PERSONE
E PAROLE
SACHS
E L’OCCASIONE AMERICANA DELLE RETI GLOBALI
Cesare
Cavalleri
Bisognerebbe convincersi che il corteo, l'assemblea, da protesta
di piazza sono strumenti metodologicamente inadeguati per contrapporsi ad
“avversari” formidabili come la globalizzazione. E virgoletto “avversari”,
perché il problema è come gestire e rendere solidale un processo comunque inarrestabile e fondamentalmente positivo quale è
la globalizzazione.
Quando i no‑global sapranno
fare a meno dei telefonini, dei viaggi in aereo, delle automobili a benzina,
del computer portatile e di Internet, diventeranno
interlocutori credibili: fino a quel giorno non sapranno opporre alternative
valide alla globalizzazione e resteranno nel loro confuso ideario nichilista
che oggettivamente prelude alla violenza. Scendere in piazza per spaccare le
vetrine dei negozi e rovesciare le automobili in sosta non è una risposta
intelligente ai pericoli della globalizzazione.
Che
il capitalismo abbia in sé meccanismi autocorrettivi che vanno attivati dalle
istituzioni rappresentative nazionali e internazionali e non dagli slogan
urlati nei cortei è sobriamente illustrato da un articolo che Jeffrey Sachs,
professore di Harvard e direttore del Centre for International Developpement,
ha scritto recentemente sull’”Economist" e che me piace riassumere.
La tesi, tipica dell"'egoismo illuminato" neocapitalista, è che lo
sviluppo delle nazioni povere è vantaggioso anche per gli Stati ricchi, a
cominciare dagli Usa.
Sachs ricorda che come durante la
guerra fredda gli Stati Uniti investirono milioni di
dollari per arginare la diffusione del comunismo, oggi il loro principale
obiettivo di politica estera deve essere “assicurare che tutte le parti del
mondo, comprese le più povere, si integrino in reti globali economiche ed
ecologiche con reciproco vantaggio”.
La diplomazia tradizionale
giustamente si preoccupa dei rischi di conflitti tra le nazioni. Ma la dozzina di conflitti
esplosi in Africa negli ultimi anni non sono dovuti ad
aggressioni fra Stati, bensì a “implosione” degli Stati più poveri e in
bancarotta, il cui collasso ha provocato un vuoto che è stato riempito dalla
violenza incivile, spesso tracimato, nelle aree vicine.
La crisi in questi luoghi lontani
ha riguardato gli Stati Uniti anche sotto il profilo militare: dal
A parte le non certo trascurabili
ragioni umanitarie, la povertà e l'instabilità delle nazioni coinvolge
gli interessi americani non solo sul piano militare ma anche attraverso le
crisi finanziarie, il traffico di droga, il riciclaggio di denaro sporco, il
terrorismo, la diffusione di malattie come l’Aids, i flussi massicci di
rifugiati. Secondo
“Uno sviluppo economico sostenuto
a livello globale ‑ afferma Sachs - potrebbe
creare nuove e maggiori opportunità sia per il commercio, sia per la cooperazione
scientifica e culturale”. L'economista indica tre direttive per una politica di
sostegno: primo, identificare le aree in cui gli investimenti possono davvero
cambiare la situazione, e sono proprio le aree attualmente
più povere; secondo, occorre che gli Stati Uniti chiudano il loro decennale
conflitto con l'ONU e contribuiscano invece a irrobustire le istituzioni
internazionali; terzo, triplicare (almeno) gli investimenti americani per lo
sviluppo, che attualmente costituiscono solo lo 0,1 % del Prodotto nazionale
lordo. E conclude: “Cinquant'anni fa un militare, il
generale Marshall, spiegò ai suoi concittadini che l'aiuto finanziario
all'Europa avrebbe stabilizzato le società devastate dalla seconda guerra
mondiale e si sarebbe rivelato di reciproco vantaggio”. Oggi un nuovo piano
Marshall potrebbe essere attivato da un altro militare, il segretario di Stato
Colin Powell, “mobilitando la tecnologia e le finanze americane, private e
pubbliche, per la sviluppo dei Paesi più svantaggiati.
Il risultato sarebbe un mondo, con gli Stati Uniti, molto più
sicuro e prospero”. E gli italiani non di
memoria corta sanno che cosa ha significato il piano Marshall per lo sviluppo
del nostro Paese nel dopoguerra.
Da Avvenire, Mercoledì 5 Settembre 2001