Bibbia a fumetti - Castigat ridendo mores - da Astrologia a Vita Sociale il dizionario dei problemi dell'uomo moderno

 

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NOI SIAMO LO STUPORE DI DIO

 

A Charles Péguy *

 

NOI SIAMO LO STUPORE DI DIO

 

Caro Péguy,

 

          il tuo spirito entusiastico, hi passione di suscitatore e condottiero d’anime, mi sono sempre piaciute; meno certe tue ridondanze letterarie ora amare, ora ironiche, ora eccessiva­mente appassionate nella battaglia condotta contro gli uomini erranti del tuo tempo.

Nelle tue pagine religiose c’è qualche tratto poeticamente (non dico teologicamente) felice: là, dove introduci Dio a parlare della speranza, per esempio.

La fede degli uomini non mi stupisce, dice Dio, non è cosa sorprendente: io ri­splendo talmente nella mia creazione, che per non vedermi, questa povera gente dovrebb’esser cieca.

La carità degli uomini non mi stupisce, dice Dio, non è cosa sorprendente: queste povere creature sono cosI infelici, che, se non hanno un cuore di sasso, non possono che aver amore le une per le altre. La speranza, ecco quello che mi stu­pisce!

          D’accordo con te, caro Péguy, che la speranza stupisce. D’accordo con Dante ch’essa è uno at­tender certo. D’accordo su ciò che la Bibbia rac­conta di coloro che sperano.

Abramo non sapeva proprio perché Dio gli avesse ordinato di uccidere l’unico figlio; non ve­deva da dove, morto Isacco, potesse venire la po­sterità numerosa che gli era stata promessa, eppure attendeva con certezza.

Davide, avanzando contro Golia, sapeva be­nissimo che cinque sassi, pur lanciati da una mano espertissima di fonda, erano troppo poco di fronte ad un gigante bardato di ferro. Eppure attendeva con certezza e intimava al colosso blindato: Vengo da parte di Dio. Tra poco ti spiccherò la testa dal busto!

Pregando con i Salmi, anch’io, caro Péguy, mi sento trasformato in uomo che attende con certezza:

Dio è la mia luce e la mia salvezza, di chi temerà?... Anche se si accampa contro di me un esercito, non temerà il mio cuore. Anche se si leva contro di me la battaglia, anche allora io sono fiducioso!

 

***

          Come sbagliano, Péguy, quelli che non spera­no! Giuda ha fatto un grosso sproposito il giorno in cui vendette Cristo per trenta denari, ma ne ha fatto uno molto più grosso quando pensò che il suo peccato fosse troppo grande per essere perdo­nato. Nessun peccato è troppo grande: una mise­ria finita, per quanto enorme, potrà sempre essere coperta da una misericordia infinita.

         E non è mai troppo tardi: Dio non solo si chiama Padre, ma Padre del figliol prodigo, che ci scorge quando siamo ancora lontano, che si inte­nerisce e, correndo, viene a gettarsi al nostro collo e a baciarci teneramente.

         E non deve spaventare un eventuale passato burrascoso. Le burrasche, che furono male nel pas­sato, diventano bene nel presente se spingono a rimediare, a cambiare; diventano gioiello, se do­nate a Dio per procurargli la consolazione di per­donarle.

        Il Vangelo ricorda tra gli antenati di Gesù quattro donne, di cui tre non del tutto commenda­bili: Rahab aveva fatto la cortigiana; Thamar ave­va avuto il figlio Phares da suo suocero Giuda e Betsabea era stata adultera con Davide. Mistero di umiltà che queste parenti siano state accettate da Cristo, che siano incluse nella sua genealogia, ma anche, opino, in mano di Dio, mezzo per poterci assicurare: voi potete diventare dei santi,

qualunque siano la storia della vostra famiglia, il temperamento e il sangue ereditato, la vostra si­tuazione passata!

       Caro Péguy, sarebbe però sbagliato attendere, rimandare di continuo. Chi si mette sulla strada del poi sbocca nella strada del mai. Conosco qual­cuno, che sembra fare della vita una perpetua "sala d’aspetto". Vengono e partono i treni e lui: "Par­tirò un’altra volta! Mi confesserò in fin di vita! ". Del "prode Anselmo" diceva il Visconti-Venosta:

 

"Passa un giorno, passa l’altro

mai non torna il prode Anselmo".

 

Qui abbiamo il rovescio: un Anselmo che mai non parte.

          La cosa non è senza rischio. Supponi, caro Péguy, che i Cinesi stiano invadendo l’Italia e avan­zino distruggendo e ammazzando. Tutti scappano: gli aerei, le auto, i treni sono presi d’assalto. "Vie­ni!, grido io all’Anselmo, c’è ancora un posto sul treno, sali subito!". E lui: "Ma è proprio cer­to che i Cinesi mi faranno fuori, se resto qui?". "Certo no, potrebbero risparmiarti, potrebbe an­che darsi che, prima del loro arrivo, passasse un altro treno. Ma sono possibilità lontane e si tratta della vita. Aspettare ancora è imperdonabile im­prudenza! ".

"Non mi potrò convertire anche più tardi?". "Certo, ma sarà forse più difficile di adesso: i peccati ripetuti diventano abitudini e catene, ch’è più difficile rompere. Adesso, subito, per favore! ".

 

***

        Tu lo sai, Péguy. L’attendere si basa sulla bontà di Dio, che traluce specialmente nel com­portamento di Cristo, chiamato nel Vangelo "ami­co dei peccatori". Quale sia la dimensione di que­sta amicizia è noto: perduta una pecora, il Signore va in cerca fin che la trova: trovatala, se la pone tutto lieto sulle spalle, la riporta a casa e dice a tutti: Vi sarà più grande gioia in cielo per un solo peccatore che si pente che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza.

La Samaritana, l’adultera, Zaccheo, il ladrone crocifisso a destra, il paralitico e noi stessi siamo stati cercati, ritrovati, trattati così. E questo è un altro stupore!

***

Ma ce n’è un altro ancora: l’attender certo della gloria futura, come dice ancora Dante. Fa stu­pore quella certezza messa accanto alla futurità, cioè alla lontananza sfumata. Eppure questa è, Péguy, la situazione di noi speranti.

Ci troviamo sulla linea di Abramo, che, avuta da Dio la promessa di un paese fertilissimo, obbe­dì e "partì, dice la Bibbia, senza sapere dove andasse", ma sicuro lo stesso e abbandonato a Dio.

         Ci troviamo nello stato descritto da Giovanni evan­gelista: "Già da adesso noi siamo figli di Dio, ma ciò che noi saremo non è stato ancora manifestato". Ci troviamo, come il Napoleone manzoniano, "av­viati pei floridi sentier de la speranza", anche se non conosciamo bene la regione in cui i sentieri sboccano.

La conosciamo almeno vagamente? O farne­ticava Dante, quando tentò di descriverla come luce, amore e letizia? "Luce intellettuale", perché la nostra mente vedrà lassù chiarissimamente quel­lo che quaggiù aveva intravisto appena: Dio. "Amor di vero bene", perché i beni che amiamo qui sono un bene, goccioline, briciole, frammenti di bene, mentre Dio è il bene. "Letizia che tra­scende ogni dolore", perché non c’è paragone tra quella e le dolcezze di questo mondo.

Concorda Agostino, che chiama Dio "bellez­za sempre antica e sempre nuova". Concorda Man­zoni: lassù... "è silenzio e tenebra la gloria che passò". Concorda Isaia nel famoso dialogo: "Gri­da! - Che cosa griderò? - Grida così: Ogni uomo è come erba e tutta la sua gloria è come fiore del campo. Si secca l’erba ed appassisce il fiore! ".

Con questi grandi concordiamo anche noi, ca­ro Péguy. Qualcuno ci chiamerà "alienati" poetiz­zanti e non pratici? Noi risponderemo: Siamo i figli della speranza, lo stupore di Dio!

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* CHARLES PIERRE PEGUY, scrittore francese (1873-1914). Cattolico fervente, morì in combattimento a Villeroy nel 1914. Direttore dei Cahiers de la Quinzaine, autore di vasti poemi religiosi, fra i quali Il mistero della carità di Giovanna d’Arco. Fece delle sue opere uno strumento di testimonianza e di speranza cristiana.

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