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Intervista a Giuliano Ferrara (13 luglio 2006)

Intervista a Giuliano Ferrara (13 luglio 2006)

 
Laici conformisti, la bioetica vi spiazza

 

di Francesco Ognibene

 

 

 

Quando dalle colonne del Foglio iniziò a chiedere col suo piglio provocatoriamente energico se l’embrione fosse «qualcosa» o «qualcuno», chi lo conosceva capì subito come sarebbe andata a finire: Giuliano Ferrara la battaglia sulla "questione bioetica" l’avrebbe combattuta sino in fondo, senza sconti intellettuali.


Dal giorno in cui è vita ha fatto capolino per la prima volta dal cuore di Avvenire (13 febbraio 2005), 100 numeri fa, si è così trovato più di una volta in buona compagnia ad argomentare sui grandi nodi della bioetica. Un anno e mezzo dopo, Ferrara – che si dichiara lettore attento del quotidiano dei cattolici, è vita incluso – parla ormai da veterano della bioetica. Veterano, non certo reduce.



Direttore, a un certo punto nella vita degli italiani sono spuntati i grandi temi della bioetica...

 


«Per me non è stata una sorpresa: la bioetica fa parte della mia vita intellettuale e anche militante. Nel 1986 lavorando al Corriere della Sera come opinionista fronteggiai le notizie sulla pillola Ru 486, da poco nata. Lo feci in due articoli che suscitarono scalpore perché vi esprimevo una posizione eccentrica rispetto a un giornale rigorosamente laico. Scrivevo quello che scrivo ancora oggi sulla banalizzazione dell’aborto, l’isolamento della donna, il divorzio tra modernità e vita che mi pareva sotteso a quello che veniva proposto come un simbolo ingannevole della libertà femminile. In tutte le persone sanamente conservatrici in realtà il tema della bioetica è presente da tempo. Gli inganni ideologici sulla libertà e la salute della donna, su tecno-scienza e vita sono all’opera da molto tempo».

 

 
Cos’è cambiato con l’affiorare della "questione bioetica" nel dibattito pubblico?

 


«Ragionare sulle frontiere della vita vuol dire riflettere su tutto, e questo ha un impatto dirompente sullo status quo: la ragione è chiamata a misurarsi con lo sguardo del cuore, e dall’interno della stessa razionalità nasce l’esigenza di una battaglia a favore dell’essere umano e dell’umanità dell’essere, battaglia che ha una natura intimamente religiosa».

 

Quanto ha pesato la campagna referendaria nell’affermarsi di una coscienza sui temi della vita?

 


«Il referendum è stato un fatto che forse non abbiamo saputo comunicare sufficientemente bene all’Europa e al mondo, dove su temi come la vita e la famiglia si coltiva dell’Italia una visione caricaturale. L’Italia invece è un Paese dove per la prima volta è stata messa ai voti una questione sulla quale concezioni che divinizzano il desiderio e lo trasformano in un diritto ne fronteggiavano altre – le nostre – che assolutizzano un dovere verso l’umanità della persona e lo trasformano in un freno, un limite. L’abbiamo fatto in nome di valori non barbarici, medioevali, feroci, come ci hanno accusato i nostri interlocutori, ma altamente laici. Sì, anche la Chiesa ha funzionato da agenzia di valori laici, cioè di tutti, ponendo un problema che riguarda chiunque. Questa battaglia è stata persino vinta, cosa per molti tuttora imperdonabile. E adesso la reazione è furente».



Quali segnali vede?

 


«Sono ad esempio molto preoccupato dall’idea che per il nuovo Comitato nazionale di bioetica si possa provvedere a nomine dettate da scelte radicalmente laiciste. Se la legge fa cultura, il Comitato è l’organo istituzionale che legittima le scelte da fare. Vedo avanzare l’idea di impostarne il lavoro sostituendo al dialogo tra identità forti la mediazione diplomatica. Ma non accetterò mai che si trattino con indifferenza filosofica, morale e – per chi ci crede – anche religiosa le grandi questioni della bioetica. Le posizioni di chi caldeggia questa soluzione dispongono già di infinite tribune, che però nel caso dei referendum si sono rivelate senza popolo».



Si sente ripetere ancora che la bioetica sarebbe una battaglia "cattolica". Perché lei invece la considera "laica"?

 


«Perché, specie in Italia, dovrebbe unire tutti i laici consapevoli del senso dei tempi che stiamo vivendo. Invece vedo in giro molti laici conformisti, abbandonati alla corrente che riconosce a una scienza in sé dispotica tutte le risorse per controllarsi e correggersi, senza alcuna vigilanza sociale, filosofica o morale. Sono quei laici che giochicchiano da irresponsabili con la vita e la sessualità, con istituzioni plurimillenarie come il matrimonio e la famiglia, e così facendo stendono una patina di conformismo sull’insieme della vita sociale. Ma non sono "laici": sono i moderni, i neosecolaristi, coloro che accettano lo status quo e si scavano una nicchia per cercare di non ostacolare il vento dominante. I laici veri invece mettono in discussione le certezze e allo stesso tempo sanno che chi si è posto il problema della verità non può essere considerato un fanatico ma un interlocutore che propone argomenti ai quali rispondere».



Tutto questo dibattere di bioetica allora ha permesso di mettere a nudo un difetto di laicità nel nostro Paese?

 


«Sicuramente. Era per esempio puro fanatismo ideologico un certo approdo inerte del femminismo. Abbiamo invece scoperto che ci sono molte donne capaci di attaccare l’idolo della nostra epoca: che cioè attorno alla liberazione della donna si possa costruire una teoria dei diritti che in realtà avvilisce il suo corpo, nuoce alla sua salute, e negando la specificità femminile (tutt’altro che "arcaica") compromette l’equilibrio della società. Ci sono tratti peculiari e differenze che un femminismo più maturo – laicamente in dissenso con il femminismo ideologico – sa di dover comprendere, rispettare e custodire proprio in nome di valori che fino all’esplodere della questione bioetica erano considerati "retrogradi"».



C’è stata una sorta di accelerazione del dibattito culturale causata dal confronto sulle grandi questioni della vita?

 


«Di fronte alla noia devastante di una politica che non riesce a uscire dalla transizione, la bioetica ha dato una spinta formidabile. La discussione pubblica si è spostata di colpo molto più avanti, verso temi che interessano davvero la vita della gente. L’affacciarsi improvviso della domanda attorno al fatto che l’embrione sia qualcuno o qualcosa ha fatto sì che gli italiani per una volta abbiano dovuto preoccuparsi di una questione vera, sentendo che era necessario metterla a tema, capire, discutere, costruirsi un giudizio».



A volte è sembrato che spuntasse una nuova ideologia su base tecno-scientifica. Che idea di uomo va

 affermando?

 


«Un’idea nichilista, priva non solo di un contenuto positivo ma, nella sua sostanziale indifferenza, persino di uno negativo. L’unico contenuto pare essere la libertà di fare ciò che più aggrada. Ed è davvero un pensiero povero, auto-indulgente, perché nega persino lo spazio al peccato disegnando un mondo irenistico dove tutti fanno quello che vogliono e non si preoccupano delle conseguenze».



E i mass media come si comportano?

 


«Con qualche eccezione, il circuito mediatico è politicamente, ideologicamente, filosoficamente, spiritualmente corretto: dal profondo del suo cuore non sgorga più da tempo un solo grido "scorretto", capace cioè di instillare dubbi. Si legge quello che già si sa, con una sostanziale incapacità di comprendere il nuovo».

 

Cosa ci attende ora?

 


«Mi sono messo il cuore in pace: avendo fatto molte esperienze, ho capito che le cose importanti vanno costruite, devono circolare, penetrare profondamente. È il lavoro certosino, quotidiano, paziente di dire sempre la cosa che si ritiene giusta, senza superbia né presunzione, sapendo usare un linguaggio accogliente e rispettoso. Bisogna possedere, esporre e mettere a disposizione di tutti una posizione rigorosa e insieme variamente argomentata, facendo capire che le cose, se le chiamiamo col loro nome, non significano quello che la cultura dominante vuol far credere. Non esiste pluralismo e democrazia se è negata la possibilità di vivere e battersi perché le proprie idee diventino socialmente produttive di un modo di vita veramente umano».

 

 

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