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CONGREGAZIONE PER NOTIFICAZIONE SULLE OPERE DEL P. Jon SOBRINO S.I.:
Introduzione In
seguito a detto esame, nel luglio del 2004 fu inviato all’Autore, per mezzo
del Rev. Padre Peter Hans Kolvenbach S.I., Preposito
Generale della Compagnia di Gesù, un Elenco di proposizioni erronee e
pericolose rilevate nei libri di cui sopra. Nel
marzo del 2005, il P. Jon Sobrino
trasmise una Respuesta al texto de Si
è quindi deciso di pubblicare la presente Notificazione, allo scopo di
offrire ai fedeli un criterio di giudizio sicuro, basato sull’autentica
dottrina ecclesiale, circa alcune affermazioni contenute negli scritti
dell’Autore. Si fa rilevare che, in alcuni casi, le proposizioni erronee sono
collocate in contesti in cui si trovano altre espressioni che sembrano contraddirle[1]; ciò non è però sufficiente a
giustificarle. I.
Presupposti metodologici. 2. Nel suo libro Jesucristo
liberador, P. Jon Sobrino afferma: “La cristología
latinoamericana […] determina que su lugar, como realidad
sustancial, son los pobres de este mundo, y esta realidad es la que debe
estar presente y transir cualquier lugar categorial donde se lleva a cabo” (p. 47). E aggiunge: “Los pobres cuestionan dentro de la comunidad la fe cristológica y le ofrecen su dirección fundamental” (p.
50); la “Iglesia de los
pobres es […] el lugar eclesial
de la cristología, por ser
una realidad configurada
por los pobres” (p.
51). “El lugar
social, es pues, el más decisivo para la fe, el más
decisivo para configurar el modo de pensar cristológico y el que exige y facilita la ruptura epistemológica” (p.
52). Sebbene
si apprezzi la preoccupazione per i poveri e per gli oppressi, nelle frasi di
cui sopra questa “Iglesia
de los pobres”
risulta di fatto il luogo teologico fondamentale dell’Autore. Ma il luogo
teologico fondamentale può esser solo Il
luogo ecclesiale della cristologia non può essere la “Iglesia
de los pobres” bensì 3. La mancanza della debita attenzione alle fonti
- a prescindere dal fatto che l’Autore affermi di considerarle come
“normative” - è la causa dei problemi presenti nella sua teologia, cui ci si
riferirà più avanti. In particolare, le affermazioni del Nuovo Testamento
sulla divinità di Cristo, sulla sua coscienza filiale e sul valore salvifico
della sua morte – questioni trattate nei paragrafi che seguono - di fatto,
non sono sempre tenute nel dovuto conto. È
ugualmente significativo il modo con cui l’Autore considera i grandi concili
della Chiesa antica, che a suo parere si sarebbero allontanati progressivamente
dai contenuti del Nuovo Testamento. Ad esempio, egli afferma: “Estos textos son útiles teológicamente,
además de normativos,
pero son también limitados y aun peligrosos, como hoy se reconoce sin dificultad” (La fe,
pp. 405-406). Di fatto, se si deve riconoscere il carattere limitato
delle formule dogmatiche, che non esprimono, e non possono esprimere, tutto
il contenuto dei misteri della Fede e che devono esser interpretate alla luce
della Sacra Scrittura e della Tradizione, non è lecito tuttavia ritenere
dette formule “pericolose”, poiché esse sono interpretazioni
autentiche del dato rivelato. Lo
sviluppo dogmatico dei primi secoli, incluso quello dei grandi concili, è considerato
da P. Sobrino come ambiguo e negativo. Egli non nega
il carattere normativo delle formulazioni dogmatiche ma,
complessivamente, non riconosce ad esse un valore al di fuori dell’ambito
culturale in cui sorsero. L’Autore non tiene conto del fatto che il soggetto transtemporale della Fede è II.
La divinità di Gesù Cristo. 4.
Diverse affermazioni dell’Autore
tendono a diminuire la portata dei passi del Nuovo Testamento in cui si
afferma che Gesù è Dio: “Jesús está íntimamente ligado a Dios, con lo cual su realidad
habrá que expresarla de alguna forma como realidad que es de Dios
(cf. Gv 20,28)” (La
fe, p. 216). In
riferimento a Gv 1,1, l’Autore afferma: “Con
el texto de Juan […] de ese logos no se
dice todavía, en sentido estricto, que sea Dios (consustancial
al Padre), pero de él se afirma
algo que será muy importante para llegar a esta conclusión, su preexistencia,
la cual no connota algo
puramente temporal, sino que
dice relación con la creación
y relaciona al logos con la acción
específica de la divinidad”
(La fe, p. 469). Per P. Sobrino, nel Nuovo Testamento non si afferma chiaramente
la divinità di Gesù ma si pongono soltanto i suoi
presupposti: “En el Nuevo
Testamento […] hay expresiones
que, en germen, llevarán a la confesión de fe en la divinidad de Jesús” (La fe, pp.
468-469). “En los comienzos
no se habló de Jesús como Dios ni
menos de la divinidad de Jesús, lo cual
sólo acaeció tras mucho tiempo
de explicación creyente,
casi con toda probabilidad
después de la caída de Jerusalén” (La fe,
p. 214). Sostenere
che in Gv 20,28 si afferma che Gesù è “de
Dios” è un errore evidente, poiché in tale
passo evangelico Gesù viene chiamato “Signore”
e “Dio”. Ugualmente, in Gv 1,1 si
dice che il Logos è Dio. In molti altri passi del Nuovo Testamento
si parla di Gesù come “Figlio” e “Signore”[3]. La divinità di Gesù è stata
oggetto della Fede ecclesiale fin dagli inizi e molto prima che nel Concilio
di Nicea si proclamasse la sua consustanzialità con il Padre. Il fatto che
non si usi questo termine non significa che non si affermi
la divinità di Gesù in senso stretto, contrariamente a quanto l’Autore pare
insinuare. L’Autore,
asserendo che la divinità di Gesù è stata affermata
solo dopo molto tempo di riflessione credente e che nel Nuovo Testamento essa
si troverebbe soltanto “en germen”,
evidentemente non la nega ma nello stesso tempo non l’afferma con la debita
chiarezza, inducendo altresì a pensare che lo sviluppo dogmatico - che a suo
parere possiede delle caratteristiche ambigue - sia giunto a questa
formulazione senza una chiara continuità con il Nuovo Testamento. La
divinità di Gesù è invece chiaramente attestata nei passi del Nuovo
Testamento sopra citati. Le numerose dichiarazioni conciliari in materia[4] si pongono in continuità con quanto
il Nuovo Testamento afferma esplicitamente e non solo “in germe”. La
confessione della divinità di Gesù Cristo è un punto assolutamente essenziale
della Fede della Chiesa fin dalle origini e attestata già nel Nuovo
Testamento. III.
L’Incarnazione del Figlio di Dio. 5. P. Sobrino scrive: “Desde una perspectiva
dogmática debe afirmarse,
y con toda radicalidad, que el Hijo
(la segunda persona de Nel
suddetto brano l’Autore stabilisce una distinzione fra il Figlio e Gesù, che
suggerisce al lettore la presenza di due soggetti in Cristo: il Figlio assume
la realtà di Gesù; il Figlio sperimenta l’umanità, la vita, il destino e la
morte di Gesù. Non risulta con chiarezza che il Figlio è Gesù e Gesù è il
Figlio. Il tenore letterale di queste frasi riflette la nota teologia dell’homo
assumptus, la quale risulta incompatibile con 6.
Un’altra difficoltà, riscontrata nella
visione cristologica di P. Sobrino,
deriva dalla sua insufficiente comprensione della communicatio
idiomatum. Secondo l’Autore, “la comprensión adecuada de la communicatio idiomatum” sarebbe
la seguente: “lo humano limitado se predica de Dios, pero lo divino ilimitado
no se predica de Jesús” (La fe, p. 408; cf. p. 500). In
realtà, l’unità della persona di Cristo “in due nature”, affermata dal
Concilio di Calcedonia, ha come conseguenza immediata
la cosiddetta communicatio idiomatum, cioè la possibilità di riferire le
proprietà della divinità all’umanità e viceversa. In virtù di questa
possibilità, già il Concilio di Efeso definì che Maria era theotókos: “Se qualcuno non confessa che
l'Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e che perciò la santa Vergine
è genitrice di Dio perché ha generato secondo la carne il Verbo che è da Dio,
sia anatema”[8]. “Se qualcuno attribuisce
a due persone o a due sostanze le espressioni dei Vangeli e degli scritti
degli apostoli, o dette dai santi sul Cristo, o da lui di se stesso, ed
alcune le attribuisce all’uomo, considerato distinto dal
Verbo di Dio, altre, invece, come convenienti a Dio, al solo Verbo di
Dio Padre, sia anatema”[9]. Come facilmente può dedursi da
questi testi conciliari, la “comunicazione delle proprietà” si applica
nei due sensi: l’umano si predica di Dio e il divino dell’uomo. Già il Nuovo
Testamento afferma che Gesù “è il Signore”[10] e che tutte le cose sono state
create per mezzo di lui[11]. Ad es., nel linguaggio cristiano è possibile dire, e si dice,
che Gesù è Dio e che è creatore ed onnipotente. Il Concilio di Efeso sancì
l’uso di chiamare Maria “genitrice di Dio”. Non è perciò corretto dire
che di Gesù non si può predicare “lo divino ilimitado”.
Tale affermazione dell’Autore si comprenderebbe solo nel contesto di una
cristologia dell’homo assumptus, nella
quale non risulta con chiarezza l’unità della persona di Gesù: è evidente che
non si potrebbero predicare di una persona umana gli attributi divini. Però
tale cristologia non è assolutamente compatibile con l’insegnamento dei
Concili di Efeso e di Calcedonia sull’unità della
persona di Gesù Cristo in due nature. La comprensione della communicatio idiomatum
presentata dall’Autore rivela pertanto una concezione erronea del mistero
dell’Incarnazione e dell’unità della persona di Gesù Cristo. IV.
Gesù Cristo e il Regno di Dio 7.
P. Sobrino
sviluppa una peculiare visione del rapporto fra Gesù ed il Regno di Dio. Si
tratta di un punto che riveste uno speciale interesse nelle sue opere.
Secondo l’Autore, la persona di Gesù, come mediatore, non può essere assolutizzata
ma va considerata in relazione al Regno di Dio, visto come qualcosa di
distinto da Gesù stesso: “Esta relacionalidad histórica la analizaremos después en detalle, pero digamos ahora que este recordatorio
es importante […] cuando
se absolutiza al mediador
Cristo y se ignora su relacionalidad constitutiva hacia la mediación, el reino de Dios” (Jesucristo, p. 32). “Ante todo, hay que
distinguir entre mediador y mediación de Dios. El reino
de Dios, formalmente hablando,
no es otra cosa que la realización de la voluntad de Dios para este mundo, a
lo cual llamamos mediación. A esa mediación […] está asociada una persona (o grupo) que la anuncia e inicia, y a ello llamamos mediador. En este sentido puede y debe decirse que, según la fe, ya ha aparecido el mediador definitivo, último y escatológico del reino de Dios, Jesús […]. Desde esta perspectiva pueden entenderse también las bellas
palabras de Orígenes al llamar a Cristo la autobasileia de Dios, el reino de Dios
en persona, palabras importantes
que describen bien la ultimidad del mediador personal del reino,
pero peligrosas si adecúan
a Cristo con la realidad del reino”
(Jesucristo, p. 147). “Mediador y mediación
se relacionan, pues, esencialmente, pero no son lo mismo. Siempre
hay un Moisés y una tierra prometida, un Monseñor Romero y una justicia anhelada. Ambas cosas, juntas, expresan la totalidad de la voluntad de Dios, pero no son lo mismo” (Jesucristo, p. 147). D’altra parte, la
condizione di mediatore proverrebbe a Gesù soltanto per il fatto di essere
uomo: “La posibilidad de ser
mediador no le viene, pues,
a Cristo de una realidad añadida
a lo humano sino que le viene del ejercicio de
lo humano” (La fe,
p. 253). L’Autore
afferma certamente l’esistenza di una relazione speciale fra Gesù Cristo (mediador) ed il Regno di Dio (mediación),
in quanto Gesù è il mediatore definitivo, ultimo ed escatologico del Regno.
Tuttavia, nei passi citati, Gesù ed il Regno vengono
distinti in modo tale che il vincolo fra di essi risulta privato del suo
contenuto peculiare e della sua singolarità. P. Sobrino
non spiega correttamente il nesso essenziale che esiste - se si vuole
utilizzare il suo stesso linguaggio - fra il “mediatore” e la “mediazione”.
Inoltre, dicendo che, per Cristo, la possibilità di essere mediatore “le
viene del ejercicio de lo humano”,
si esclude che la sua condizione di Figlio di Dio abbia rilevanza per la sua
missione mediatrice. Non
è sufficiente parlare di una connessione intima o di una relazione
costitutiva fra Gesù ed il Regno o di una “ultimidad
del mediador”, se si rinvia a qualcosa di
diverso da lui stesso. Infatti, in un certo senso, Gesù Cristo ed il Regno si
identificano: nella persona di Gesù già il Regno si è fatto presente. Tale identità
è stata rilevata fin dall’epoca patristica[12]. Papa Giovanni Paolo II affermava
nella Lettera enciclica Redemptoris Missio: “È sull'annunzio di Gesù Cristo, con cui
il regno si identifica, che è incentrata la predicazione della chiesa
primitiva”[13]. “Cristo non soltanto ha
annunziato il regno, ma in lui il regno stesso si è fatto presente e si è
compiuto”[14]. “Il regno di Dio non è un
concetto, una dottrina, un programma [...] ma è innanzi tutto una persona che ha il volto e il nome
di Gesù di Nazareth, immagine del Dio invisibile. Se si distacca il regno da
Gesù, non si ha più il regno di Dio da lui rivelato”[15]. D’altra parte, la singolarità e l’unicità della mediazione di Cristo sono sempre state affermate nella Chiesa. Egli, grazie alla sua condizione di “unigenito Figlio di Dio”, è “l’autorivelazione definitiva di Dio”[16] . Perciò la sua mediazione è unica, singolare, universale ed insuperabile: “…si può e si deve dire che Gesù Cristo ha un significato e un valore per il genere umano e la sua storia, singolare e unico, a lui solo proprio, esclusivo, universale, assoluto. Gesù è, infatti, il Verbo di Dio fatto uomo per la salvezza di tutti”[17].V.
L’autocoscienza di Gesù Cristo. 8.
P. Sobrino,
citando L. Boff, afferma
che “Jesús fue
un extraordinario creyente y tuvo
fe. La fe fue el modo de existir de Jesús”(Jesucristo, p. 203). E, di sua propria iniziativa, aggiunge che: “Esta fe describe la totalidad de la vida de Jesús” (Jesucristo,
p. 206). L’Autore giustifica la sua posizione adducendo il testo di Ebr 12,2: “En forma lapidaria la carta [a los Hebreos] dice con una claridad que no
tiene paralelo en el Nuevo Testamento que Jesús se relacionó con el misterio de Dios en la fe. Jesús es el
que ha vivido originariamente y en plenitud la fe (12,2)” (La
fe, p. 256). P. Sobrino
prosegue, dicendo: “Por lo que
toca a la fe, Jesús es presentado,
en vida, como un creyente como nosotros, hermano en lo teologal, pues no se le ahorró el tener que pasar por ella. Pero es presentado también como hermano mayor, porque vivió la fe originariamente y en plenitud
(12,2). Y es el modelo, aquel en quien debemos tener los ojos fijos
para vivir nuestra propia fe”(La fe, p. 258). Nei
passi appena citati, la relazione filiale di Gesù con il Padre, nella sua
singolarità irripetibile, non appare con la dovuta chiarezza; anzi, le
suddette affermazioni conducono piuttosto ad escluderla. Considerando
l’insieme del Nuovo Testamento, non si può sostenere che Gesù sia “un creyente como nosotros”. Nel vangelo di Giovanni si parla della
“visione” del Padre da parte di Gesù: “solo
colui che viene da Dio ha visto il Padre”[18]. Ugualmente, l’intimità unica e
singolare di Gesù con il Padre è attestata nei vangeli sinottici[19]. La
coscienza filiale e messianica di Gesù è la conseguenza diretta della sua
ontologia di Figlio di Dio fatto uomo. Se Gesù fosse un credente come noi,
sebbene in modo esemplare, non potrebbe esser l’autentico rivelatore, colui
che ci mostra il volto del Padre. Sono evidenti le connessioni di questo
punto con quanto è stato detto prima nel n. IV, sulla relazione di Gesù con
il Regno, e con quanto si dirà più avanti nel n. VI, sul valore salvifico
attribuito da Gesù alla propria morte. Nella riflessione dell’Autore viene
meno di fatto il carattere unico della mediazione e
della rivelazione di Gesù, che in tal modo è ridotto alla condizione di
rivelatore attribuibile ai profeti o ai mistici. Gesù,
il Figlio di Dio fatto carne, gode di una conoscenza intima ed immediata del
Padre, di una “visione” che certamente va al di là della fede. L’unione
ipostatica e la sua missione di rivelatore e redentore esigono la visione del
Padre e la conoscenza del suo piano di salvezza. È ciò che indicano i testi
evangelici già citati. Tale
dottrina è stata espressa in diversi testi magisteriali
recenti: “questa amantissima
conoscenza, con la quale il divin Redentore ci ha
seguiti sin dal primo istante della sua Incarnazione, supera ogni capacità
della mente umana, giacché, per quella visione beatifica di cui godeva sin
dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina...”[20]. Con
una terminologia leggermente diversa, anche Papa Giovanni Paolo II insiste
sulla visione del Padre: “I suoi [di Gesù] occhi restano fissi sul Padre.
Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche in
questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e
soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne
gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col
peccato al suo amore”[21]. Anche
il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della conoscenza “immediata”
che Gesù ha del Padre: “È, innanzi tutto, il caso della conoscenza intima
e immediata che il Figlio di Dio fatto uomo ha del Padre suo”[22]. “La conoscenza umana di
Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella Persona del Verbo
incarnato, fruiva in pienezza della scienza dei disegni eterni che egli era
venuto a rivelare”[23]. La
relazione di Gesù con Dio non si esprime correttamente dicendo che egli era
un credente come noi. Al contrario, sono proprio l’intimità e la conoscenza
diretta ed immediata che egli ha del Padre a permettergli di rivelare agli
uomini il mistero dell’amore divino. E solo così egli può introdurci in tale
amore. VI.
Il valore salvifico della morte di Gesù. 9.
Alcune affermazioni di P. Sobrino inducono a pensare che, a parere dell’Autore,
Gesù non avrebbe attribuito alla propria morte un
valore salvifico: “Digamos desde el principio que el Jesús
histórico no interpretó
su muerte de manera salvífica, según los modelos soteriólogicos
que, después, elaboró el Nuevo
Testamento: sacrificio expiatorio, satisfacción vicaria […]. En otras
palabras, no hay datos para pensar que Jesús otorgara un sentido absoluto trascendente a su propia muerte,
como hizo después el Nuevo
Testamento” (Jesucristo,
p. 261). “En los textos
evangélicos no se puede encontrar inequívocamente el significado que Jesús otorgó
a su propia muerte” (ibidem). “…puede
decirse que Jesús va a la muerte con confianza y la ve como último acto
de servicio, más bien a la manera de ejemplo eficaz y motivante para
otros que a la manera de mecanismo de salvación para otros. Ser fiel hasta
el final, eso es ser humano”
(Jesucristo, p. 263). In
un primo momento, l’affermazione dell’Autore sembra limitata, nel senso che
Gesù parrebbe non aver attribuito alla sua morte un valore salvifico secondo
le categorie utilizzate nel Nuovo Testamento. Tuttavia, in seguito, egli
afferma che “no hay datos
para pensar” che Gesù abbia attribuito un senso trascendente ed assoluto
alla propria morte. P. Sobrino dice soltanto che
Gesù va incontro alla morte con confidenza e le attribuisce valore di esempio
motivante per gli altri. In tal modo, i numerosi passi del Nuovo Testamento
che parlano del valore salvifico della morte di Cristo[24] risultano privati di ogni legame
con la coscienza che Cristo ha avuto di sé durante la sua vita soggetta alla
morte. L’Autore non prende in debita considerazione i passi evangelici in cui
Gesù attribuisce alla sua morte un significato salvifico; in particolare Mc 10,45[25]: “il
figlio dell’uomo non è venuto per esser servito, ma per servire e dare la
propria vita in riscatto per molti”; e le parole di istituzione dell’eucarestia: “Questo è il mio sangue, il sangue
dell’alleanza versato per molti”[26]. Qui appare di nuovo la
difficoltà, di cui sopra si è fatto menzione, circa l’uso che P. Sobrino fa del Nuovo Testamento. I dati neotestamentari
cedono il passo ad una ipotetica ricostruzione
storica, che risulta erronea. 10.
Tuttavia il problema non si riduce
alla coscienza con cui Gesù ha affrontato la sua morte ed al significato che
le avrebbe conferito. P. Sobrino espone anche il
suo punto di vista circa il significato soteriologico
che si dovrebbe attribuire alla morte di Cristo: “Lo
salvífico consiste en que
ha aparecido sobre la tierra lo que Dios quiere que
sea el ser humano […]. El Jesús fiel
hasta la cruz es salvación, entonces, al menos en este sentido: es revelación del homo verus, es decir,
de un ser humano en el que resultaría
que se cumplen tácticamente las características de una verdadera
naturaleza humana […]. El hecho mismo
de que se haya revelado lo humano verdadero contra toda expectativa, es ya buena
noticia, y por ello, es ya en sí
mismo salvación […]. Según esto, la cruz de Jesús como culminación de toda su vida puede ser comprendida
salvíficamente. Esta eficacia
salvífica se muestra más bien a la
manera de la causa ejemplar
que de la causa eficiente.
Pero no quita esto que no sea
eficaz […]. No se trata pues de causalidad eficiente, sino de causalidad ejemplar” (Jesucristo,
pp. 293-294). Ovviamente,
si deve riconoscere tutto il valore all’efficacia dell’esempio di Cristo, che
il Nuovo Testamento menziona esplicitamente[27]: è questa una dimensione della
soteriologia che non si può dimenticare. Tuttavia non si può ridurre
l’efficacia della morte di Gesù all’esempio o, secondo le medesime parole
dell’Autore, alla rivelazione dell’«homo verus»
fedele a Dio fino alla morte in croce. Nel testo sopra citato, P. Sobrino usa espressioni come “al menos”
e “más bien”,
che sembrano lasciar aperta la porta ad altre considerazioni. Ma alla fine
questa porta si chiude con una esplicita negazione:
egli afferma che non si tratta di causalità efficiente bensì
di “causalità esemplare”. La redenzione sembra così ridursi all’apparizione
dell’homo verus, che si manifesta
nella fedeltà fino alla morte. La morte di Cristo sarebbe in tal modo exemplum e non sacramentum
(dono). La redenzione si riduce al moralismo. Affiorano qui di nuovo le
difficoltà cristologiche già notate in relazione
con il mistero dell’Incarnazione e con il Regno. Entra qui in gioco solo
l’umanità di Gesù e non il Figlio di Dio fatto uomo per noi e per la nostra
salvezza. Le affermazioni del Nuovo Testamento, della Tradizione e del
Magistero ecclesiale sulla efficacia della redenzione e della salvezza
operate da Cristo non possono ridursi al buon esempio da lui dato. Il mistero
dell’Incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, il Figlio di Dio
fatto uomo, è la fonte unica e inesauribile della redenzione dell’umanità,
che si rende efficace nella Chiesa mediante i sacramenti. Il
Concilio di Trento, nel Decreto sulla giustificazione, afferma: “il Padre celeste, «padre delle misericordie e Dio
di ogni consolazione» (2Cor 1,3), quando giunse la beata «pienezza dei tempi»
(Ef 1,10; Gal 4,4), mandò agli uomini Gesù Cristo,
suo figlio [...] affinché riscattasse i Giudei, «che
erano sotto la legge» (Gal 4,5), e «i pagani che non cercavano la giustizia,
raggiungessero la giustizia» (Rm 9,30); e tutti
«ricevessero l’adozione di figli» (Gal 4,5). Questo Dio «ha prestabilito a
servire come strumento di espiazione per mezzo della fede nel suo sangue» (Rm 3,25), «per i nostri peccati; non solo per i nostri,
ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2)”[28]. Nel
medesimo decreto si afferma che la causa meritoria della giustificazione è
Gesù, Figlio unigenito di Dio, “il quale, «quando eravamo nemici» (Rm 5,10), «per il grande amore con cui ci ha amati» (Ef 2,4) ci ha meritato la giustificazione con la sua santissima
passione sul legno della croce e ha soddisfatto per noi Dio Padre”[29]. Il
Concilio Vaticano II insegna: “Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura
umana e vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l'uomo
e l'ha trasformato in una nuova creatura (cf. Gal
6,15; 2 Cor 5,17). Comunicando infatti il suo
Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che
raccoglie da tutte le genti. In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei
credenti che, attraverso i sacramenti, si uniscono in modo arcano e reale a
lui sofferente e glorioso”[30]. Il
Catechismo della Chiesa Cattolica afferma a sua volta: “Questo
disegno divino di salvezza attraverso la messa a morte del «Servo Giusto» era
stato anticipatamente annunziato nelle Scritture come un mistero di
redenzione universale, cioè di riscatto che libera gli uomini dalla schiavitù
del peccato. San Paolo professa, in una confessione di fede che egli dice di
avere «ricevuto», che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture»
(1Cor 15,3). La morte redentrice di Gesù compie in
particolare la profezia del Servo sofferente”[31]. Conclusione 11.
La teologia nasce dall’obbedienza
all’impulso della verità che tende a comunicarsi e dell’amore che desidera
conoscere sempre meglio colui che ama, cioè Dio stesso, la cui bontà
riconosciamo grazie alla Fede[32]. Perciò la riflessione teologica
non può aver altra origine se non La
verità rivelata da Dio stesso in Gesù Cristo, e trasmessa dalla Chiesa,
costituisce dunque il principio ultimo e normativo della teologia[34], e nessun’altra
istanza può superarla. Riferendosi a questa sorgente perenne, la teologia è
fonte di autentica novità e di luce per gli uomini di buona volontà. Perciò
la ricerca teologica offre frutti tanto più
abbondanti e maturi, per il bene di tutto il popolo di Dio e di tutta l’umanità,
quanto più si inserisce nella viva corrente che, grazie all’azione dello
Spirito Santo, procede dagli Apostoli e si è arricchita mediante la
riflessione credente delle generazioni che ci hanno preceduto. È lo Spirito
Santo che introduce Lo
scopo della presente Notificazione è quello di richiamare
all’attenzione di tutti i fedeli la fecondità di una riflessione teologica
che non teme di svilupparsi nel flusso vitale della Tradizione ecclesiale. Il
Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso dell’Udienza concessa al
sottoscritto Cardinal Prefetto il 13 ottobre Dato in Roma, nella sede della
Congregazione per William
Cardinale Levada Angelo
Amato S.D.B. [1] Cf. ad es. infra
al n. 6. [2]Cf. Concilio Vaticano II, Decr. Optatam totius, 16; Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 65: AAS 91 (1999), 5-88. [3] Cf. 1Tess 1,10; Fil 2,5-11; 1Cor 12,3; Rm
1,3-4; 10,9; Col 2,9, etc.. [4] Cf. i Concili di Nicea, DH 125;
Costantinopoli, DH 150; Efeso, DH 250-263; Calcedonia,
DH 301-302. [5] Cf. DH 252-263. [6] Concilio di Calcedonia, Symbolum Chalcedonense,
DH 301. [7] Pio XII, Lett. Enc.
Sempiternus Rex:
AAS 43 (1951), 638; DH 3905. [8] Concilio di Efeso, Anathematismi
Cyrilli Alex., DH
252. [9] Ibidem, DH 255. [10] 1Cor 12,3; Fil 2,11. [11] Cf. 1Cor 8,6. [12] Cf. Origene, In Mt. Hom., 14,7; Tertulliano, Adv. Marcionem, IV
8; Ilario di Poitiers, Comm. in Mt.
12,17. [13] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Redemptoris Missio, 16: AAS 83 (1991), 249-340. [14] Ibidem, 18. [15] Ibidem. [16] Ibidem, 5. [17] Congregazione per [18] Gv 6,46; cf.
anche Gv 1,18 [19] Cf. Mt
11,25-27; Lc 10,21-22. [20] Pio XII, Lett. Enc.
Mystici Corporis:
AAS 35 (1943) 230; DH 3812. [21] Giovanni Paolo II, Lett. Apost. Novo Millennio Ineunte,
26: AAS 93 (2001), 266-309. [22] Catechismo della Chiesa Cattolica, 473. [23] Catechismo della Chiesa Cattolica, 474. [24]Cf. ad es. Rm
3,25; 2Cor 5,21; 1Gv 2,2, etc.. [25] Cf. Mt
20,28. [26] Mc 14,24; cf. Mt 26,28; Lc 22,20. [27] Cf. Gv
13,15; 1Pt 2,21. [28] Concilio di Trento, Decr. De justificatione, DH 1522. [29] Ibidem, DH 1529; cf. DH
1560. [30] Concilio Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen
Gentium, 7. [31] Catechismo della Chiesa Cattolica, 601. [32] Congregazione per [33] Cf. ibidem.,
6. [34] Cf. ibidem.,
10. [35] Cf. Gv
16,13.
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