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LA MUSICA

 

A Casella Musico *



LA MUSICA DELLA RICONCILIAZIONE

 

                    Caro musico e amico di Dante,

 

               quello che hai raccontato a Dante alle falde della montagna del Purgatorio sta per rinnovarsi. Vedendoti sbarcare alla spiaggia dell’Antipurgato­rio, nella Pasqua del 1300, Dante si meraviglia forte: "Casella mio, è un pezzo che sei morto: co­me mai sei ancora qui, non ancora ammesso a quel Purgatorio, cui pure sei stato assegnato?".

                   E tu: "E’ una storia lunga. Devi sapere che le anime purganti, appena staccate dal corpo, si ra­dunano tutte in una specie di stazione ‘Pre-purga­torio’ cioè ad Ostia, alla foce del Tevere. Là, un angelo nocchiero approda colla barca e carica chi gli piace e quando gli piace, conforme ai decreti di Dio. Io mi son presentato a lui più volte, ma inva­no. Per fortuna, da tre mesi,  da quando cioè papa Bonifacio VIII ha proclamato il Giubileo, l’Angelo imbarca tutti quelli che vogliono salire; è una bazza, un tempo di larghezza e di gran miseri­cordia; ne ho approfittato anch’io e son qui".

***

                  Al posto di papa Bonifacio c’è oggi papa Paolo.

               Anch’egli, caro Casella, indice un Giubileo, sia pure in condizioni un po’ diverse da quelle del 1300. Il tuo papa Bonifacio aveva alle spalle una tradizione piuttosto incerta; aveva si sentito dire di altri passati Giubilei, ma le investigazioni da lui promosse in proposito non avevano approdato a gran che.

               Un vecchio savoiardo di 107 anni raccontò che, fanciullo settenne, era venuto a Roma nel 1200 con il proprio padre e che questi si era fatto pro­mettere dal figlio di tornare nella città eterna, per beneficiare di indulgenze straordinarie, se fosse an­cor vivo tra cent’anni (!); altri due vegliardi di Beauvais dissero che un secolo prima era stata lar­gita un’indulgenza plenaria.

               Tradizione o non tradizione, papa Bonifacio, rispondendo al desiderio di molti, si decise, firmò Ia sua famosa Bolla e Si ebbe un Giubileo clamoroso: l’Europa intera nell’anno 1300 sembrò darsi con­vegno a Roma.


               Vi si confluì in folla, a piedi, a cavallo, trasci­nando sui carri i vecchi e gli infermi. Le basiliche dei santi Pietro e Paolo rimasero aperte di notte e di giorno. Gli stessi Cardinali, di buon mattino fa­cevano le trenta visite prescritte per i romani di Roma; le ragazze, che a quei tempi rimaneva­no sempre chiuse in casa, compivano le visite di notte, sotto scorta fidata.

               Tra i pellegrini illustri, caro Casella, ci furono i tuoi conterranei toscani Dante, Giotto e Giovanni Villani. Quest’ultimo trasse dal pellegrinaggio, ce lo confida lui stesso, l’ispirazione a scrivere la storia della sua Firenze e tornô a casa con la fan­tasia piena degli spettacoli contemplati a Roma. Fu, scrive, la più mirabile cosa che mai si vedesse, che al continuo in tutto l’anno durante, aveva in Roma oltre al popolo romano, duecentomi­la pellegrini, senza quegli ch’erano per gli cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti di vettovaglia giustamente, cosI i cavalli come le persone, e con molta pazienza e senza rumori o zuf­fe; ed io il posso testimoniare che vi fui presente e vidi. E dell’offerta fatta per gli pellegrini motto te­soro ne crebbe alla Chiesa, e i Romani per le loro derrate furono fatti ricchi" (Cronaca VIII, 36).

               A differenza di Bonifacio VIII, Paolo VI ha alle spalle una "tradizione giubilare" ormai lunga. La scadenza stabilita da Bonifacio e fissata nel mot­to "Annus centenus - Romae semper est jubilenus" (a Roma l’anno centesimo è sempre giubilare), fu presto cambiata: Giubileo ogni cinquant’anni e poi ogni venticinque, affinché, chi volesse, almeno una volta in vita potesse approfittare di questa grande grazia.

               E man mano che Si venne avanti nei secoli, si progredì sia per i mezzi di trasporto, sia per il numero dei romei: treni, automobili, aerei potero­no portare a Roma ben altro che i due milioni di pellegrini del 1300.

               Tuttavia, lo crederesti?, anche nel Giubileo del 1950 furono ben diecimila i pellegrini isolati venuti a Roma a , in bicicletta, a cavallo, in canoa, su carrozzelle per invalidi o trascinate da cani, su barelle da infermi muniti di ruote.

               Silvio Negro cita il giovane Kurt Herming Drake, studente finlandese, partito da Helsinki in luglio e arrivato a Roma in novembre. Il barone Tritz don Gumpenberg, di 29 anni, quasi cieco, venne da solo a piedi dal suo castello di Poltmes, presso Monaco, e fece a piedi anche il ritorno, pas­sando questa volta per Padova per devozione a san­t’Antonio.

               Al suddetto Giubileo Pio XII aveva fissato un tema: "Gran perdono - gran ritorno". Paolo VI, invece, lancia il Giubileo col motto: "Riconcilia­zione!". Riconciliazione tra noi e Dio, tra noi e i nostri fratelli, sul piano personale e sui piano so­ciale.

               Un tema, un motto, che è tutto una musica e che tu Casella, se fossi qui, canteresti dolcemente come cantasti a Dante, che serbava del tuo canto un ricordo nostalgico Si che, diceva, "la dolcezza ancor dentro mi suona".

***

              Vera musica è il riconciliarsi con Dio e l’ab­bandonare la strada storta, larga e spaziosa, che conduce alla perdizione. Su questa strada passano a galoppo tutte le passioni umane cavalcate da quei cavalli d’Apocalisse, che hanno nome: brama e in­gordigia esagerata, mai sazia di piaceri, di denaro e di onori. Chi cammina su di essa non può trovarsi bene.

              Il grande Tolstoi ha scritto di un cavallo, che, a mezzo della discesa, s’impunta e si ribella, dicen­do: "Sono stufo di tirare la carrozza e di obbedire al cocchiere; mi fermo!". Padronissimo di farlo, ma pagherà salato. Da quel momento, infatti, tutti si mettono contro di lui: il cocchiere che lo frusta, la carrozza che va a sbattergli nelle gambe, i passeg­geri che, nella carrozza, urlano ed imprecano.

              E’ così. Quando ci mettiamo nella strada stor­ta e ci impuntiamo contro Dio, rovesciamo l’ordine, rompiamo il patto di alleanza col Signore, rinuncia­mo al suo amore, ci irritiamo contro noi stessi, scon­tenti di ciò che abbiamo combinato e rosicchiati dal rimorso.

              Caro Casella, è vero, qualcuno dice che le musiche si cantano e suonano benissimo anche sulla strada storta, respinge sdegnosamente la storiella di Tolstoi e afferma che nel peccato egli si sente più libero che mai. Io mi permetto di contraddirlo con due sole parole: “padrone” e “malattia”.

              Si, il peccato diventa, volere o no, il padrone del peccatore. Può darsi che dapprima gli faccia complimenti e carezze, ma il peccatore resta suo schiavo e presto o tardi assaggerà il suo bastone.

               Quanto a “malattia”, ce n’è di due specie: ignote e palesi. Una piaga viva e lancinante fa ma­le, ma almeno si sa che esiste e si cerca di curarla. Metti invece un tumore nascosto: ingrandisce, si propaga, tu non sai, tu ti illudi e assicuri gli amici di star benone: improvvisamente ecco la metastasi, l’irreparabile. E’ il caso di chi è carico di peccati e afferma di non averli e di non sentirli. Invece: avere un proprio bagaglio di peccati, ma sentirne il peso, decidere di cambiar strada sul serio, capovol­gersi sul serio, gettarsi sul serio nelle braccia di Dio, quale musica, Casella mio!

 

***

                  Musica è anche la riconciliazione di noi coi fratelli.

              Ai tuoi tempi c’erano le lotte tra Guelfi e Ghi­bellini, tra Bianchi e Neri, tra Montecchi e Cappel­letti, Monaldi e Filippeschi e non so quante altre fazioni. Il tuo amico Dante, sconsolato e amaro, scriveva:


 


               "Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,

               Monaldi e Filippeschi...

               vieni a veder la gente quanto s’ama!...

               Chè le città d’Italia tutte piene

               son di tiranni, e un Marcel diventa

               ogni villan che parteggiando viene".

 

               Oggi, caro Casella, succede lo stesso: tiranni esclusi, si vedono blocchi contro blocchi, nazioni contro nazioni, partiti contro partiti, correnti con­tro correnti, privati contro privati.

               Spesso si legge di attentati, di aerei dirottati, di banche assaltate, di bombe lanciate a bella posta per fare strage di inermi e di innocenti. Focolai di disordine sorgono un po’ dappertutto; si proclama la rivoluzione come unico rimedio ai mali della so­cietà e si educa la gioventù alla violenza.

               In mezzo a tutta questa confusione anarcoide e dissennata, davvero che la riconciliazione rein­staurata tra gli uomini sarebbe la musica la più desiderata e necessaria. Ad essa il Giubileo vuole portare un forte contributo con questa dinamica: "Riconciliatevi prima con Dio, rinnovando il vo­stro cuore, mettendo amore dove c’è odio, serenità dove c’è ira, desideri moderati ed onesti dove c’è cupidigia sfrenata.

                  Una volta rinnovati e cambiati al di dentro guardate fuori con altro occhio e troverete un mon­do diverso".

               E’ curioso infatti, caro Casella, come lo stesso mondo, con le stessissime cose, con gli stessi am­bienti e con gli stessi abitanti possa diventare com­pletamente diverso solo che, colla riconciliazione, vi si introduca l’amore e la pace, che dianzi man­cavano.

               Lo dice il caso di quel generale coreano, che tu, esperto di armonie, capisci benissimo. Morto e giudicato, egli era stato assegnato al paradiso, ma, capitato davanti a san Pietro, gli venne un deside­rio e lo espresse: metter prima, per pochi minuti, il naso dentro la porta dell’inferno, cosi, solo per farsi un’idea di quel triste luogo. “Accontentato!” rispose san Pietro.

               Si affacciò dunque alla porta dell’inferno e vide un’immensa sala con tante, lunghe tavole. Su di queste erano posate tante scodelle di riso cotto, ben condito, profumato, invitante. I convitati eran lì seduti, pieni di fame, due davanti ad ogni sco­della, uno di fronte all’altro. Ma che? Per portare il riso alla bocca disponevano, alla maniera ci­nese, di due bastoncini, ma talmente lunghi che, per quanti sforzi facessero, neppure un grano di riso arrivava alla bocca. Qui era il supplizio, qui l’inferno. "Ho visto, mi basta!" disse il generale, ritornò alla porta del paradiso ed entrò.

               Stessa sala, stesse tavole, stesso riso, stessi ba­stoncini lunghi, ma i convitati erano allegri, si sor­ridevano e mangiavano. Perché? Perché ciascuno, colto il cibo coi bastoncini, lo porgeva alla bocca del compagno che gli stava di fronte e ci arrivava benissimo.

                  Il pensare agli altri, invece che a sé, risolveva il problema, trasformava l’inferno in paradiso.

               Favola vera, caro Casella. Più che a star bene, diceva Manzoni, bisognerebbe pensare a far bene chè allora si starebbe tutti meglio!

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  * CASELLA, amico caro di Dante. Nativo forse di Pistoia, fu valente compositore ed esecutore di musica. Musicò alcuni sonetti e canzoni di Dante, fra cui "Amor che nella mente mi ragiona". Della sua vita e morte poco si sa. Dante lo incontra nell’Antipurgato­rio mentre sta per essere traghettato nel Purgatorio: era la primavera del 1300 e da poco papa Bonifacio aveva indetto il Giubileo.

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Albino Lucani

Illustrissimi

Edizioni Messaggero - Padova

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