L’EVOLUZIONE NON ESCLUDE IL DIO CREATORE
DI BENEDETTO
XVI
Nelle quattro
relazioni che abbiamo ascoltato, davanti a noi si apre un ampio spettro su cui
potremmo discutere molto a lungo, ma per cui purtroppo
abbiamo poco tempo a disposizione. Dopo la pausa possiamo
ancora discutere alcune questioni. Penso che soprattutto gli stessi relatori
vogliano dirsi qualcosa l’uno con l’altro, l’uno per l’altro, e l’uno contro
l’altro, ma sempre in una contrapposizione produttiva che mira a far sì che
conosciamo la verità e ce ne assumiamo la
responsabilità.
Dobbiamo
pensare a quello che vogliamo fare con il tesoro delle quattro relazioni. Anch’esse forse hanno un telos.
Ho l’impressione che sia stata la provvidenza che ha
indotto il cardinale Schönborn a scrivere una glossa
sul New York Times, a rendere di nuovo
pubblico questo tema e a indicare dove stiano le questioni: che non si tratta
di decidersi né per un creazionismo, che si chiude
sostanzialmente alla scienza, né per una teoria dell’evoluzione che dissimula i
propri vuoti o lacune e non vuole vedere le questioni che travalicano le
possibilità del metodo delle scienze naturali. Si tratta piuttosto di questa interazione fra diverse dimensioni della
ragione, in cui si schiude anche la via alla fede.
Quando egli
fra ratio e fides mette l’accento sulla scientia o philosophia,
allora in fondo si tratta di recuperare nuovamente una dimensione della ragione
che avevamo perduta. Senza di essa
la fede verrebbe esiliata in un ghetto e così si perderebbe il suo significato
per la totalità della realtà e dell’essere umano.
Quello che ora
dico, in effetti, è già in certo qual modo superato dalle nuove relazioni,
perché è derivato direttamente dall’ascolto della relazione del professor Schuster, ma lo vorrei dire comunque.
Il professor Schuster ha da un lato indicato in modo
sorprendente la logica della teoria dell’evoluzione che si è andata
sviluppando, arrivando a poco a poco a una grande
coesione, e anche le correzioni interne che nel contempo si sono trovate (soprattutto
a Darwin); dall’altro, ha anche molto chiaramente messo in risalto le questioni
che restano aperte.
Non è che
adesso io voglia stipare il buon Dio in questi vuoti: egli è troppo grande per trovare posto in quei vuoti. Ma a me pare importante sottolineare che la teoria dell’evoluzione implica delle
domande che devono essere assegnate alla filosofia e che di per sé esulano
dall’ambito proprio delle scienze naturali.
A me pare
importante, in particolare, come prima cosa, che la teoria dell’evoluzione in
gran parte non sia dimostrabile sperimentalmente in
modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000
generazioni. Ciò significa che ci sono dei vuoti o lacune rilevanti di verificabilità-falsificabilità sperimentale a causa dell’enorme
spazio temporale cui la teoria si riferisce.
Come seconda cosa a me è parsa importante un’altra sua affermazione: la
probabilità non equivale a zero ma neppure a uno. Per cui si pone la domanda: a
quale altezza si situa la probabilità? Ciò è importante se vogliamo
interpretare correttamente la frase di Papa Giovanni Paolo II: «La teoria
dell’evoluzione è più di un’ipotesi». Quando il Papa
disse questo, aveva i suoi buoni motivi. Ma nello stesso tempo è anche vero che
la teoria dell’evoluzione non è ancora una teoria completa, scientificamente
verificabile.
Come terza cosa vorrei accennare ai salti di
cui ha già parlato anche il cardinale Schönborn. Non
basta la somma di piccoli passi. Ci sono dei «salti». La domanda sul loro
significato va ulteriormente approfondita.
Come quarta
cosa è interessante che i mutanti positivi siano solo
pochi e che il corridoio, in cui si poteva svolgere lo sviluppo, è stretto.
Questo corridoio è stato aperto e attraversato. Le scienze naturali stesse e la
teoria dell’evoluzione possono rispondere in modo sorprendente a molte cose, ma
nei quattro punti menzionati rimangono ancora aperte questioni rilevanti.
Prima che giunga alla mia conclusione, vorrei
dire qualcosa, cui ha già accennato anche il cardinale Schönborn:
non solo alcuni testi scientifico-popolari, ma anche scientifici
sull’evoluzione affermano di frequente che la «natura» o l’«evoluzione» avrebbe
fatto questo o quello. Qui ci si domanda: chi è propriamente la «natura» o
l’«evoluzione» come soggetto? Infatti non esiste!
Quando si dice che la natura fa questo o quello, ciò
può essere solo un tentativo di raggruppare una serie di eventi in un soggetto
che però non esiste come tale. A me pare evidente che questo espediente
verbale – forse inevitabile – racchiuda in sé domande di un certo peso.
Riassumendo potrei dire: le scienze naturali hanno
schiuso grandi dimensioni della ragione che finora non erano state aperte, e ci
hanno trasmesso così delle nuove conoscenze. Ma nella
gioia per la grandezza della loro scoperta esse tendono a toglierci dimensioni
della ragione di cui continuiamo ad avere bisogno. I loro risultati sollevano
delle domande che vanno oltre la competenza del loro canone metodologico e alle
quali in esso non è possibile dare una risposta. Tuttavia,
sono domande che la ragione deve porre e che non possono essere lasciate solo
al sentimento religioso. Bisogna considerarle come domande ragionevoli e
trovare anche dei modi ragionevoli di trattarle.
Sono le grandi
domande fondamentali della filosofia che ci si presentano in forma nuova: la
domanda sull’origine e sul futuro dell’uomo e del mondo. Inoltre, di recente,
mi sono reso conto di due cose, che hanno illustrato anche le tre relazioni che
si sono succedute: c’è da un lato una razionalità della stessa materia. Si può
leggerla.
Essa ha una
matematica in sé, è essa stessa ragionevole, anche se nel lungo cammino
dell’evoluzione c’è l’irrazionale, il caotico e il distruttivo; ma la materia
come tale è leggibile.
D’altro lato,
a me pare che anche il processo come un tutto abbia una razionalità. Nonostante
il suo errare e percorrere strade sbagliate lungo lo stretto corridoio, nella
scelta delle poche mutazioni positive e nello
sfruttamento della poca probabilità, il processo stesso è qualcosa di razionale.
Questa doppia razionalità che si rende di nuovo accessibile corrispondendo alla
nostra ragione porta inevitabilmente a una domanda che
esorbita dalla scienza, ma che comunque è una domanda della ragione: da dove
viene questa razionalità? C’è una razionalità originaria che si rispecchia in
queste due zone e dimensioni della razionalità? Le scienze naturali non possono
e non devono rispondere direttamente, ma noi dobbiamo riconoscere la domanda
come ragionevole e osare credere alla ragione creatrice e affidarci a essa.
Da una parte
c’è la razionalità della materia, che apre una finestra sul Creator Spiritus. A questo non dobbiamo rinunciare. È la fede
biblica nella creazione che ci ha indicato la via a
una civiltà della ragione, nelle cui possibilità c’è anche naturalmente quella
di annientarsi nuovamente. Questa è una dimensione che deve rimanere e che io
definisco anche una dimensione di contatto fra il greco e il biblico, che
dovettero ambedue fondersi in una interna ragione e in
una interna necessità.
D’altro lato, tuttavia, noi dobbiamo anche vedere i limiti.
Naturalmente,
nella natura c’è la razionalità, ma essa non ci permette di avere una visione
totale del piano di Dio. Quindi nella natura
permangono la contingenza e l’enigma dell’orribile, un po’ come lo descrive Reinhold Schneider dopo una
visita al Museo di scienze naturali di Vienna. (Anch’io
una volta ho visitato con mio fratello questo museo, ed eravamo sgomenti di
fronte a tante cose orribili in natura.) Nonostante la razionalità, che c’è,
noi possiamo constatare una componente di orrore, che non è più risolvibile
filosoficamente. Qui la filosofia reclama qualcosa di ulteriore
e la fede ci mostra il Logos, che è la ragione creatrice e che in modo
incredibile poté farsi carne, morire e risuscitare. In questo modo ci si rivela
un volto del Logos del tutto diverso da quello che noi possiamo
presagire e cercare a tentoni partendo da una
ricostruzione dei fondamenti della natura. Anche le due parti dell’anima greca
vi alludono: da una parte la grande filosofia e
dall’altra la tragedia, che in ultima analisi rimane senza risposta.