Nel linguaggio degli intellettuali odierni, soprattutto dei più giovani, sta facendosi
strada la consapevolezza di vivere in
un'epoca definita come postmoderna. Mentre la modernità era portatrice di un
modello «forte» connesso ad un progetto
di sviluppo sociale che vedeva l'uomo,
«emancipato» dalle sue radici religiose,
avviato verso un immancabile «progresso»
assicurato dalla scienza e dalla politica, la post-modernità si caratterizza per una
essenza «fluida», per la mancanza di
punti di riferimento precisi al di là di
un generico individualismo senza regole,
né progetti, né fini che vadano oltre il
soddisfacimento dei bisogni o dei desideri immediati dell'individuo stesso - come notava
recentemente anche Marcello Pera -,
considerati alla stregua di diritti da
far valere contro ogni «repressione».
L'individuo, peraltro, vive un'esistenza intrinsecamente frammentata e sovente contraddittoria, senza che però questo
costituisca un problema per i teorici
della post-modernità. Mentre, invece, lo
è.
Può essere forse persino consolante far coincidere la post-modernità con la fine delle grandi
ideologie che hanno segnato in modo
brutale, il secolo XX. Ciò non toglie,
tuttavia, che l'età in cui siamo rechi
in sé forme di ideologia o, se si vuole,
paradigmi più subdoli ma non meno oppressivi ed alienanti per l'uomo, che non di rado li
subisce senza esserne pienamente
consapevole. Alcune menti acute - e non
sembri strano se faccio riferimento
anche a Madre Teresa di Calcutta
(1910-1997) - hanno già da qualche decennio identificato una di tali sopravvivenze come
il male per eccellenza dei nostri tempi,
la solitudine, vale a dire la mancanza di quei legami sociali
che permetterebbero all'uomo, ad ogni
singolo uomo, di valorizzare ed
esprimere la parte migliore di sé.
Non sembra, tuttavia, che questo fenomeno, che sta accadendo sotto i nostri occhi, sia stato
finora studiato nella sua genesi e nel
suo divenire, quindi anche da un punto
di vista storico, in modo approfondito:
ci si limita, per lo più, o a una presa
d'atto in un'ottica individualistica, o ad una generica e retorica deprecazione di tono
moralistico, o alla proposta di rimedi -
la spinta alla cosiddetta «socializzazione»
- che in realtà non farebbero altro che
aggravare il male, visto che coincidono con
alcune delle tendenze che sono all'origine della post-modernità.
Non è questo il caso dello studioso britannico Matthew Fforde, docente di Storia della Cultura Inglese presso la Libera Università Maria Santissima
Assunta (LUMSA) di Roma.
Oltre che del saggio Conservatism
and Collectivism.
1886-1914, uscito a Edinburgo nel 1990, Fforde è autore di
una Storia della Gran Bretagna 1832-2002,
pubblicata da Laterza nel 1994 e ristampata
nel 2002. Subito dopo la laurea ad
Oxford, con una tesi sul partito
conservatore inglese fra il 1900 e il 1914,
nel 1985 lo studioso inglese si è trasferito a Roma per approfondire lo studio del cristianesimo
e degli effetti della modernità sulla
società europea.
Qui, nel contatto con ambienti cattolici, è
maturata, pochi anni dopo, la sua
conversione al cattolicesimo
romano.
Oltre a insegnare, collabora con L'Osservatore Romano, con diverse congregazioni vaticane e
con la Rai. Nel suo saggio (vedi in calce, NdR) Fforde parte dall'esame degli effetti della post-modernità
nel suo Paese natale, visto come un
laboratorio di quelle tendenze che
sembrano destinate ad imporsi anche
altrove, per elaborarne una critica di ispirazione cristiana - ma aperta a tutti coloro che
vedono l'uomo come un essere dotato di
un'anima o, almeno, aderiscono a certe verità
di base e optano per forme di
comportamento che promuovono l'autentico benessere spirituale interiore -, auspicando un'opera
di «guarigione», che ha come perno
essenziale l'insegnamento e l'opera di Gesù Cristo.
Secondo Fforde, la dinamica che
più caratterizza la post-modernità è
appunto il venire meno dei legami
sociali, fenomeno che egli definisce con il termine di «desocializzazione», la cui causa fondamentale è data dall'affermarsi di antropologie
materialistiche magari, a ben vedere,
non perfettamente sovrap-ponibili fra
loro ma che di fatto si alleano per
negare l'esistenza dell'anima e portano a vivere nell'indivi-dualismo egoistico e disgregatore
della «comunità».
Fforde le prende in esame una per una, designandole anche con qualche neologismo di sua
coniazione: - l'«umanismo», intendendo
con questo termine il credo di chi considera l'uomo come coronamento dell'universo senza Dio;
- il razionalismo di matrice illuministica;
- il «dirittismo», ossia la
convinzione, che ormai sembra dilagare,
secondo cui l'uomo dovrebbe essere
considerato esclusivamente come portatore di diritti innati, i quali però - ed è questo, secondo
me, l'equivoco in cui cade larga parte
del mondo cattolico odierno - non sono
più collegati alla legge divina o
naturale ordinata da Dio, bensì a
determinati gruppi in cerca di affermazione perché si reputano oppressi - non a caso, commenta
ironicamente lo studioso inglese, non si
parla mai di «doveri innati» -;
- il «societarismo», per il
quale l'uomo va considerato come un
prodotto della società, concepita
impropriamente come una specie di entità con vita propria, definita quasi sempre in relazione
alla ricchezza e analizzabile e riprogettabile
razionalmente senza tener conto delle persone reali - ed è a questo filone che si può ascrivere
il marxismo, tuttora operante come
tendenza intellettuale anche in
Occidente -;
- l'economicismo”, in cui l'uomo è un essere
impegnato principalmente in uno sforzo
costante per procurarsi risorse
economiche;
- il «poterismo», secondo il
quale l'uomo è principalmente l'espressione
di una pulsione interiore per ottenere potere;
- l'”animalismo”, ove l'uomo è il mero risultato di
una evoluzione biologica;
- il «sessualismo», nel quale
l'uomo è visto in funzione esclusiva
della sua sessualità;
- il «fisiologismo», interessato
all'uomo come influenzato esclusivamente
dalla propria costituzione fisica;
- il «sentimentismo», per cui
sono i modi in cui l'uomo «sente», in
senso lato, a determinarne atteggiamenti
e credenze;
- lo «psichismo», che vede
l'uomo influenzato da una misteriosa
«psiche» in maniera in parte conscia e in
parte inconscia.
Tutte queste antropologie materialistiche - che vanno a formare quello che chiama il «paradigma
materialista» - sarebbero contraddittorie fra di loro, ma ciò non viene notato, perché hanno
in comune l'attacco alla visione
cristiana dell'uomo, quella per cui esso
è dotato di un'anima creata da Dio, Uno
e Trino, che lo porta all'«amore all'amore» ed all'«amore alla verità», come efficacemente
si esprime Fforde.
Questo attacco le ha portate ad intersecarsi nel processo di scristianizzazione
che ha investito l'Europa a partire
soprattutto dal secolo XIX e di cui egli
mostra esempi riferiti alla Gran Bretagna,
in particolare in rapporto alla vita sociale e politica ed alla scuola, che ancora, sino
alla seconda metà dell'Ottocento, erano
impregnate del retaggio cristiano.
Illustri uomini politici inglesi, come William Ewart Gladstone (1809-1898) e Robert Gascoyne di Salisbury (1830-1903) ritenevano ancora di dover
fare riferimento a come il loro operato
sarebbe stato giudicato dal
Signore.
Il venir meno del legame personale fra cittadini e amministratori con la nascita di partiti e
sindacati di massa - Fforde
critica anche il sistema bipartitico inglese
-, l'espansione dei poteri di uno Stato
centra-lizzato e burocratico, dunque anonimo,
l'affermarsi anche nell'arte e nella letteratura di tendenze carat-terizzate
dall'esaltazione dell'anormale e del
perverso, hanno prodotto come risultato
finale la società di massa, composta di
individui isolati - Fforde usa l'efficace
immagine dei «puntini» -, anche perché ritenuti tutti «uguali», e deresponsabilizzati, di fatto
appunto «desocializzati».
Le comunità, in primis la famiglia - vista come un rifugio sicuro durante l'Ottocento -,
che assicuravano nei rapporti
interpersonali la pratica e
l'apprendimento delle virtù, attraversano una grave crisi, mentre viene apertamente esaltato uno
stile di vita praticamente imperniato su
quelli che una volta si chiamavano vizi - ma, osserva Fforde,
oggi anche il linguaggio è distorto, per
cui nessuno osa più nominare i
vizi.
Il tutto avviene in un clima di relativismo assoluto, nel
quale ogni affermazione deve essere seguita dalla postilla «secondo me» e non esistono regole assolute per giudicare alcunché, pena l'essere
accusati di intolleranza: ne consegue,
appunto, la frammentazione delle
relazioni umane.
Per inciso, lo studioso inglese rifiuta inoltre di parlare di «valori», perché gli sembra che anche questo termine sia connesso al
relativismo.
Fforde descrive magistralmente come il relativismo si sia affermato sfruttando un certo
retaggio protestante e poi,
abusivamente, il pensiero democratico e
l'amore per la libertà; ha buon gioco
nel mostrare come siano proprio i sostenitori del relativismo ad essere intolleranti,
nonché incoerenti, col proprio postulato
secondo cui non esisterebbe verità.
L'attacco alla verità è accompagnato dall'attacco all'amore, portato dai sostenitori della conflittualità al-l'interno
della società: i membri della «nuova sinistra», particolarmente
impegnati ad occupare posizioni di
«potere» nel mondo delle università e
dei mezzi di comunicazione di massa -
dove la loro prevalenza è schiacciante, mentre non lo è rispetto alla società tutta intera, come
è verificabile nell'analisi dei
risultati delle elezioni politiche - e
sostenitori di una «politica culturale» contraria spesso al senso comune
tradizionale; oppure i
sostenitori del «mercato» visto come meccanismo autosufficiente, privo
di rapporto con altre dimensioni
spirituali della vita umana.
Questi due gruppi si ritrovano di fatto alleati in diverse occasioni nello sforzo di cancellare
ogni modo di vita non
materialistico.
Molto vulnerabili a questo attacco all'amore sono coloro che più avrebbero bisogno di amore, i
bambini, i vecchi e i malati, dei quali
si è arrivati a compiere o quanto meno a
caldeggiare, a determinate condizioni,
l'eliminazione.
Degna di nota è anche la
considerazione che il rifiuto della sofferenza che oggi si vede proclamato, oltre
all'emarginazione di chi soffre, si
oppone a quell'ammaestramento derivante dal dolore che già alcuni saggi pre-cristiani avevano apprezzato come componente della salute spirituale.
Questo vero e proprio pervertimento dell'uomo, che lo studioso descrive minuziosamente nelle sue
cause e conseguenze, anche riguardo alla
vita quotidiana, si afferma grazie a
quella che egli chiama «deculturazione»,
cioè il processo di depauperamento ed
impoverimento del patrimonio culturale - quindi di costumi, di modi di vita e di comportamento -
che caratterizza ormai la società
britannica e, in prospettiva, quella dei
Paesi occidentali - un ruolo
determinante in questo decadimento è svolto dall'«americanizzazione».
I rapporti interpersonali ne risultano impediti gravemente e ciò che era frutto di una
tradizione accumulata nel corso dei
secoli - Fforde cita più volte il filosofo inglese del secolo XVIII Edmund Burke (1729-1797) - viene eliminato, senza poter essere sostituito.
Pregio notevolissimo del lavoro di Fforde
è la descrizione di come le tendenze
post-moderne conducano una vera e
propria lotta senza quartiere contro le
«anime sane», cioè contro coloro che
ancora si ostinano a non uniformarsi
allo stile di vita dominante perché ne
vedono il male intrinseco o, comunque,
la vanità e dunque ne costituiscono una
smentita vivente.
Li si contesta continuamente, anche da parte delle persone a loro più vicine, li si ostacola per
invidia e risentimento, li si fa sentire
anormali - proprio loro che sarebbero
veramente normali! - e si tradisce la
loro fiducia, sino a gettarli nello
scoraggiamento, ad isolarli e a condannarli alla frustrazione, dato che una manifestazione
della sanità spirituale è il desiderio
di costruire rapporti interpersonali
autentici.
Il lavoro dello studioso britannico si conclude con una nota di speranza, in vista della «nuova
evangelizzazione», cui anch'egli fa riferimento, citando Papa Giovanni Paolo II (1920;
1978-2005), e nella quale include la «cura dell'anima», che dovrebbe rimediare ai danni morali causati
della post-modernità.
Per tale grande scopo, osserva Fforde,
«è necessario avere sempre un'idea molto
chiara di quello che dobbiamo
affrontare. [...] Ci dovremo impegnare in un
Kulturkampf mirato ad estirpare il pensiero e
la pratica del paradigma materialista;
dovremo ripudiare l'affermarsi di
modelli umani, sociali e universali come
quelli che si sono radicati negli ultimi secoli; dovremo ricacciare indietro i demoni e
sacrificare ben più di una vacca sacra
post-moderna. [...] In futuro dovremo
essere costantemente pronti e impegnati
in una salvaguardia culturale» (pp.
364-365).
Non vorrei essere troppo pessimista, ma mi sembra che manchi siffatta consapevolezza non solo -
e la cosa non stupisce - fra i
cosiddetti «intellettuali» italiani, spesso attardati su parole
d'ordine ispirate ad un edonismo
sessantottesco sostanzialmente nichilistico, ma persino all'interno di larga parte del cosiddetto mondo
cattolico, ancora preoccupato di
mostrarsi «moderno» e, quindi,
non pienamente consapevole dei guasti
della post-modernità attuale,
nell'illusione intellettualistica di una
autonomia delle realtà terrene che
dovrebbero poi forse essere, magari sotto
il segno di una ambigua «pace», cristianamente ispirate in modo «laico» e addirittura «adulto», come si dice, ma che, affidandosi ai citati paradigmi interpretativi materialistici,
paradossalmente prescinde dall'esame
della realtà quale essa è e proprio per
questo, non riuscendo a cogliere quale
sia il vero nemico, non dà vero aiuto a chi soffre e non promuove il vero bene. Vedremo se il volume di Mathew
Fforde segnerà
l'inizio di una netta inversione di tendenza.
Luca Pignataro
Identitanazionale.it [8.7.2005] http://66.71.184.34/rece_7028.php
MATTHEW
FFORDE, Desocializzazione. La crisi
della post-modernità,
Cantagalli, Siena 2005,
pp. 387.