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Rivelazione

 

Rivelazione

 

Dal latino rivelare, togliere il velo, ma­nifestare. Nel linguaggio teologico significa l'insieme di atti con cui Dio, per mezzo dei profeti, di Gesù Cristo, degli apostoli, ha manifestato se stesso, la sua volontà, il suo piano di salvezza agli uomini. “Rivelazione» significa a un tempo la condizione per la possibilità della fede (in Dio e in Gesù Cri­sto) e la totalità della fede cristiana, e può essere inteso a ragione come “concetto teo­logico trascendentale„ (H. Fries).

Per i cristiani la rivelazione abbraccia due grandi fasi: quella dell'antico Patto (Alleanza) e quella del nuovo. Nell'antico Patto Dio si ri­vela al popolo eletto, Israele. Il suo nucleo principale è costituito dalla Legge e dai Pro­feti: la Legge con cui il popolo eletto cono­sce i propri doveri verso Jahvè; i Profeti i quali richiamano Israele alla sua fedeltà a Dio e preannunciano l'avvento del Messia. Nel nuovo Patto la rivelazione di Dio diviene comple­ta, in quanto lui stesso, assumendo in Gesù di Nazaret la forma umana, si rende personalmente manifesto. Essendo Dio, Cristo è autenticamente il Rivelatore. Egli non è sol­tanto l'annunciatore profetico della Parola di Dio, ma la stessa «Parola di Dio» (incar­nata) (Col 1, 25‑27; Gv I, 1‑18), l'intera sua storia è la storia del “sì ” irrevocabile di Dio all’umanità (2 Cor 1, 19). Egli non è soltanto colui che compie segni e miracoli, ma lo stesso «segno di salvezza» di Dio (Lc 2, 34), o il «mistero di Dio» nascosto, che ora è sta­to rivelato (Col 1. 24‑29; Ef 1, 8‑12); non è soltanto il maestro di sapienza, ma la stessa Sapienza di Dio» (Mt 11, 16‑19; I Cor 21. 24. 3b).

La prima riflessione teologica intorno al concetto di rivelazione è già in atto in Ireneo, Cle­mente Alessandrino e Origene. Nel contesto antignostico che oppone A. T. e N. T., Ire­neo sottolinea l'unità della storia della sal­vezza. Dì conseguenza il tema della rivelazione si ri­collega al tema più ampio dell'azione del Verbo di Dio, a un tempo creatore e salva­tore. Lo stesso Dio realizza, nel suo unico Verbo, un solo piano di salvezza dalla crea­zione alla visione. Sotto la guida del Verbo l'umanità nasce, cresce e muore fino alla pienezza dei tempi (Adversus Haereses IV, 38, 3). Clemente Alessandrino costruisce il suo imponente sistema di pensiero sul Logos salvatore e rivelatore. “Il volto del Padre è il Logos in cui Dio è messo in luce e rivelato”, (Pedagogo 1. 57; .Stromati VII, 58, 3‑4). Due sono i canali che hanno preparato la piena rivelazione del Logos: la filosofia per i gentili e la legge mosaica per i giudei: .Ciò che la legge è sta­to per i giudei, la filosofia lo è stato a sua volta per i Gentili fino alla venuta di Cristo” (Stremati VI. 17). Con l'avvento del Logos, in persona tanto la legge quanto la filosofia passano al servizio della fede. Ora è il Logos incarnato che ci insegna come l’uomo possa diventare figlio di Dio: è lui il Pedagogo uni­versale che riunisce legge, profeti e filosofia. Ormai “siamo diventati scolari di Dio: è il suo stesso Figlio che ci dà un’ìstruzione dav­vero santa» (Stromati 1, 98). Origene elabo­ra anch'egli una riflessione sulla rivelazione a partire dal Logos, immagine fedele del Padre. “Ve­diamo nel Verbo che è Dio e immagine di Dio invisibile, il Padre che l’ha generato” (Commento a Giovanni 32, 29). La rivelazione si compie perché il Verbo si incarna e, attra­verso l'incarnazione, cioè nella carne del corpo e delle Scritture, ci permette dì vedere il Padre invisibile e spirituale. L'incarnazio­ne del Logos, inaugura una nuova forma di conoscenza che oltrepassa il piano delle im­magini, delle ombre, della lettera e raggiun­ge il piano della realtà, della verità, dello spirito. In questo passaggio Origene sottoli­nea l'azione dello Spirito. E’ lo Spirito che conduce dal vangelo temporale al vangelo eterno.

Il momento interiore della rivelazione già sottoli­neato da Origene viene sistematicamente teorizzato da S. Agostino. Ciò che conta maggiormente nella rivelazione non è il verbo esterio­re ma il Verbo interiore. Ricevere le parole di Cristo, osserva Agostino, non vuol dire solo ascoltare esteriormente “con le orec­chie del corpo, ma dal profondo del cuore” come gli apostoli (Joan. tract. 106. 6). Agostino insiste: la parola ascoltata esteriormen­te non è niente se lo Spirito di Cristo non agisce interiormente per farci riconoscere, come parola a noi personalmente rivolta, la parola ascoltata: “Gesù Cristo è nostro mae­stro e la sua unzione ci istruisce. Se questa ispirazione e questa unzione fanno difetto, invano le parole risuonano alle nostre orec­chie» (In epist. Joan. 3, 13). Questa grazia è a un tempo attrazione e luce. Attrazione che sollecita le facoltà del desiderio, luce che fa vedere in Cristo la verità in persona. L'uo­mo riceve da Dio un duplice dono: quello del vangelo e quello della grazia per aderirvi nella fede (De gratia Christi I, 10, 11. In modo più universale Cristo, come Verbo di Dio, è l'unica luce dell'uomo, il principio di ogni conoscenza, sia naturale sia sopranna­turale, ed è l’unica via di salvezza. “Al di fuori di questa via che mai mancò al genere umano o preannunciata nel futuro o annuncìata nella realizzazione, nessuno giunse mai a liberazione, vi giunge o mai vi giungerà” (De civitate Dei, 10, 32).

Nel suo studio sulla rivelazione. S. Tommaso raccoglie i frutti dì tutta la speculazione precedente, dei Padri greci e latini, e degli Scolastici, ma situa la problematica nel nuovo contesto culturale: l'incontro del cristianesimo con il mondo arabo (islamico) e con la filosofia aristotelica, che proprio sulla questione del­la rivelazione andavano suscitando nuovi e spinosi in­terrogativi.

 

1. CONCETTO DI RIVELAZIONE

 

S. Tommaso dà al termine «revelatio» un signifi­cato in cui domina il fattore conoscitivo: è una nuova luce ‑ gratuita, soprannaturale, donata dallo Spirito Santo ‑ che tocca immediatamente la ragione (la facoltà conosciti­-va, non i sentimenti, il cuore, la fantasia ecc.), a cui spalanca l'orizzonte di nuove e insospettate verità, che possono essere di ordine sia naturale sia soprannaturale. La rivelazione non è una nuova facoltà né un nuovo habitus che viene ad affiancarsi alle facoltà e agli ha­bitus che l’uomo già naturalmente possiede: neppure è semplicemente un'operazione di­vina, bensì l'effetto di una speciale azione di Dio, che S. Tommaso paragona continuamente al­l'azione del sole: come il sole con la sua luce rende visibili le cose materiali, così Dio facendo dono all'intelletto di questa luce, gli spalanca la visione di verità che prima gli erano inaccessibili e invisibili. Al sole mate­riale ‑ scrive l'Angelico ‑ illumina esternamente; mentre il sole spirituale, che è Dio, illumina internamente. Perciò anche la luce naturale posta da Dio nell'anima è una luce divina. mediante la quale Dio ci illumina nel conoscere le cose che rientrano nella cono­ scienza naturale. Però per questo non si richiede una nuova illuminazione: ma solo per ciò che sorpassa la conoscenza naturale (...). L'intelletto umano ha una sua luce intellet­tuale (intelligibile lumen) che è di per sé suf­ficiente a conoscere alcuni intelligibìli (veri­tà): vale a dire quelle realtà di cui possiamo formarci un'idea mediante le cose sensibili. Ma l'intelletto non può conoscere le realtà intelligibili superiori, senza una luce più forte (fortiori lumine). come potrebbe essere una luce della fede oppure il lume profetico (lumine fidei vel prophetiae), che è detta an­che “luce della grazia” (lumen gratiae) perché viene ad aggiungersi a quella della natu­ra” (I‑II. q. 109, a. 1 c ad 2). Come si può notare già nel testo appena citata, S. Tommaso per designare l'effetto dell'azione speciale con cui il sole di Dio svela alla mente nuove verità ricorre a varie espressioni, che però hanno in comune il termine lumen: lume più forte (fortius lumen), lume della fede (lumen fidei), lume della grazia (lumen gra­tiae), lume della rivelazione (lumen revela­tionis), lume gratuito (lumen gratuitum) (cfr. oltre a I‑II, q. 109, a. 1: I. q. 1, a. 1, ad 2; 1, q. 88, a. 3, ad 1; De Ver., q. 14, a. 10).

Per lumen (luce) S. Tommaso intende “ciò che rende manifesto quanto prima era occulto e invisibile” (I, q. 67, a. 1). Ora, mentre già col lume naturale (lumen rationis) l'uomo può raggiungere un ampio orizzonte di veri­tà, col nuovo lume, lo sguardo della sua mente sì può spingere molto più lontano: verso il futuro (e allora si ha propriamente il lumen prophetiae) o in profondità (e allora si ha il lumen fidei). L'effetto del lumen revela­tionis è comunque sempre quello di svelare nuove realtà e nuove verità.

Da quanto siamo andati esponendo ri­sulta che la rivelazione ‑ secondo il concetto tomistico ‑ riguarda anzitutto la dimensione soggetti­va: è il potenziamento della facoltà conosci­tiva, il potenziamento del suo sguardo: è un vedere nuovo che fa vedere oggetti nuovi. È, come dice bene l'Angelico, non tanto l'offerta di nuovi oggetti o di nuove verità bensì un aiuto straordinario, una grazia con­cessa all'intelletto; “ora per il nostro intel­letto questa luce intellettuale non è l'oggetto conosciuto, ma soltanto il mezzo per cono­scere” (ipsum lumen intelletcus nostri non se habet ad intellectum nostrum sana quod in­telligitur, sed sicut quo intelligitur) (I, q. 88, a. 3, ad 1).

La rivelazione è eminentemente azione di Dio e lo è in modo specialissimo. Infatti pur apparte­nendo a Dio l'iniziativa (è la causa principa­le) di tutto quanto accade in questo mondo e di quanto succede nel corso della storia, tut­tavia la rivelazione gli appartiene in modo singolaris­simo in quanto fa parte di un piano speciale, straordinario, il piano della grazia che è il piano della storia della salvezza. Pertanto la rivelazione è azione speciale dello Spirito Santo (I‑II, q. 109, a. 1, ad 1). Considerata nel suo versante attivo la rivelazione è l'azione con cui Dio, libe­ramente e gratuitamente, offre all'uomo le verità necessarie e utili al conseguimento della salvezza soprannaturale. Appartengo­no al rivelato (revelatum) quelle conoscenze su Dio inaccessibili alla ragione e che di con­seguenza possono essere conosciute solo tra­mite la rivelazione Appartengono al rivelabile (reve­labile) quelle conoscenze che di per sé non sorpassano la capacità della ragione, ma che Dio ha rivelato in quanto utili all'opera della salvezza, e perché la maggior parte degli uo­mini, lasciati a loro stessi, non arriverebbe mai a conoscerle: di fatto anche queste veri­tà fanno parte del corpo della rivelazione (cfr, I, q. 1, a. 3, ad 2).

 

2. NECESSITA’ DELLA RIVELAZIONE

 

      La rivelazione è ovviamente necessaria per l'ordi­ne soprannaturale, perché quest'ordine è, per definizione, quell'ordine che l’uomo può riconoscere e a cui può accedere soltanto per dono assolutamente e totalmente gratui­to di Dio. Ma secondo S. Tommaso, che su questo punto riprende l'insegnamento oltre che di S. Agostino anche dell'ebreo Mosè Maimo­nide, la rivelazione è necessaria altresì per dare mag­giore solidità all'ordine naturale. Su questo argomento S. Tommaso si è espressa chiaramente e fermamente in numerose occasioni. Qui può bastare una sola citazione che riprendiamo dalla II‑II, q. 2, a. 4. Al quesito: “Se sia ne­cessario credere anche a verità che si posso­no dimostrare con la ragione naturale”, l'Angelico dà la seguente risposta: “Era ne­cessario che l'uomo accettasse per fede non soltanto le verità divine che superano la ra­gione, ma anche quelle che sono conoscibili con la ragione naturale”. E questo per tre motivi: 1) Perché l'uomo possa raggiungere più presto la conoscenza delle verità divine. Infatti la scienza che ha il compito di dimo­strare che Dio esiste e altre tesi riguardanti Dio, è l'ultima in ordine didattico, presup­ponendone molte altre. E quindi l'uomo non raggiungerebbe la conoscenza di Dio se non dopo molti anni di vita. 2) Perché la co­noscenza di Dio sia più estesa. Infatti molti non possano progredire nello studio o per la scarsità di ingegno o per le altre occupazioni e necessità della vita temporale oppure per la svogliatezza nell'apprendere. Costoro verrebbero del tutto privati della conoscen­za di Dio, se le verità divine non venissero loro proposte per fede. 3) A motivo della certezza. Infatti la ragione umana è molto manchevole nelle cose divine: ne abbiamo un indizio nel fatto che i filosofi, pur avendo indagato a fondo le cose umane con l'inve­stigazione naturale, hanno sbagliato qui in molte cose e non si sono trovati d'accordo tra di loro. Perciò affinché la conoscenza dì Dio fosse indubitata e certa presso gli uomini, era necessario che le cose divine venissero proposte per fede, proclamate cioè da Dio stesso (quasi a Deo dicta), che non può ingannare” (cfr. anche I, q. 1, a. 1; I Sent, prol, a, 1; III Sent., d. 24, q. 3, q. 1; C. G., I, c. 4; De Ver., q. 14, a. 10; In De Trin., lect. I, q. 1, a. 1).

Come s'è detto, questo secondo gruppo di verità rivelate, che di per sé sono già ac­cessibili alla ragione, non fanno parte del re­velatum ma del revelabile. Nel Commento alle Sentenze S. Tommaso dice che le prime appar­tengono alla fede per se (essenzialmente) le seconde per accidens (accidentalmente). “La fede si riferisce a qualche cosa in due modi, per se oppure per accidens. Nel primo caso (per se) si tratta di verità che apparten­gono alla fede sempre e ovunque (semper et ubique). Nel secondo caso (per accidens) ap­partengono alla fede di determinate perso­ne. Pertanto, verità relative a Dio che supe­rano assolutamente la capacità dell'intellet­to umano e che ci sono state rivelate, appar­tengono essenzialmente (per se) alla fede; invece ciò che supera soltanto l'intelligenza di questa o quella persona ma non di tutti gli uomini, non appartiene alla fede essenzial­mente ma soltanto accidentalmente» (III Sent., d. 24, q. 1, a. 2, sol. 2).

 

3. LE GRANDI TAPPE DELLA STORIA DELLA RIVELAZIONE

 

La rivelazione divina è avvenuta attraverso suc­cessivi interventi di Dio, mediante i quali è diventata sempre più esplicita sia la dottrina sulla divinità stessa sia il suo disegno salvifi­co che doveva raggiungere il momento con­clusivo con l'incarnazione del Verbo di Dio. S. Tommaso prendendo come punto di riferimento il traguardo finale della rivelazione, l'Incarnazione, scandisce la storia stessa della rivelazione in tre grandi epoche: l'epoca prima del peccato, l'epoca dell'Antica Alleanza e l'epoca della Nuova alleanza. “La via per cui gli uomini possono raggiungere la beatitudine è il mistero della incarnazione e della passione di Cristo; poi­ché sta scritto: “Non c'è alcun altro nome dato agli uomini, dal quale possiamo aspet­tarci d'essere salvati” (At 4, 12). Perciò era necessario che il mistero della incarnazione di Cristo in qualche modo fosse creduto da tutti in tutti i tempi: però diversamente se­condo le diversità dei tempi e delle persone. 1) Infatti prima del peccato l'uomo ebbe la fede esplicita dell'incarnazione di Cristo in quanto questa era ordinata alla pienezza della gloria; ma non in quanto era ordinata a liberare dal peccato con la passione e con la risurrezione; perché l'uomo non prevedeva il suo peccato (...). 2) Dopo il peccato, poi, il mistero di Cristo fu creduto esplicitamente non solo per l'incarnazione, ma anche ri­spetto alla passione e alla risurrezione, con le quali l'umanità viene liberata dal peccato e dalla morte. Altrimenti gli antichi non avrebbero prefigurato la passione di Cristo con dei sacrifici, sia prima sia dopo la pro­mulgazione della Legge (...). Inoltre, gli an­tichi conobbero le cose che si riferivano al mistero di Cristo tanto più distintamente, quanto più furono vicini al Cristo. 3) Final­mente, dopo la rivelazione della grazia, tan­to i maggiorenti (dotti) quanto i semplici so­no tenuti ad avere la fede esplicita dei miste­ri di Cristo e specialmente di quelli che sono oggetto delle solennità della Chiesa e che vengono pubblicamente proposti come gli articoli sull'Incarnazione» (II‑II, q. 2, a. 7; cfr. I‑II, q. 103, a. 3).

Secondo S. Tommaso, nelle singole epoche la più perfetta manifestazione divina è stata quella che si è verificata in colui che l'ha inaugurata: “Nelle singole ere la prima rive­lazione fu la più eccellente» (II‑II, q. 174, a. 6). La rivelazione si è svolta secondo una economia discendente e gerarchica, che trae origine dalle gerarchie celesti e discende fino ai pro­feti e agli apostoli e per mezzo di essi, a tutti gli altri uomini (II‑II, q. 2, a. 6). Però, come s'è detto, il progresso della rivelazione non è av­venuto omogeneamente al succedersi dei tempi: infatti il mistero di Dio si è rivelato si in modo sostanzialmente progressivo, però sempre più pienamente in colui nel quale Dio inaugurava una nuova era di salvezza: Abramo, Mosè, Gesù Cristo. “Nel periodo precedente alla Legge la prima rivelazione è stata fatta ad Abramo, quando gli uomini cominciarono a perdere la fede nell'unico vero Dio, cadendo nell'idolatria (...) Isacco ricevette una rivelazione meno importante, fondata quasi sulla rivelazione fatta ad Abramo (...). Parimenti, nel periodo della Legge, la prima rivelazione, cioè quella fatta a Mosè, fu la più importante (fuit excellen­tior): e su di essa è fondata ogni altra rivela­zione dei Profeti. Così pure nel tempo della grazia tutta la fede della Chiesa è fondata sulla rivelazione della unità e Trinità di Dio fatta agli apostoli (...). Rispetto poi alla fede nell'incarnazione di Cristo è noto che quan­to più i credenti furono vicini al Cristo, sia prima che dopo, tanto più furono istruiti su questo in maniera più perfetta. Però più per­fettamente dopo che prima, come insegna l'Apostolo” (II‑II, q. 174, a. 6).

La rivelazione di Cristo è l'ultima, la perfetta nel senso pieno della parola. Non vi saranno nell'ordine della rivelazione ulteriori esplicitazioni per mezzo di altri interventi divini (II‑II, q. 174, a. 6, ad 3); vi sarà solo approfondimen­to ed esplicitazione da parte della Chiesa (II‑II, q. 1, a. 10). S. Tommaso mette in rilievo mol­to frequentemente il fatto che la pienezza della rivelazione si è avuta nel Cristo. Lui è la stessa Luce (lumen) che risplende nelle tenebre e rende manifesta la verità: Christus est ipsum Lumen comprehendens, immo ipsum lumen existens. Et ideo Christus perfecte te­stimonium perhibet et perfecte manifestat ve­ritatem” (In Ioan., c. 1, lect 4). Egli ha reso testimonianza alla verità, con la sua umani­tà, con le sue opere (III, q. 401, a. 1), con le azioni della sua vita che manifestano i vari aspetti del mistero della salvezza (cfr. III, q. 36, a. 3, ad 1; q. 44, a. 3, ad 1; q. 45, a. 4, ad 2; q. 53, a. 1). Sapienza eterna di Dio, egli è il principio della nostra sapienza (In Ioan., c. 1, lect. 1); la radice e la sorgente di ogni conoscenza (ibid., c. 17, lect. 6). Egli è il primo e principale dottore della fede (pri­mus et principalis doctor fidei) (III, q. 7, a. 7), il dottore dei dottori (doctor doctorum). A differenza degli altri maestri umani, egli insegna sia dal di fuori sia all'interno dello spirito. Nel corso della sua vita, prima di af­fidare agli apostoli la missione di evangeliz­zare il mondo, li ha istruiti (III, q. 42, a. 1, ad 1); a essi ha dato il suo spirito (In Ioan., c. 17, lect 6), il quale manifestò a essi il sen­so della sua dottrina, in modo che potessero a loro volta illuminare gli altri uomini (ibid., ­c. 12, lect. 8).

L'insieme delle verità che Dio ci ha rive­lato per mezzo dì Cristo e degli Apostoli è “l’insegnamento secondo la rivelazione”, al quale si dà anche il nome di “sacra dottrina” (I, q. 1, a. 1). La sua custodia è affidata alla Chiesa. La maggior parte degli uomini ha accesso alla rivelazione solo in modo media­to, attraverso la predicazione della Chiesa. Dio ci aiuta a credere con un triplice inter­vento: con la predicazione esteriore, con i miracoli che conferiscono credibilità a tale predicazione e anche “con un'attrazione in­teriore che non è altro se non un'ispirazione dello Spirito mediante la quale l'uomo è spinto a dare il suo consenso a ciò che è og­getto di fede (...). Questa attrazione è ne­cessaria, poiché il nostro cuore non si rivol­gerebbe a Dio se Dio stesso non ci attirasse a sé” (In Ep. ad Rom., c. 8. lect. 6; cfr. II‑II, q. 2, a. 9). L'appello interiore della grazia è la “testimonianza” della “verità prima che il­lumina e istruisce l'uomo interiormente” (Quodl., II, q. 4, a. 6, ad 3). Viene quindi fatto un duplice dono all'uomo: il dono della dottrina della salvezza, mediante la rivelazione, e il dono della grazia per accoglierlo nella fede.

 

4. RIVELAZIONE E TEOLOGIA

 

Tutto ciò che Dio ha reso noto all'uomo mediante la rivelazione forma l'oggetto della teolo­gia. Questa non ha altro oggetto che ciò che è stato svelato all'intelligenza mediante il lu­men revelations, Grazie a tale oggetto la teologia sì distingue non solo specificamente ma genericamente (ossia appartiene a un ra­mo del sapere totalmente diverso) da qual­siasi altra scienza compresa la teologia filo­sofica. Infatti alla diversità di principi o di punti di vista causa la diversità delle scienze. Una stessa conclusione scientifica poi dimostrarla sia un astronomo sia un fisico. Per es. la rotondità della terra; ma l'astronomo par­te da criteri matematici, cioè fa astrazione dalle qualità stesse della materia; il fisico in­vece la dimostra mediante la concretezza stessa della materia. Quindi niente impedi­sce che delle stesse cose di cui tratta la filo­sofia con i suoi lumi di ragione naturale (co­gnoscibilia lumen naturalis rationis), tratti anche un'altra scienza che proceda alla luce della rivelazione (quae cognoscuntur lumine divinae revelationis). Perciò quella teologia di cui si occupa la sacra dottrina (theologia quae ad sacram doctrinam pertinet) differi­sce secondo il genere (differt secundum ge­nus) dalla teologia che rientra nelle discipli­ne filosofiche” (I, q. 1, a. 1, ad 2).

La rivelazione non è soltanto l'oggetto e, perciò, la fonte principale, sostanziale e fondamen­tale della scienza teologica, ma è anche l'au­torità primaria e suprema a cui fa appello in ogni sua argomentazione. “Argomentare per autorità è particolarmente proprio di questo insegnamento (doctrina) per il fatto che esso deriva i suoi principi dalla rivelazio­ne (principia huius doctrinae per revelatio­nem habentur). Né questo deroga alla digni­tà della sacra dottrina, perché sebbene l'ar­gomemo di autorità umana sia il più debole di tutti, l'argomento dì autorità fondato sul­la rivelazione divina è il più forte (locus ta­men ab auctoritate quae fundatur super reve­latione divina, est efficacissimus (I, q. 1, a. 8, ad 2).

R. Latourelle, grande autorità sul tema specifico della rivelazione, formula il seguente giudi­zio a proposito della dottrina di S. Tommaso in que­sto campo: “Nell'epoca medioevale Tom­maso rappresenta il punto di maturità della grande scolastica nella sua riflessione circa il tema della rivelazione. Dopo di lui non tro­viamo in altri teologi prospettive più ampie dì quelle che egli ha sviluppato, anche se non si può pretendere di trovare in lui una teologia della rivelazione nell'attuale senso del termine. Nei secoli successivi, fino ai no­stri giorni, la terminologia si farà più preci­sa, più tecnica, ma la riflessione non guada­gnerà granché in profondità”.

 

(Vedi:  FEDE, TEOLOGIA, PROFEZIA, SALVEZZA, RELIGIONE)

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        Battista Mondin.

        Dizionario enciclopedico del pensiero di S. Tommaso D'Aquino,

        Edizioni Studio Domenicano, Bologna.

 

 

 

 

 

 

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