: « Vi vedrò
di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la
vostra gioia » (16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo
capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede,
dal nostro essere con Cristo [9]. La speranza cristiana è
individualistica? 13. Nel corso della loro
storia, i cristiani hanno cercato di tradurre questo sapere che non sa in
figure rappresentabili, sviluppando immagini del « cielo » che restano sempre
lontane da ciò che, appunto, conosciamo solo
negativamente, mediante una non-conoscenza. Tutti questi tentativi di
raffigurazione della speranza hanno dato a molti, nel corso dei secoli, lo
slancio di vivere in base alla fede e di abbandonare per questo anche i loro
« hyparchonta », le sostanze materiali per
la loro esistenza. L'autore della Lettera agli Ebrei, nell'undicesimo
capitolo ha tracciato una specie di storia di coloro che
vivono nella speranza e del loro essere in cammino, una storia che da
Abele giunge fino all'epoca sua. Di questo tipo di speranza si è accesa nel
tempo moderno una critica sempre più dura: si tratterebbe di puro
individualismo, che avrebbe abbandonato il mondo alla sua miseria e si
sarebbe rifugiato in una salvezza eterna soltanto privata. Henri de Lubac, nell'introduzione alla sua opera fondamentale « Catholicisme. Aspects
sociaux du dogme », ha raccolto alcune voci caratteristiche di
questo genere di cui una merita di essere citata: « Ho trovato la gioia? No
... Ho trovato la mia gioia. E
ciò è una cosa terribilmente diversa ... La gioia di Gesù
può essere individuale. Può appartenere ad una sola persona, ed essa è salva.
È nella pace..., per ora e per sempre, ma lei sola.
Questa solitudine nella gioia non la turba. Al contrario: lei è, appunto,
l'eletta! Nella sua beatitudine attraversa le battaglie con una rosa in mano
» [10]. 14. Rispetto a ciò, de Lubac, sulla base della teologia dei Padri in tutta la
sua vastità, ha potuto mostrare che la salvezza è stata sempre considerata
come una realtà comunitaria. La stessa Lettera agli
Ebrei parla di una « città » (cfr 11,10.16;
12,22; 13,14) e quindi di una salvezza comunitaria. Coerentemente, il
peccato viene compreso dai Padri come distruzione
dell'unità del genere umano, come frazionamento e divisione. Babele, il luogo
della confusione delle lingue e della separazione, si rivela come espressione
di ciò che in radice è il peccato. E così la « redenzione » appare proprio
come il ristabilimento dell'unità, in cui ci ritroviamo di nuovo insieme in
un'unione che si delinea nella comunità mondiale dei
credenti. Non è necessario che ci occupiamo qui di tutti i testi, in cui
appare il carattere comunitario della speranza. Rimaniamo con 15. Questa visione della «
vita beata » orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare
anche con la edificazione del mondo – in forme molto diverse, secondo il
contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse. Al tempo di Agostino, quando l'irruzione dei nuovi popoli
minacciava la coesione del mondo, nella quale era data una certa garanzia di
diritto e di vita in una comunità giuridica, si trattava di fortificare i
fondamenti veramente portanti di questa comunità di vita e di pace, per poter
sopravvivere nel mutamento del mondo. Cerchiamo di gettare, piuttosto a caso,
uno sguardo su un momento del medioevo sotto certi aspetti emblematico.
Nella coscienza comune, i monasteri apparivano come i luoghi della fuga dal
mondo (« contemptus mundi ») e del sottrarsi
alla responsabilità per il mondo nella ricerca della salvezza privata. Bernardo di Chiaravalle, che
con il suo Ordine riformato portò una moltitudine di giovani nei monasteri,
aveva su questo una visione ben diversa. Secondo lui, i monaci hanno un compito
per tutta La trasformazione della
fede-speranza cristiana nel tempo moderno 16. Come ha potuto
svilupparsi l'idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo?
Come si è arrivati a interpretare la « salvezza
dell'anima » come fuga davanti alla responsabilità per l'insieme, e a
considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca
egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri? Per trovare
una risposta all'interrogativo dobbiamo gettare uno sguardo sulle componenti fondamentali del tempo moderno. Esse appaiono
con particolare chiarezza in Francesco Bacone. Che un'epoca nuova sia sorta – grazie alla scoperta
dell'America e alle nuove conquiste tecniche che hanno consentito questo
sviluppo – è cosa indiscutibile. Su che cosa, però, si basa questa svolta
epocale? È la nuova correlazione di esperimento e
metodo che mette l'uomo in grado di arrivare ad un'interpretazione della
natura conforme alle sue leggi e di conseguire così finalmente « la vittoria
dell'arte sulla natura » (victoria cursus
artis super naturam)
[14]. La novità – secondo la visione
di Bacone – sta in una nuova correlazione tra
scienza e prassi. Ciò viene poi applicato anche
teologicamente: questa nuova correlazione tra scienza e prassi
significherebbe che il dominio sulla creazione, dato all'uomo da Dio e perso
nel peccato originale, verrebbe ristabilito [15]. 17. Chi legge queste
affermazioni e vi riflette con attenzione, vi riconosce un passaggio
sconcertante: fino a quel momento il ricupero di ciò che l'uomo nella
cacciata dal paradiso terrestre aveva perso si attendeva dalla fede in Gesù Cristo, e in questo si vedeva la « redenzione ». Ora
questa « redenzione », la restaurazione del « paradiso » perduto, non si
attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e
prassi. Non è che la fede, con ciò, venga
semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello –
quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo
diventa in qualche modo irrilevante per il mondo. Questa visione
programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure
l'attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della
speranza cristiana. Così anche la speranza, in Bacone,
riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per Bacone, infatti, è chiaro che le scoperte e le invenzioni
appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e
prassi seguiranno scoperte totalmente nuove,
emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell'uomo [16]. Così egli ha presentato anche
una visione delle invenzioni prevedibili – fino all'aereo e al sommergibile.
Durante l'ulteriore sviluppo dell'ideologia del
progresso, la gioia per gli avanzamenti visibili delle potenzialità umane
rimane una costante conferma della fede nel progresso come tale. 18. Al contempo, due
categorie entrano sempre più al centro dell'idea di progresso: ragione e
libertà. Il progresso è soprattutto un progresso nel crescente dominio della
ragione e questa ragione viene considerata
ovviamente un potere del bene e per il bene. Il progresso è
il superamento di tutte le dipendenze – è progresso verso la libertà
perfetta. Anche la libertà viene vista solo come
promessa, nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza. In ambedue i
concetti – libertà e ragione – è presente un aspetto politico. Il regno della
ragione, infatti, è atteso come la nuova condizione
dell'umanità diventata totalmente libera. Le condizioni politiche di
un tale regno della ragione e della libertà, tuttavia, in un primo momento
appaiono poco definite. Ragione e libertà sembrano garantire da sé, in virtù
della loro intrinseca bontà, una nuova comunità umana perfetta. In ambedue i
concetti-chiave di « ragione » e « libertà », però, il pensiero tacitamente
va sempre anche al contrasto con i vincoli della fede e della Chiesa, come
pure con i vincoli degli ordinamenti statali di allora. Ambedue i concetti portano
quindi in sé un potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva. 19. Dobbiamo brevemente
gettare uno sguardo sulle due tappe essenziali della concretizzazione
politica di questa speranza, perché sono di grande importanza per il cammino
della speranza cristiana, per la sua comprensione e per la sua persistenza.
C'è innanzitutto 21. Ma
con la sua vittoria si è reso evidente anche l'errore fondamentale di Marx.
Egli ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere
dopo. Egli supponeva semplicemente che con l'espropriazione della classe
dominante, con la caduta del potere politico e con la socializzazione
dei mezzi di produzione si sarebbe realizzata 22. Così ci troviamo
nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria
un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua
concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro
esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro
speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano
offrire. Bisogna che nell'autocritica dell'età moderna confluisca anche
un'autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a
comprendere se stesso a partire dalle proprie radici.
Su questo si possono qui tentare solo alcuni accenni. Innanzitutto
c'è da chiedersi: che cosa significa veramente « progresso »; che cosa
promette e che cosa non promette? Già nel XIX secolo
esisteva una critica alla fede nel progresso. Nel XX
secolo, Theodor W. Adorno
ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il
progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del
progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente
l'ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il
bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità
che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il
progresso in mani sbagliate possa diventare e sia
diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se
al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica
dell'uomo, nella crescita dell'uomo interiore (cfr
Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un
progresso, ma una minaccia per l'uomo e per il mondo. 23. Per quanto riguarda i due
grandi temi « ragione » e « libertà », qui possono essere solo accennate
quelle domande che sono con essi collegate. Sì, la
ragione è il grande dono di Dio all'uomo, e la
vittoria della ragione sull'irrazionalità è anche uno scopo della fede
cristiana. Ma quand'è che la ragione domina
veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diventata cieca per Dio? La ragione del potere e
del fare è già la ragione intera? Se il progresso per
essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanità, allora la
ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata
mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al
discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente
umana. Diventa umana solo se è in grado di indicare la strada alla volontà, e
di questo è capace solo se guarda oltre se stessa. In caso contrario la
situazione dell'uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di
giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato. Così in tema di libertà, bisogna ricordare che la libertà umana
richiede sempre un concorso di varie libertà. Questo concorso,
tuttavia, non può riuscire, se non è determinato da un comune intrinseco
criterio di misura, che è fondamento e meta della nostra libertà. Diciamolo
ora in modo molto semplice: l'uomo ha bisogno di Dio,
altrimenti resta privo di speranza. Visti gli
sviluppi dell'età moderna, l'affermazione di san Paolo citata all'inizio (cfr Ef 2,12) si rivela
molto realistica e semplicemente vera. Non vi è dubbio, pertanto, che un «
regno di Dio » realizzato senza Dio – un regno
quindi dell'uomo solo – si risolve inevitabilmente nella « fine perversa » di
tutte le cose descritta da Kant: l'abbiamo visto e
lo vediamo sempre di nuovo. Ma non vi è neppure
dubbio che Dio entra veramente nelle cose umane solo se non è soltanto da noi
pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla. Per questo la
ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa:
ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera
natura e la loro missione. La vera fisionomia
della speranza cristiana 24. Chiediamoci ora di nuovo:
che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo
sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un
progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella
conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle
invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del
progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito
invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile
possibilità di addizione per il semplice motivo che
la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue
decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da
altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà
presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni
generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono
costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno
precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la
stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell'umanità non
è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come
invito alla libertà e come possibilità per essa. Ma ciò significa che: a) il retto stato delle cose umane, il benessere morale
del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per
quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti,
ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori
gioco la libertà dell'uomo. Anche le strutture
migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni
che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione
all'ordinamento comunitario. La libertà necessita di
una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di
nuovo riconquistata comunitariamente. b) Poiché l'uomo rimane sempre libero e poiché la sua
libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del
bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo
migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa;
egli ignora la libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere
conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai
semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che
fissassero in modo irrevocabile una determinata – buona – condizione del
mondo, sarebbe negata la libertà dell'uomo, e per questo motivo non
sarebbero, in definitiva, per nulla strutture buone. 25. Conseguenza di quanto
detto è che la sempre nuova faticosa ricerca di retti
ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione; non è mai
compito semplicemente concluso. Ogni generazione, tuttavia, deve anche recare
il proprio contributo per stabilire convincenti ordinamenti di libertà e di
bene, che aiutino la generazione successiva come
orientamento per l'uso retto della libertà umana e diano così, sempre nei
limiti umani, una certa garanzia anche per il futuro. In altre parole: le
buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non può mai essere
redento semplicemente dall'esterno. Francesco Bacone
e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'età moderna a lui ispirata, nel
ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano.
Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza
è fallace. La scienza può contribuire molto all'umanizzazione
del mondo e dell'umanità. Essa però può anche distruggere l'uomo e il mondo,
se non viene orientata da forze che si trovano al di
fuori di essa. D'altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo
moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione
del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto
sull'individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l'orizzonte della
sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del
suo compito – anche se resta grande ciò che ha
continuato a fare nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei
sofferenti. 26. Non è la scienza che
redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante
l'amore. Ciò vale già nell'ambito puramente intramondano.
Quando uno nella sua vita fa l'esperienza di un
grande amore, quello è un momento di « redenzione » che dà un senso nuovo
alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche
conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua
vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte.
L'essere umano ha bisogno dell'amore incondizionato. Ha bisogno di quella
certezza che gli fa dire: « Né morte né vita, né angeli né principati, né
presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di
Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore
assoluto con la sua certezza assoluta, allora – soltanto allora – l'uomo è «
redento », qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù
Cristo ci ha « redenti ». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di
un Dio che non costituisce una lontana « causa prima
» del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno
può dire: « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me » (Gal 2,20). 28. Ma
ora sorge la domanda: in questo modo non siamo forse ricascati nuovamente
nell'individualismo della salvezza? Nella speranza solo per me, che poi,
appunto, non è una speranza vera, perché dimentica e trascura gli altri? No.
Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù – da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La relazione con Gesù,
però, è una relazione con Colui che ha dato se
stesso in riscatto per tutti noi (cfr 1 Tm 2,6). L'essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere
« per tutti », ne fa il nostro modo di essere. Egli ci
impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa
possibile esserci veramente per gli altri, per l'insieme. Vorrei, in questo contesto, citare il grande dottore greco della Chiesa, san
Massimo il Confessore († 662), il quale dapprima esorta a non anteporre nulla
alla conoscenza ed all'amore di Dio, ma poi arriva subito ad applicazioni
molto pratiche: « Chi ama Dio non può riservare il denaro per sé. Lo
distribuisce in modo ‘divino' [...] nello stesso
modo secondo la misura della giustizia » [19]. Dall'amore verso Dio consegue la
partecipazione alla giustizia e alla bontà di Dio verso gli altri; amare Dio richiede la libertà interiore di fronte ad ogni
possesso e a tutte le cose materiali: l'amore di Dio si rivela nella
responsabilità per l'altro [20]. La stessa connessione tra amore
di Dio e responsabilità per gli uomini possiamo osservare
in modo toccante nella vita di sant'Agostino. Dopo
la sua conversione alla fede cristiana egli, insieme con alcuni amici di idee affini, voleva condurre una vita che fosse
dedicata totalmente alla parola di Dio e alle cose eterne. Intendeva realizzare
con valori cristiani l'ideale della vita contemplativa espressa dalla grande filosofia greca, scegliendo in questo modo « la
parte migliore » (cfr Lc
10,42). Ma le cose andarono diversamente. Mentre
partecipava alla Messa domenicale nella città portuale di Ippona, fu dal Vescovo chiamato fuori dalla folla e
costretto a lasciarsi ordinare per l'esercizio del ministero sacerdotale in
quella città. Guardando retrospettivamente a quell'ora egli scrive nelle sue Confessioni: «
Atterrito dai miei peccati e dalla mole della mia
miseria, avevo ventilato in cuor mio e meditato la fuga nella solitudine. Ma
tu me l'hai impedito e mi hai confortato con la tua parola: « Cristo è morto
per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto per tutti » (cfr
2 Cor 5,15) » [21]. Cristo è morto per tutti. Vivere
per Lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo « essere per ». 29. Per Agostino ciò
significò una vita totalmente nuova. Egli una volta descrisse così la sua
quotidianità: « Correggere gli indisciplinati, confortare i pusillanimi,
sostenere i deboli, confutare gli oppositori, guardarsi dai maligni, istruire
gli ignoranti, stimolare i negligenti, frenare i litigiosi, moderare gli
ambiziosi, incoraggiare gli sfiduciati, pacificare i contendenti, aiutare i
bisognosi, liberare gli oppressi, mostrare approvazione ai buoni, tollerare i
cattivi e [ahimè!] amare tutti » [22]. « È il Vangelo che mi spaventa »
[23] – quello spavento salutare che ci impedisce di vivere per noi stessi e che ci spinge a
trasmettere la nostra comune speranza. Di fatto, proprio questa era
l'intenzione di Agostino: nella situazione difficile
dell'impero romano, che minacciava anche l'Africa romana e, alla fine della
vita di Agostino, addirittura la distrusse, trasmettere speranza – la
speranza che gli veniva dalla fede e che, in totale contrasto col suo
temperamento introverso, lo rese capace di partecipare decisamente e con
tutte le forze all'edificazione della città. Nello stesso capitolo delle
Confessioni, in cui abbiamo or ora visto il motivo decisivo del suo impegno
« per tutti », egli dice: Cristo « intercede per
noi, altrimenti dispererei. Sono molte e pesanti le debolezze, molte e pesanti, ma più abbondante è la tua medicina.
Avremmo potuto credere che la tua Parola fosse lontana dal contatto dell'uomo
e disperare di noi, se questa Parola non si fosse fatta
carne e non avesse abitato in mezzo a noi » [24]. In virtù della sua speranza,
Agostino si è prodigato per la gente semplice e per la sua città – ha
rinunciato alla sua nobiltà spirituale e ha
predicato ed agito in modo semplice per la gente semplice. 30. Riassumiamo ciò che
finora è emerso nello sviluppo delle nostre riflessioni. L'uomo ha, nel
succedersi dei giorni, molte speranze – più piccole o più grandi – diverse
nei diversi periodi della sua vita. A volte può
sembrare che una di queste speranze lo soddisfi totalmente e che non abbia
bisogno di altre speranze. Nella gioventù può essere
la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione
nella professione, dell'uno o dell'altro successo determinante
per il resto della vita. Quando, però, queste
speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il
tutto. Si rende evidente che l'uomo ha bisogno di una speranza che vada
oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di
infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai
raggiungere. In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza
dell'instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della
scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava esser diventata
realizzabile. Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata
dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero « regno di Dio ». Questa sembrava
finalmente la speranza grande e realistica, di cui l'uomo ha
bisogno. Essa era in grado di mobilitare – per un certo tempo – tutte le
energie dell'uomo; il grande obiettivo sembrava meritevole di
ogni impegno. Ma nel corso del tempo apparve chiaro che questa
speranza fugge sempre più lontano. Innanzitutto ci si rese conto che questa era forse una
speranza per gli uomini di dopodomani, ma non una speranza per me. E benché
il « per tutti » faccia parte della grande speranza – non posso, infatti,
diventare felice contro e senza gli altri – resta vero che una speranza che
non riguardi me in persona non è neppure una vera speranza. E diventò
evidente che questa era una speranza contro la libertà, perché la situazione
delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera
decisione degli uomini che ad essa appartengono. Se questa libertà, a causa delle condizioni e delle
strutture, fosse loro tolta, il mondo, in fin dei conti, non sarebbe buono,
perché un mondo senza libertà non è per nulla un mondo buono. Così, pur
essendo necessario un continuo impegno per il miglioramento del mondo, il mondo migliore di domani non può essere il contenuto
proprio e sufficiente della nostra speranza. E
sempre a questo proposito si pone la domanda: Quando è « migliore » il mondo?
Che cosa lo rende buono? Secondo quale criterio si
può valutare il suo essere buono? E per quali vie si
può raggiungere questa « bontà »? 31. Ancora: noi abbiamo
bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma
senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano.
Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l'universo e che
può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo
raggiungere. Proprio l'essere gratificato di un dono fa parte della speranza.
Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio,
ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla
fine: ogni singolo e l'umanità nel suo insieme. Il suo regno non è un aldilà
immaginario, posto in un futuro che non arriva mai; il suo regno è presente
là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge. Solo il suo amore ci
dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un
mondo che, per sua natura, è imperfetto. E il suo amore, allo stesso tempo, è
per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo
e, tuttavia, nell'intimo aspettiamo: la vita che è « veramente » vita.
Cerchiamo di concretizzare ulteriormente questa idea
in un'ultima parte, rivolgendo la nostra attenzione ad alcuni « luoghi » di
pratico apprendimento ed esercizio della speranza. « Luoghi » di apprendimento e di esercizio della speranza I. La preghiera come
scuola della speranza 32. Un primo essenziale luogo
di apprendimento della speranza è la preghiera. Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno
invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c'è più
nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un'attesa
che supera l'umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi [25]. Se sono relegato in estrema
solitudine...; ma l'orante non è mai totalmente
solo. Da tredici anni di prigionia, di cui nove in isolamento,
l'indimenticabile Cardinale Nguyen Van Thuan ci ha lasciato un
prezioso libretto: Preghiere di speranza. Durante tredici anni di
carcere, in una situazione di disperazione apparentemente totale, l'ascolto
di Dio, il poter parlargli, divenne per lui una crescente forza di speranza,
che dopo il suo rilascio gli consentì di diventare per gli uomini in tutto il
mondo un testimone della speranza – di quella grande
speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta. 34. Affinché
la preghiera sviluppi questa forza purificatrice, essa deve, da una parte,
essere molto personale, un confronto del mio io con Dio, con il Dio vivente.
Dall'altra, tuttavia, essa deve essere sempre di nuovo
guidata ed illuminata dalle grandi preghiere della Chiesa e dei santi,
dalla preghiera liturgica, nella quale il Signore ci insegna continuamente a
pregare nel modo giusto. Il Cardinale Nguyen Van Thuan, nel suo libro di Esercizi spirituali, ha raccontato come nella sua vita
c'erano stati lunghi periodi di incapacità di pregare e come egli si era
aggrappato alle parole di preghiera della Chiesa: al Padre nostro, all'Ave Maria e alle preghiere della Liturgia [27]. Nel pregare deve sempre esserci questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera
personale. Così possiamo parlare a Dio, così Dio parla
a noi. In questo modo si realizzano in noi le purificazioni, mediante le
quali diventiamo capaci di Dio e siamo resi idonei al servizio degli uomini.
Così diventiamo capaci della grande speranza e così diventiamo ministri della
speranza per gli altri: la speranza in senso
cristiano è sempre anche speranza per gli altri. Ed
è speranza attiva, nella quale lottiamo perché le cose non vadano verso « la
fine perversa ». È speranza attiva proprio anche nel senso che teniamo il mondo aperto a Dio. Solo così
essa rimane anche speranza veramente umana. II. Agire e soffrire come
luoghi di apprendimento della speranza 35. Ogni agire serio e retto
dell'uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel
senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o
più grandi: risolvere questo o quell'altro compito
che per l'ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro
impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po' più luminoso e
umano e così si aprano anche le porte verso il futuro. Ma l'impegno
quotidiano per la prosecuzione della nostra vita e per il futuro dell'insieme
ci stanca o si muta in fanatismo, se non ci illumina
la luce di quella grande speranza che non può essere distrutta neppure da
insuccessi nel piccolo e dal fallimento in vicende di portata storica. Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente
raggiungibile di volta in volta e di quanto di sperabile le autorità
politiche ed economiche ci offrono, la nostra vita si riduce ben presto ad
essere priva di speranza. È importante sapere: io posso sempre ancora
sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo
apparentemente non ho più niente da sperare. Solo la grande speranza-certezza
che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo
insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell'Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un'importanza, solo una
tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di
proseguire. Certo, non possiamo « costruire » il regno di Dio con le nostre
forze – ciò che costruiamo rimane sempre regno dell'uomo con tutti i limiti
che sono propri della natura umana. Il regno di Dio
è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta
alla speranza. E non possiamo – per usare la
terminologia classica – « meritare » il cielo con le nostre opere. Esso è
sempre più di quello che meritiamo, così come l'essere amati non è mai una
cosa « meritata », ma sempre un dono. Tuttavia, con tutta
la nostra consapevolezza del « plusvalore » del cielo, rimane anche sempre
vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio e quindi non è
neppure indifferente per lo svolgimento della storia. Possiamo aprire
noi stessi e il mondo all'ingresso di Dio: della verità, dell'amore, del
bene. È quanto hanno fatto i santi che, come « collaboratori di Dio », hanno
contribuito alla salvezza del mondo (cfr 1 Cor 3,9; 1 Ts 3,2).
Possiamo liberare la nostra vita e il mondo dagli avvelenamenti e dagli
inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro. Possiamo
scoprire e tenere pulite le fonti della creazione e così, insieme con la creazione che ci precede come dono, fare ciò che è giusto
secondo le sue intrinseche esigenze e la sua finalità. Ciò conserva un senso anche se, per quel che appare, non abbiamo successo
o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili. Così, per un
verso, dal nostro operare scaturisce speranza per noi e per gli altri; allo
stesso tempo, però, è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che,
nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro
agire. 36. Come l'agire, anche la
sofferenza fa parte dell'esistenza umana. Essa deriva, da una parte, dalla
nostra finitezza, dall'altra, dalla massa di colpa che, nel corso della
storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. Certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la
sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti;
calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche. Sono
tutti doveri sia della giustizia che dell'amore che
rientrano nelle esigenze fondamentali dell'esistenza cristiana e di ogni vita
veramente umana. Nella lotta contro il dolore fisico si è riusciti a fare
grandi progressi; la sofferenza degli innocenti e anche le sofferenze
psichiche sono piuttosto aumentate nel corso degli ultimi decenni. Sì,
dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla
completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità – semplicemente
perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno
di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che – lo
vediamo – è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo
solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e
soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c'è e
che perciò questo potere che « toglie il peccato del mondo » (Gv 1,29) è presente nel mondo.
Con la fede nell'esistenza di questo potere, è emersa nella storia la
speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta,
appunto, di speranza e non ancora di compimento; speranza che ci dà il
coraggio di metterci dalla parte del bene anche là dove la cosa sembra senza
speranza, nella consapevolezza che, stando allo svolgimento della storia così
come appare all'esterno, il potere della colpa rimane anche nel futuro una
presenza terribile. 37. Ritorniamo al nostro tema. Possiamo cercare di limitare la sofferenza, di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla. Proprio là dove gli uomini, nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell'amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l'oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine. Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore. Vorrei in questo contesto citare alcune frasi di una lettera del martire vietnamita Paolo Le-Bao-Thin († 1857), nelle quali diventa evidente questa trasformazione della sofferenza mediante la forza della speranza che proviene dalla fede. « Io, Paolo, prigioniero per il nome di Cristo, voglio farvi conoscere le tribolazioni nelle quali quotidianamente sono immerso, perché infiammati dal divino amore innalziate con me le vostre lodi a Dio: eterna è la sua misericordia (cfr Sal 136 [135]). Questo carcere è davvero un'immagine dell'inferno eterno: ai crudeli supplizi di ogni genere, come i ceppi, le catene di ferro, le funi, si aggiungono odio, vendette, calunnie, parole oscene, false accuse, cattiverie, giuramenti iniqui, maledizioni e infine angoscia e tristezza. Dio, che liberò i tre giovani dalla fornace ardente, mi è sempre vicino; e ha liberato anche me da queste tribolazioni, trasformandole in dolcezza: eterna è la sua misericordia. In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia, perché non sono solo, ma Cristo è con me [...] Come sopportare questo orrendo spettacolo, vedendo ogni giorno imperatori, mandarini e i loro cortigiani, che bestemmiano il tuo santo nome, Signore, che siedi sui Cherubini (cfr Sal 80 [79], 2) e i Serafini? Ecco, la tua croce è calpestata dai piedi dei pagani! Dov'è la tua gloria? Vedendo tutto questo preferisco, nell'ardore della tua carità, aver tagliate le membra e morire in testimonianza del tuo amore. Mostrami, Signore, la tua potenza, vieni in mio aiuto e salvami, perché nella mia debolezza sia manifestata e glorificata la tua forza davanti alle genti [...]. Fratelli carissimi, nell'udire queste cose, esultate e innalzate un perenne inno di grazie a Dio, fonte di ogni bene, e beneditelo con me: eterna è la sua misericordia. [...] Vi scrivo tutto questo, perché la vostra e la mia fede formino una cosa sola. Mentre infuria la tempesta, getto l'ancora fino al trono di Dio: speranza viva, che è nel mio cuore... »[28 ]. Questa è una lettera dall'« inferno ». Si palesa tutto l'orrore di un campo di concentramento, in cui ai tormenti da parte dei tiranni s'aggiunge lo scatenamento del male nelle stesse vittime che, in questo modo, diventano pure esse ulteriori strumenti della crudeltà degli aguzzini. È una lettera dall'inferno, ma in essa si avvera la parola del Salmo: « Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti [...]. Se dico: “Almeno l'oscurità mi copra” [...] nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce » (Sal 139 [138] 8-12; cfr anche Sal 23 [22],4). Cristo è disceso nell'« inferno » e così è vicino a chi vi viene gettato, trasformando per lui le tenebre in luce. La sofferenza, i tormenti restano terribili e quasi insopportabili. È sorta, tuttavia, la stella della speranza – l'ancora del cuore giunge fino al trono di Dio. Non viene scatenato il male nell'uomo, ma vince la luce: la sofferenza – senza cessare di essere sofferenza – diventa nonostante tutto canto di lode.39.
Soffrire con l'altro, per gli altri; soffrire per amore della verità e della
giustizia; soffrire a causa dell'amore e per diventare una persona che ama
veramente – questi sono elementi fondamentali di umanità,
l'abbandono dei quali distruggerebbe l'uomo stesso. Ma
ancora una volta sorge la domanda: ne siamo capaci? È l'altro
sufficientemente importante, perché per lui io diventi una persona che
soffre? È per me la verità tanto importante da ripagare la sofferenza? È così
grande la promessa dell'amore da giustificare il dono di me stesso? Alla fede
cristiana, nella storia dell'umanità, spetta proprio questo merito di aver suscitato
nell'uomo in maniera nuova e a una profondità nuova
la capacità di tali modi di soffrire che sono decisivi per la sua umanità. La
fede cristiana ci ha mostrato che verità, giustizia, amore non sono semplicemente ideali, ma realtà di grandissima densità.
Ci ha mostrato, infatti, che Dio – III.
Il Giudizio come luogo di apprendimento e di
esercizio della speranza 42.
Nell'epoca moderna il pensiero del Giudizio finale sbiadisce: la fede
cristiana viene individualizzata ed è orientata
soprattutto verso la salvezza personale dell'anima; la riflessione sulla
storia universale, invece, è in gran parte dominata dal pensiero del
progresso. Il contenuto fondamentale dell'attesa del Giudizio, tuttavia, non
è semplicemente scomparso. Ora però assume una forma totalmente diversa.
L'ateismo del XIX e del XX secolo è, secondo le sue
radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie
del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale
misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti
e di cinismo del potere, non può essere l'opera di un Dio buono. Il Dio che
avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e
ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che
bisogna contestare questo Dio. Poiché non c'è un Dio che
crea giustizia, sembra che l'uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la
giustizia. Se di fronte alla sofferenza di
questo mondo la protesta contro Dio è comprensibile, la pretesa che l'umanità
possa e debba fare ciò che nessun Dio fa né è in grado di fare, è presuntuosa
ed intrinsecamente non vera. Che da tale premessa siano conseguite le più grandi
crudeltà e violazioni della giustizia non è un caso,
ma è fondato nella falsità intrinseca di questa pretesa. Un mondo che si deve
creare da sé la sua giustizia è un mondo senza
speranza. Nessuno e niente risponde per la
sofferenza dei secoli. Nessuno e niente garantisce
che il cinismo del potere – sotto qualunque accattivante rivestimento
ideologico si presenti – non continui a spadroneggiare nel mondo. Così i
grandi pensatori della scuola di Francoforte, Max Horkheimer
e Theodor W. Adorno,
hanno criticato in ugual modo l'ateismo come il teismo. Horkheimer
ha radicalmente escluso che possa essere trovato un
qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo però
anche l'immagine del Dio buono e giusto. In una radicalizzazione
estrema del divieto veterotestamentario delle
immagini, egli parla della « nostalgia del totalmente Altro » che rimane
inaccessibile – un grido del desiderio rivolto alla
storia universale. Anche Adorno si è attenuto decisamente
a questa rinuncia ad ogni immagine che, appunto, esclude anche l'« immagine »
del Dio che ama. Ma egli ha anche sempre di nuovo sottolineato
questa dialettica « negativa » e ha affermato che giustizia, una vera
giustizia, richiederebbe un mondo « in cui non solo la sofferenza presente
fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato » [30].
Questo, però, significherebbe – espresso in simboli positivi
e quindi per lui inadeguati – che giustizia non può esservi senza
risurrezione dei morti. Una tale prospettiva, tuttavia, comporterebbe « la
risurrezione della carne, una cosa che all'idealismo, al regno dello spirito
assoluto, è totalmente estranea »[31]. 43.
Dalla rigorosa rinuncia ad ogni immagine, che fa parte del primo Comandamento
di Dio (cfr Es 20,4),
può e deve imparare sempre di nuovo anche il cristiano. La verità della
teologia negativa è stata posta in risalto dal IV
Concilio Lateranense il quale ha dichiarato
esplicitamente che, per quanto grande possa essere la somiglianza costatata
tra il Creatore e la creatura, sempre più grande è tra di loro la
dissomiglianza [32].
Per il credente, tuttavia, la rinuncia ad ogni immagine non può spingersi
fino al punto da doversi fermare, come vorrebbero Horkheimer
e Adorno, nel « no » ad ambedue le tesi, al teismo e all'ateismo. Dio stesso
si è dato un' « immagine »: nel Cristo che si è
fatto uomo. In Lui, il Crocifisso, la negazione di
immagini sbagliate di Dio è portata all'estremo. Ora Dio rivela il suo Volto
proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell'uomo
abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è
diventato speranza-certezza: Dio c'è, e Dio sa
creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che,
tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne
[33].
Esiste una giustizia[34].
Esiste la « revoca » della sofferenza passata, la riparazione che
ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la
cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi
secoli. Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce
l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più
forte, in favore della fede nella vita eterna. Il bisogno soltanto individuale
di un appagamento che in questa vita ci è negato,
dell'immortalità dell'amore che attendiamo, è certamente un motivo importante
per credere che l'uomo sia fatto per l'eternità; ma solo in collegamento con
l'impossibilità che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola, diviene
pienamente convincente la necessità del ritorno di Cristo e della nuova vita. 44.
La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio
è un mondo senza speranza (cfr
Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del
Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine
decisiva della speranza. Ma non è forse anche
un'immagine di spavento? Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello
spavento di cui sant'Ilario dice
che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore [35].
Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra
consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e
risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono
essere viste nel loro giusto collegamento interiore. La grazia non esclude la
giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella
tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca
per avere sempre lo stesso valore. Contro un tale tipo di cielo e di grazia
ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij
nel suo romanzo « I fratelli Karamazov ». I
malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a
tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto
citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio
che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con
immagini mitologiche, che però rendono con evidenza inequivocabile la verità,
egli dice che alla fine le anime staranno nude
davanti al giudice. Ora non conta più ciò che esse erano una volta nella
storia, ma solo ciò che sono in verità. « Ora [il
giudice] ha davanti a sé forse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La
trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia
[...] e tutto è storto,
pieno di menzogna e superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza
verità. Ed egli vede come l'anima, a causa di arbitrio,
esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, è caricata di
smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale
spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirà le punizioni
meritate [...] A volte, però, egli vede davanti a sé un'anima diversa, una
che ha fatto una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda
senz'altro alle isole dei beati » [36].
Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero
Lazzaro (cfr Lc
16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima
devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una
fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i
piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai
irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in
questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale,
ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico,
quella cioè di una condizione intermedia tra morte e
risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora. 45.
Questa idea vetero-giudaica della condizione
intermedia include l'opinione che le anime non si trovano semplicemente in
una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una punizione, come
dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme
provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo
stato siano possibili anche purificazioni e
guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio. 47.
Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme
salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore.
L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si
fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci
libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la
vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota
millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro,
in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti,
sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo
cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come
attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci
alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così
si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro
modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia
eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e
verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella
Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo
questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il
dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra
gioia. È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la
possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento
» trasformatore di questo incontro sfugge al
cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla
comunione con Dio nel Corpo di Cristo [39].
Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò
che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda
circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio
stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere
alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo
ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e
grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo
alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil
2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni
di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come
nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1). 48.
Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perché è importante per la
prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero
che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro
condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr
per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.).
La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza
ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale. L'Oriente non conosce una
sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime
nell'« aldilà », ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di
sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può
essere dato « ristoro e refrigerio » mediante l'Eucaristia, la preghiera e
l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilà, che sia possibile un
vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri
con vincoli di affetto oltre il confine della morte
– questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso
tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non
proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l'aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di
richiesta di perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il «
purgatorio » è semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco
nell'incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora
intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto
che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici
interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo.
Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da
solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che
penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita
entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia
intercessione per l'altro non è affatto una cosa a
lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio
dell'essere, il mio ringraziamento a lui, la mia
preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione.
E con ciò non c'è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio:
nella comunione delle anime viene superato il
semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore
dell'altro né è mai inutile. Così si chiarisce ulteriormente un elemento
importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre
essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente
speranza anche per me [40].
Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me
stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della
speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale. [1] Corpus Inscriptionum Latinarum,
vol. VI, n. 26003. [2] Cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG
37, 428-429. [3] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 1817-1821. [4] Summa Theologiae, II-IIae,
q. [5] H. Köster: ThWNT, VIII (1969) 585. [6] De excessu fratris
sui Satyri, II, 47: CSEL 73, 274. [7] Ibid, II, 46: CSEL 73, 273. [8] Cfr Ep. 130 Ad Probam 14, 25-15, 28: CSEL
44, 68-73. [9] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 1025. [10] Jean Giono, Les vraies richesses (1936), Préface,
Paris 1992, pp. 18-20, in: Henri de Lubac, Catholicisme. Aspects sociaux du dogme, Paris 1983, p.
VII. [11] Ep. 130 Ad
Probam 13, 24: CSEL 44, 67. [12] Sententiae III, 118: CCL 6/2,
215. [13] Cfr ibid. III, 71: CCL 6/2,
107-108. [17] In: Werke IV, a cura di W. Weischedel (1956), 777. [18] I. Kant, Das Ende
aller Dinge, in: Werke VI, a cura di W. Weischedel (1964), 190. [19] Capitoli sulla carità, Centuria 1, cap. 1: PG 90, 965. [20] Cfr ibid.:
PG 90, 962-966. [21] Conf. X 43, 70: CSEL
33, 279. [22] Sermo 340, 3: PL 38,
1484; cfr F. Van der Meer,
Augustinus der Seelsorger, (1951), 318. [23] Sermo 339, 4: PL 38, 1481. [24] Conf. X, 43, 69: CSEL 33, 279. [25] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 2657. [26] Cfr In 1 Joannis
4, 6: PL 35, 2008s. [27] Testimoni della speranza, Città Nuova 2000, 156s. [28] Breviario Romano, Ufficio delle Letture, 24 novembre. [29] Sermones in Cant.,
Serm. 26,5: PL 183, 906. [30] Negative Dialektik (1966) Terza
parte, III, 11, in: Gesammelte Schriften
Bd. VI, Frankfurt/Main 1973, 395. [31] Ibid., Seconda parte, 207. [33] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 988-1004. [35] Cfr Tractatus
super Psalmos, Ps.
127, 1-3: CSEL 22, 628- 630. [37] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1033-1037. [38] Cfr ibid., nn. 1023-1029. [39] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1030-1032. |