Bibbia a fumetti - Castigat ridendo mores - da Astrologia a Vita Sociale il dizionario dei problemi dell'uomo moderno

 

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DICEMBRE 1999 RITIRI

     Ugo Borghello

 

La sfida dell’Amore

 

Perché essere cattolici fin da giovani

 

Presentazione del Cardinale Giacomo Biffi

 

                EDIZIONI ARES - MILANO

                 Giugno 2000

 

Copyright C 2000 Edizioni Ares

Via A. Stradivari, 7 – 220131 Milano

 

ISBN 88-8155-196-9

Prima edizione

 

Il nostro indirizzo Internet è:

http://www.ares.mi.it

 

La nostra e-mail è

aresed@ttin.it

 

La e-mail dell’autore di questo libro è:

ugoborghello@yahoo.it

 

Imprimatur: + Claudio Stagni

Vescovo Ausiliare, Vicario Generale

Bologna, 19 giugno 2000

 

 

PRESENTAZIONE

 

 

Non è impresa facile sottrarsi a quella sorte di frenesia inconcludente che affligge, e quasi assimila nei suoi più vari aspetti, la vita dei nostri tempi, per tanti versi così frammentaria.

Fermarsi a riflettere su sé stessi, accogliendo in pienezza la grazia e la responsabilità del proprio essere uomini, rischia di divenire, di conseguenza, più arduo ancora che in passato; e saranno in grado di farlo ormai solo quei temerari che osino sfidare i dogmi aridi e vuoti che così spesso vengono enunciati da molti «profeti del niente».

Oggi come in ogni tempo, tuttavia, chiunque si accinga a intraprendere onestamente un cammino di questo genere dovrà rendersi conto presto di come non sia possibile negare, né eludere, il problema della salvezza.

Il bisogno di essere salvati, infatti, è una realtà che ogni creatura umana reca impressa, nel profondo del proprio essere, come un marchio incancellabile. Tutti abbiamo bisogno di essere salvati dal male, che ci assedia dall’esterno ma di cui pure scopriamo radici dentro di noi; di essere salvati dalla paura, dall’incertezza, dalla menzogna. E c’è in ciascuno un’urgenza lancinante di essere salvati da quell’insignificanza – vivente e angoscioso presagio della morte, che tutto sembra vanificare senza riparo – che è capace di avvelenare ogni più nobile sforzo, ogni più appagante risultato, ogni più faticosa crescita, ogni anèlito alla bellezza.

Il problema della salvezza è il problema della verità e del senso; ed è veramente, secondo un’espressione che ricorre in questo libro, «un problema abissale di amore».

Parole che suscitano, nell’animo di chi è uso alla preghiera della Chiesa, l’eco di quelle del Salmo 42, «Abyssus abyssum invocat»: «un abisso chiama l’abisso». La profondità della creatura, mistero a sé stessa, invoca, col proprio semplice esistere, un abisso infinito capace di colmarla di senso. Grida la sua sostanziale, drammatica indigenza; e grida, insieme, la sua inesausta speranza, nella consapevolezza innata che solo l’amore può essere risposta compiuta e definitiva al suo appello.

Il dono e la fortuna del credente è di sapere che la risposta alla preghiera che si eleva, più o meno cosciente, dall’uomo e dalla storia, è venuta: in Gesù Cristo, l’unico necessario Salvatore.

Ed è una risposta universale, che vale per tutti gli uomini e per tutti i tempi, e per ogni tempo della vita di ogni uomo: risposta, nel senso più pieno del termine, veramente «cattolica».

Una risposta che nei giovani può trovare destinatari privilegiati; perché Cristo, presentato nella sua meravigliosa perfezione di uomo e nel suo totalizzante mistero divino, è ancora e sempre il grande fascinatore dei cuori, che proprio nel cuore dei giovani, non ancora chiuso e indurito dalle esperienze amare del mondo, sa destare le risonanze più prodigiose e sorprendenti.

Per questo, ogni opera che si proponga di aiutare i giovani a realizzare l’incontro con Cristo, o a prendere coscienza con gioia e con legittima fierezza della grazia inestimabile e delle conseguenze vitali dell’incontro con lui già avvenuto, merita considerazione e incoraggiamento.

È l’incoraggiamento che desidero esprimere all’Autore di queste pagine, insieme con la mia gratitudine di pastore e coll’augurio più cordiale che la passione, che da ognuna di esse traspare, per la salvezza dei giovani e per il loro Salvatore, sia ricompensata da una messe copiosa di frutti.

 

 

Bologna 22 giugno 2000

 

 + Giacomo Card. Biffi

 

 Arcivescovo di Bologna

 

Premessa

 

 

Il titolo e il sottotitolo, con le sue serene provocazioni, saranno ripresi alla fine.

In questo libro si propone un modo nuovo di porsi di fronte alla fede, partendo dal vissuto quotidiano scandagliato in profondità e dalle domande segrete presenti in tutti noi. Spesso il Vangelo non illumina perché lo si interroga con domande sbagliate, ignorando le vere domande del cuore. Dare risposte a chi non si pone domande è come seminare pietre.

Guardiamoci intorno: quanti slanci giovanili meritevoli di un futuro pieno di speranza rischiano di soffocare nel vuoto nichilistico della cultura imperante? Non è facile a un giovane dare uno sguardo panoramico alla miriade di speranze, di filosofie, di promesse proposte lungo la storia, soprattutto recente, per accorgersi che sono tutte passate di moda e non sempre in modo indenne per gli uomini. Perché ci sono tante convinzioni diverse, che regolano la vita e il destino degli uomini? Ognuno è convinto di pensare bene, eppure se ha ragione lui tutti gli altri sbagliano. C’è dietro un immenso problema di amore che ha bisogno di essere «salvato», sanato da una sorgente pura, per farci vivere autenticamente i nostri aneliti, altrimenti genera sofferenze per sé e per gli altri.

C’è stato un uomo (le prove storiche sono al di sopra di ogni scientifico sospetto), il figlio di un falegname mediorientale, che si è posto proprio come fonte innocente di un amore salvifico, fiume di acqua viva che disseta per la vita eterna. Ha detto cose inaudite: «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo» (Gv 7, 46), cose che nessun uomo sano e sensato può pronunciare. E ha sconvolto la storia. Il figlio di un falegname che diceva di essere figlio di Dio e si fece crocifiggere a causa dell’ostinazione con cui sosteneva tutto ciò. Un povero pazzo, un girovago che pagò con la morte la sua follia. Oppure no?

Studiando i problemi abissali di amore che ci condizionano, le parole di Gesù diventano vera luce di vita. La fede dona nuovi orizzonti divini, ma allo stesso tempo illumina i grandi problemi dell’uomo. Nel nostro tempo diventa sempre più opportuno, oltre a studiare la Scrittura, studiare l’uomo per capire la bellezza della risposta rivelata. Qualcuno ha fatto notare che la parola di Gesù è bella al di sopra di ogni bellezza umana, e da questo la ragione è indotta a credere che Gesù è il Figlio di Dio.

 

Studieremo tre passaggi necessari di cui prendere coscienza per decidere bene della propria vita: Innanzitutto cogliere la natura del male che ci affligge – dell’inganno, del disagio – come problema abissale di amore. In secondo luogo scoprire l’autenticità dell’amore di Gesù Cristo, unico in tutta la storia dell’umanità. Infine, il dono dell’amore, che salva il nostro cuore e i nostri rapporti umani, dobbiamo vederlo in parte realizzato sulla terra, con legami nuovi. L’amore agisce solo in quanto crea legami forti, non basta pensarlo e neppure basta il sentimento.

«Gesù Cristo? Un uomo che ha molto futuro», rispondeva un giornalista inglese in un’intervista. Se si riesce a pensare al futuro, non è difficile intuire che soltanto Gesù Cristo può sostenere i nostri legami di amore in una prospettiva che si apre all’eternità. Ma non senza la Chiesa.

 

 

Capitolo i

 

UN PROBLEMA ABISSALE DI AMORE

 

 

Tempo fa ho conosciuto uno studente universitario. Era prossimo alla laurea. Fu facile entrare in simpatia. Tanto da potergli chiedere: «tu preghi?». La risposta, che a parer suo avrebbe dovuto essere disarmante, fu spontanea: «perché dovrei pregare? Ho ventiquattro anni, sto per laurearmi brillantemente. Ho la fidanzata, tanti amici, faccio sport, posso chiedere i soldi di cui ho bisogno ai genitori. Mi dice lei perché dovrei pregare?». «Dovrò partire un po’ da lontano» – mi venne da rispondere –, «ti ci vorrà pazienza e apertura di cuore, disponibilità a cambiare parere e vita. La preghiera è il canto dell’anima, canto triste o gioioso, “canto nuovo” nella fede cristiana, ma non puoi capire il bisogno di pregare se non conosci il labirinto del tuo cuore».

Tanti invece sono venuti dal sacerdote perché affranti, insicuri, a volte disperati. Li riassume bene Kierkegaard, in La ripetizione: «Sono allo stremo. La vita mi disgusta, è insapore, senza sale né senso. Fossi affamato più di Pierrot, non mi andrebbe ugualmente d’ingoiare la spiegazione offerta dagli uomini. Dove sto? Che cosa vuol dire: il mondo? Perché non mi hanno interpellato? perché non mi hanno istruito su regole e costumi, invece d’intrupparmi quasi che fossi stato comperato da un mercante di mozzi? Come sono diventato socio della grande impresa che chiamano realtà? Perché devo essere socio? Non è facoltativo? E se devo esserci costretto, dov’è allora il direttore? Dove devo rivolgermi con il mio reclamo? Dopo tutto, la vita è un dibattito; posso chiedere che il mio parere venga inserito nell’ordine del giorno? Se bisogna prendere la vita com’è, non sarebbe meglio stabilire com’è?». Sembrano parole lontane dal primo esempio. In realtà le posizioni non sono molto distanti. Quel ragazzo infatti fu lasciato dalla fidanzata dopo cinque anni di fidanzamento, in vista del matrimonio, ed è caduto in prostrazione per un anno circa, con sentimenti simili a quelli descritti da Kierkegaard. La sua felicità dipendeva dal parere incerto di una ragazza.

 

L’esempio meno sbiadito che si possa dare del cielo, della salvezza, della felicità che tutti cercano, piena ed eterna, è il momento in cui erompe l’amore di un giovane per una giovane. In Spagna si dice: «mira como se contemplan!», guarda come si contemplano! La felicità vera rende estatici, ferma il tempo. Proprio quest’esempio ci permette di leggere in controluce l’abisso di angoscia che ogni persona cerca di attraversare su fragile passerella. E l’angoscia è l’esempio meno sbiadito della vita non salvata; potremmo anzi dire che è un anticipo dell’inferno, purché non si fraintenda: come non è detto che chi si innamora umanamente abbia il vero cielo nel cuore, così chi si angoscia non è certo per questo destinato alla perdizione. È solo una pista per giungere a capire che tutti noi siamo esposti all’angoscia e pertanto abbiamo tutti bisogno di salvezza, già sulla terra e per il destino eterno. Dice uno specialista dell’amore umano: «L’amore non corrisposto porta a un’esistenza tre le più disperate che si possano immaginare. La vita diventa una prigione, tutto svanisce e perde significato. La tristezza invade il cuore e vi prende dimora stabilmente. Non ci sono più progetti e speranze»[1]. Come si vede, sono sentimenti simili a quelli descritti da Kierkegaard.

Innamorarsi, essere lasciati: sorti diverse che non dipendono soltanto dalla nostra volontà. Entra in ballo la libertà e la volontà di un’altra persona, che non possiamo sottomettere per garantirci la felicità. Per questo, pur essendo creati per amori grandi, di fatto siamo esposti all’angoscia. E questo non vale soltanto per l’amore umano. I figli, gli amici per gli adolescenti e i giovani, il lavoro o le responsabilità sociali, danno un significato forte alla vita, ma sempre esposto alla libertà e volontà di altri. Se il legame si rompe, ecco che si precipita in un dolore sconvolgente. Una persona sicura di sé, che ha raggiunto tante mete e legami soddisfacenti, può crollare da un momento all’altro per una malattia grave, per un forte insuccesso sul lavoro, per una calunnia pubblica, perché lasciato dalla moglie, perché tradita dal marito, perché un figlio si droga, perché la fidanzata lo lascia senza che sappia bene il motivo, perché si logorano i rapporti all’interno del gruppo di riferimento esistenziale. Tutte cose che capitano o possono capitare (anche se non le augureremmo a nessuno!). Non le ricordo per spaventare, ma per aiutare a prendere coscienza di paure presenti anche se nascoste, che condizionano la vita e i rapporti umani. Solo chi sa guardare nel proprio cuore senza paura può intravedere i rischi e le speranze della vita e può aspirare a una felicità reale, che inizia sulla terra e riguarda tutti.

 

Per capire perché e in che modo Gesù Cristo è l’unico salvatore del mondo occorre innanzitutto capire perché dobbiamo essere salvati. Diamo alla parola «salvezza» il significato più pieno: che non riguarda soltanto la vita eterna (significato principale), ma anche la responsabilità che tutti abbiamo verso la salvezza degli altri, verso l’amore autentico quaggiù nella storia, verso una vita sempre più degna dell’uomo, salvata dal male, salvata dall’egoismo umano, salvata dagli inganni terribili che causano ogni sorta di disagio nel cuore di ciascuno e nelle famiglie, nel lavoro, nella società, nella Chiesa stessa, tra le nazioni. Non possiamo pensare di salvarci nel destino eterno senza pensare agli altri che ci accompagnano sulla terra. Non basta però fare del bene se il cuore rimane inautentico, se non viene salvato dal dono innocente di Cristo. Per conoscere la salvezza non la si può rimandare al futuro: il futuro eterno è per chi incomincia a viverlo sulla terra. Gesù dice: «Chiunque avrà lasciato case o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29): occorre capire anche il significato di quel «cento volte tanto», altrimenti rischiamo di rimandare tutta la salvezza a un paradiso concepito come paese delle meraviglie, mentre nel frattempo seminiamo l’inferno sulla terra. Più lontano lasciamo il cielo dalla terra, più contribuiamo a rendere irrespirabile l’atmosfera umana. Naturalmente ci possiamo capire solo con chi intuisce e riconosce che l’uomo è intrinsecamente bisognoso di salvezza. Chi pensa che tutto va bene, che l’uomo può essere felice e scampare alla morte con le sole sue forze, sorriderà di fronte a ciò che diciamo. Ma poi resta da vedere se per caso, dato che comunque quell’uomo felice non è, non se la prenderà con gli altri dando a loro la colpa della sua insipienza e riempiendo così il mondo di divisione, di lotta, di infelicità.

 

Possiamo partire dalle parole di Giovanni Paolo II nella sua prima Enciclica: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor hominis, n. 10).

Sono parole che si colgono immediatamente come vere. Difficilmente però ci si pone di fronte a esse per domandarsi come sia possibile, quanto ci riguardino personalmente, cosa si intenda per amore, eccetera. Il problema sta nel fatto che la parola «amore» evoca subito orizzonti belli, umani, necessari, ma nell’àmbito di sentimenti personali, privati, più emotivi che di oggettiva e reale consistenza. Il legame di amore riguarda anche gli altri; chi non sa amare diventa un problema per tutti. Dai greci in poi la filosofia ha riservato poca considerazione all’amore; ha seguito strade razionalistiche, o rovesciamenti irrazionali, pragmatistici, romantici, mistici, edonistici e così via. Eppure il tema dell’amore affiora in molti modi. Nella letteratura, innanzitutto; nel cinema, in alcune filosofie. In teologia naturalmente è un tema centrale, ma viene lasciato unicamente al versante soprannaturale. Dove invece appare nella sua istanza esistenziale è in psicologia. Tutte le scuole scoprono nei più diversi modi il tema decisivo dei rapporti interpersonali, per il benessere o il malessere della persona. Quello che molti intuiscono è che il cuore ha una sua prigione, che la ragione non riesce ad aprire, ma non ne capiscono la causa germinale. Solo la Parola di Dio può illuminarci, quella Parola che per l’autore della Lettera agli Ebrei «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4, 12). Quel che diremo terrà presenti le scuole psicologiche, ma più ancora la Scrittura rivelata e l’esperienza di rapporti con migliaia di persone. Naturalmente dovremo essere brevi e a portata di tutti[2].

Un consenso per vivere

Fin dall’inizio Dio rivela la natura necessariamente sociale del genere umano: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2, 18). Un proverbio napoletano dice: «Si può anche vivere senza sapere perché si vive, ma non si può vivere senza sapere per chi si vive». Se si interroga qualcuno sul senso della vita c’è rischio di ricevere risposte scortesi. Ma se si potesse domandare al cuore di ciascuno: «per chi vivi?» verrebbero alla luce tanti legami «forti», con i genitori, i familiari, gli amici, nel fidanzamento, ma anche nelle relazioni del lavoro, o nei compiti sociali, nelle imprese politiche, di volontariato, e infine nella Chiesa. Ogni persona, che ha un «nome» per definire la sua unicità e singolarità libera, ha un bisogno profondo di un «cognome» che la identifichi presso gli altri. Col sopraggiungere dell’adolescenza il cognome paterno non basta più, e il cuore non può vivere se non trova un «cognome» allargato tra gli amici e nella società. Perché tanti contrasti tra genitori e figli? Eppure si direbbe che a volersi bene la vita sarebbe bella per tutti. Ma il bisogno di consenso tra i coetanei oggi è talmente imperioso che provoca contrasti spesso inspiegabili per i genitori.

Ricoeur distingue tra «gli altri-da-me» e «gli altri-per-me»; solo i secondi formano una comunità vitale, un’area solidaristica, che permette al cuore di sentirsi riconosciuto, di trovare immagine significativa. Senza questo riconoscimento si precipita nell'angoscia. Di fatto non si può vivere se non si divide la sorte con qualcuno («consorti»). L’uomo ha bisogno del ri-conoscimento o del con-senso altrui più dell’aria che respira. L’emarginazione è sentita come condanna, riempie di paura, l’essere esclusi svuota la vita. Anche coloro che sostengono di non aver bisogno di alcun successo, o di riconoscimenti, coloro che fanno professione di individualismo, in realtà stanno gridando al mondo che loro non hanno bisogno di nessuno. È anche questo un modo di sentirsi affermati, dimostrando agli altri di essere superiori al loro giudizio, ma dipendendo in realtà da un successo di immagine. L’individualismo è un appello lanciato al mondo per essere riconosciuti dagli altri come esseri unici, come persone. L’uomo riconosce sé stesso solo se ri-conosciuto dagli altri. Si stima solo se altri lo stimano e lo amano. Sant’Agostino poteva dire: «Non c’è nessuno che non ami, ma ci si domanda cosa ama» (Sermone 34). Il problema dell’amore entra nella definizione stessa di persona, proprio come «nome» e «cognome», come essere per sé ed essere per gli altri. Tanta efficacia e forza che riscontriamo in Giovanni Paolo II è dovuta proprio al fatto che ha colto nella persona umana il bisogno congenito dell’amore e che fin da giovane ha preso sul serio l’invito di san Paolo a scegliere «la via migliore» (cfr 1 Cor 12, 31), il primato della carità fraterna. Ripete spesso che se non avviene il dono di sé agli altri, la persona non ritrova sé stessa.

 

La radicalità del problema è facile da individuarsi nell’età giovanile. Le grandi novità dell’adolescenza nascono proprio dal bisogno profondo di andare oltre il riconoscimento dei genitori e dimostrare al mondo che ci siamo anche noi. Se si trovano amici che ci apprezzano, la vita diventa bella, altrimenti diventa insopportabile. In genere qualche amicizia la si trova sempre, perché il bisogno di amicizia per i ragazzi è di tipo assoluto e vale per tutti; pertanto è facile appoggiarsi gli uni sugli altri. Di per sé non è negativo, anzi è bello e necessario, fa parte del disegno di Dio. Ma facilmente si viene a creare un gruppo con il suo codice simbolico, le sue leggi morali, che assume la forza di una chiesa. È giusto parlare di «chiesa», perché si tratta di un vincolo che vale più della vita fisica, più dell’istinto di conservazione e pertanto costituisce un fatto spirituale, che sostituisce il legame necessario con Dio, come fonte di amore. Di fatto tutti, giovani e grandi, viviamo in una «chiesa segreta», che esternamente può essere più o meno consistente, ma che determina tutte le scelte importanti e soprattutto il modo di pensare. Si crede di fare scelte libere e pensate, ma in realtà «si è scelti», non coscientemente da altri, ma dai rapporti che di fatto vengono a crearsi. Anche un intellettuale ateo, per esempio, non può rinunciare ai suoi lettori o seguaci. Poi ci si convince «liberamente» e profondamente che le idee che si sposano nel gruppo o nell’area culturale di riferimento siano state pensate personalmente. In realtà sono quelle che servono per avere un riconoscimento interno al gruppo, per avere successo nei rapporti interpersonali del gruppo. È possibile che quattro ragazzi che vivono per la discoteca si dicano cose molto superficiali, ben convinti di essere più intelligenti dei genitori o dei professori, o magari del Papa, perché con quelle idee ottengono ascolto dalle «persone essenziali» che si riconoscono in quel gruppo (e con ciò non voglio trinciare un giudizio globale sugli ambienti delle discoteche e tanto meno sulla personalità dei singoli che le frequentano).

Molti pensano che ogni uomo sia mosso da un egoismo personale, dal desiderio di possedere beni, dal piacere. Tutto questo c’è, ma in effetti è subordinato al problema dell’amore, anche quando esso è capovolto nell’amor proprio. Il figlio prodigo della parabola vuole possedere l’eredità per diventare signore di sé stesso, non più figlio. Finisce per disperdere i suoi possessi per scoprirsi schiavo. L’uomo non può essere padrone di sé stesso. O è figlio o cade nella schiavitù. Perché dietro c’è sempre il problema dell’amore. Dietro il dono c’è il donante; dietro l’eredità c’è la paternità. Possiamo ingannarci, magari barattando l’amore del padre con le attese degli amici di baldoria (sicuramente il figlio prodigo è stato attirato da altri a una vita senza le leggi del padre, ma con quelle del gruppo che gli ha imposto la rottura con la casa paterna), e credere di diventare possessori di un dono capace di farci liberi. Ma se si rompe il vincolo con il padre, con la sorgente viva del dono, si rimane vuoti. È come abbattere l’albero per coglierne meglio i frutti. Saranno gli ultimi. I beni di questo mondo devono rimandare sempre a rapporti belli di amore. Tornando in sé stesso quel giovane sentì la nostalgia della casa paterna. La salvezza non consiste nel togliere i mali di questo mondo, ma nel passare dalla schiavitù di dipendere dal riconoscimento degli uomini alla condizione di figli di Dio.

 

Nel passato gli adolescenti cercavano amici coetanei, ma il consenso radicale era quello dei grandi. C’erano piccole ribellioni o innovazioni, sufficienti a far gridare agli anziani di tutti i tempi: guarda che tempi! Chi capisce più questi giovani? Ma ben presto prevalevano le attese dei grandi. Oggi le attese dei grandi valgono ancora; in alcuni giovani sono preponderanti. Eppure è successo qualcosa che potrebbe far pensare che i tempi sono cambiati radicalmente. Oggi più che mai si potrebbe dire: chi capisce più questi giovani? Però lo si dice molto meno, indice che il mondo dei grandi è già coinvolto nella rottura delle tradizioni.

Il grande cambio è stato accelerato molto concretamene dai movimenti giovanili sorti nel 1968. Mesi e mesi di occupazione, lontano dalla famiglia, nell’avventura inebriante con i coetanei, sulla cresta dell’onda e dei giornali, hanno spostato di fatto il consenso predominante dai grandi ai coetanei. L’autogoverno dei giovani, con la rottura sbandierata di tanti costumi tradizionali, soprattutto sessuali, ha conquistato una apparente libertà dai genitori, dai professori, dai sacerdoti, che ha cambiato in profondità molte cose. I genitori hanno dovuto cedere molto per riavere i figli in casa. Da quei momenti in avanti sono molto cambiate soprattutto le ragazze, con conquiste positive e negative molto mescolate, senza sufficiente coscienza critica.

Più tardi si è visto che i coetanei non ti trovano il lavoro e pertanto c’è stato un certo ritorno a casa. Dato che i genitori avevano e hanno chiuso entrambi gli occhi su tante cose, questo ora permette a tanti giovani di sfruttarli molto a lungo. Ma il problema del consenso rimane assai confuso (che cosa si attendono gli altri dai giovani?); e con esso quello della progettualità, dell’amore umano, della responsabilità familiare, eccetera. Con il prevalere del consenso dei coetanei avvengono veri sconvolgimenti, difficilmente gestibili, perché nascono «chiese segrete» imprevedibili, dall’esito problematico sia per i giovani che per la società intorno a loro. Sono possibili fenomeni molto positivi, ma pure tante vite perdute. Di fatto si dà una maggior fragilità dell’amore umano, con carichi schiaccianti di sofferenza. È impressionante vedere l’effetto del consenso dei coetanei in certe scuole medie, tra ragazzini e soprattutto ragazzine dodicenni. La permissività dilagante le scatena, ma come fanno a quell’età a gestire sentimenti forti, rapporti sessuali, relazioni di tutti i generi senza rimanerne disgregate? È fondamentale una crescita graduale, un passaggio armonico dal consenso dei genitori a quello sociale. Nei gruppi cristiani è più facile che si dia un giusto equilibrio, perché l’ecclesialità comprende relazioni in tutti i sensi.

 

Dopo la stagione politica del ’68, il consenso dei coetanei, con promiscuità totale, ha aumentato l’autogestione di ciascun gruppo. Prima dell’avvento della totale promiscuità tra ragazzi e ragazze, i giovani si organizzavano: in politica, nello sport, nell’arte, eccetera. Ora tendono a stare insieme e basta; tra di loro parlano di loro, di altri assenti. Si fa molta musica, perché aiuta a stare insieme senza altri problemi. Si fa qualcosa, come mangiare una pizza o andare in discoteca, ma per stare insieme. Danno l’impressione di essere inattaccabili; infatti è così, finché il gruppo è omogeneo e i rapporti interni sono vivaci e sereni. Quando ha successo nel gruppo, un giovane vive momenti di euforia, di libertà, di fiducia; come un uomo che ha successo nel lavoro. I coetanei non chiedono particolari prestazioni, ti accolgono così come sei, non ti rimproverano, mentre i grandi giudicano continuamente, non sono mai soddisfatti, controllano i compiti, i risultati, i peccati, le responsabilità.

So bene che ci sono tante eccezioni, magari proprio fra chi leggerà queste pagine. Ma bisogna sempre avere davanti il quadro globale, ed è lì dove frange sempre più estese di giovani tendono unicamente a stare insieme. Sandro Onofri, uno scrittore recentemente scomparso che era anche insegnante, nel volumetto postumo Registro di classe descrive i suoi alunni in un Istituto della periferia di Roma. L’occasione gliela dà una mattinata a teatro, dove i ragazzi «non hanno mosso un dito dal primo all’ultimo minuto». Ricorda i suoi tempi di alunno, quando a teatro dopo meno di un’ora si scatenavano tutti, per il semplice fatto che un ragazzino non sta fermo più di un’ora. «Storia vecchia, dunque. Eppure c’è qualcosa di diverso e di nuovo […] Silenziosi, muti e immobili, come sempre. Come sono anche in classe. E però assolutamente assenti. I miei compagni di classe erano capaci di rivoltare l’aula con partite a pallone giocate con una palla fatta di carta, ma anche di restare a bocca aperta un’ora intera ad ascoltare una storia o un racconto letto dalla nostra professoressa di italiano. I miei alunni restano per la maggior parte con le mani buttate sul banco e la testa buttata sulle mani, le palpebre a metà, dalle nove alle tredici. Indifferenti, apatici, indolenti. E fuori scuola non sono molto diversi. Non hanno interessi, non hanno passioni neanche in quel modo arruffone e divampante tipico degli adolescenti» (p. 69). Il problema è dovuto anche al fatto che nelle grandi periferie è più facile che un giovane viva tutto proiettato nel gruppo e che ben presto proprio i rapporti interpersonali del gruppo entrino in crisi, dando un senso di vuoto e di incertezza profondamente tragico per un giovane. Oggi il problema più grande che si può rilevare tra i giovani è proprio questo affidarsi troppo al gruppo e ben presto ritrovarsi in crisi per la fragilità dei rapporti interni del gruppo. E allora si cerca la sicurezza in casa, dai genitori sempre disponibili, oltre la soglia dei trent’anni, con grande mancanza di progettualità e di fiducia in sé stessi. Oggi le nuove «chiese» hanno ben poche radici e di fatto trascinano masse ingenti di giovani verso il fallimento esistenziale. Sembra, dalle indagini sociologiche, che circa un terzo perda i legami generazionali (vite smarrite, senza amore – cui non togliamo però la speranza di una possibile rinascita); un altro terzo si barcamena con notevoli disagi.

 

Da quanto stiamo dicendo si può capire che di fatto l’egoismo è molto più sottile e ingannevole di quanto ciascuno possa pensare di sé stesso. Stiamo di fatto accostando «la regione della dissimilitudine», come la chiama sant’Agostino, e cioè il disordine di fondo provocato dal peccato originale. Allontanandosi dalla fonte divina dell’amore le creature umane non è che rinuncino a un amore infinito: siccome non possono assolutamente vivere senza di esso, istintivamente lo cercano negli altri. È questa la prigione del cuore, perché si è in balia della volontà degli uomini.

L’illuminismo ha cercato in tutti i modi di negare il peccato originale, ma non riesce a far felici se non attraverso il successo sugli altri, attraverso il potere (e non certo attraverso la ragione pura). Nessuno può negare il disagio che attraversa il cuore umano. Questo disagio, che dipende solo in minima misura dalle circostanze esterne, porta a dividere i cuori anche di persone mosse soltanto dal desiderio di amarsi e capirsi, come avviene per i coniugi, per i genitori verso i figli, per i cristiani nella comunione ecclesiale, eccetera. Se si capissero i moti profondi del cuore si eviterebbero tanti drammi, tante cattiverie. Ma è difficile che i genitori capiscano quale calamita sta pilotando il cuore del figlio, e tantomeno sono i figli a capire le calamite dei genitori. Sicché per cose di poco conto si possono arrecare disagi efferati a gente carissima. E molto più esposti ci si ritrova negli altri rapporti sociali.

L’egoismo più sottile è compatibile con eroismi e generosità sconfinate, fino alla morte. Tutte le persone di questo mondo sono disposte, di fatto, a morire per qualcuno, altrimenti il loro cuore non si sentirebbe importante per nessuno e ciò porterebbe al suicidio. Una donna che ha abortito il secondo figlio è capace di morire per il primo. Qui la massima generosità apparente convive con il massimo egoismo. Ci sono padri che in casa sono sempre stanchi e poco attenti, ma sul lavoro sono capaci di sacrifici senza limiti. Ci sono giovani capaci di bastonare gente di altre razze, ma pronti a rischiare anche la vita per il loro gruppo. In tutti i tempi e in tutti i luoghi tanti giovani sono partiti per la guerra, e molti sono morti. Per quale motivo? A parte le motivazioni coscienti è certo che nessuno può continuare a vivere in paese, di fronte ad amici e conoscenti, se ha disertato, lasciando che altri morissero al suo posto. È sempre il «consenso per vivere» che determina vita e morte.

Da dove traggono la forza per tanti sacrifici? Ognuno penserà alla coerenza con le proprie idee, ma in realtà si muore per idee molto diverse. Un terrorista pronto a morire per le sue idee, cambierebbe immediatamente comportamento se venisse a sapere che i suoi lo hanno tradito; e cambierebbe anche le idee! Dietro c’è sempre un problema di amore, mal risolto.

Certamente tanti giovani, oggi, nei Paesi opulenti, vivono nella comodità, ma si può scoprire che sono pronti a grandi sacrifici se il gruppo lo richiede. Così come si dice che i giovani d’oggi sono amorali o seguono una morale soggettivistica. In realtà seguono sempre le leggi ferree del gruppo. Basti pensare ai costumi sessuali: «se non fai tutto sei una suora»; «sei ancora una bambina che ha paura», si sente dire ogni ragazza adolescente dalle altre (e non solo dal ragazzo che ci spera) in un gruppo non configurato cristianamente. Non si tollera una diversità positiva, che possa creare ripensamenti e scrupoli. Naturalmente non si impone nulla con la forza, ma un condizionamento di gruppo, che può essere più forte della morte, riesce a omologare quasi tutti coloro che frequentano quel gruppo. C’è ben poco soggettivismo morale, anche tra i grandi; ci sono nuovi conformismi. In genere i dieci comandamenti si ritrovano dietro le superfici culturali differenti. Ma è pur vero che il «consenso per vivere» condiziona la morale, anche se soltanto riguardo a ciò che dà potere significativo all’interno del gruppo di riferimento.

 

Ma va ricordato che il consenso si gioca in molti modi diversi. Tanti giovani non amano il branco, anche se non sfuggono al bisogno di consenso. Molti rimangono grandemente calamitati verso il futuro, verso le attese dei grandi, verso imprese di successo. Ci sono giovani rampanti di grandi capacità. Giovani intellettuali. Ci sono soprattutto i gruppi cattolici pieni di vitalità e di futuro. Ci sono esperienze di ogni tipo. A volte la «chiesa segreta» sembra evanescente, ma si nasconde dietro affermazioni sociali da cui un giovane non può prescindere. Se un giovane è proiettato a sfondare nella new-economy si sottometterà a mille sacrifici e a leggi di comportamento dettate dal successo fortemente ricercato.

 

Vedendo i casi estremi (tutti i giorni sui giornali), si può riflettere sulla forza nascosta del «consenso per vivere» e dell’abissalità del problema dell’amore anche nel caso di chi si muove in apparente normalità. Un esempio significativo ci viene dal Connecticut, dove un giorno, nel 1995, furono ricoverate d’urgenza al pronto soccorso quattro ragazze che avevano tentato il suicidio. Poco dopo ne giunsero altre cinque. Non è facile a quindici anni riuscire a togliersi la vita tagliandosi le vene; il medico riuscì a salvarle tutte. Poi si informò sulla causa di quegli episodi assurdi. Quindici ragazze adolescenti avevano fatto un patto tra loro: se una moriva, tutte sarebbero morte. Una di loro, probabilmente depressa, aveva tentato il suicidio; tre che erano con lei l’avevano imitata subito. Altre cinque, venute a sapere delle prime, le avevano seguite. Gli psicologi americani hanno tentato di dare le loro spiegazioni, dando per lo più la colpa agli ambienti chiusi delle cittadine provinciali. In realtà non erano ragazze diverse dalle altre. Ma una di loro, magari con un po’ di carisma da leader, avrà proclamato il loro credo, la loro forza «se saremo sempre unite, fino alla morte». Se un ragazzo si suicida, è certamente depresso; se a suicidarsi sono più d’uno si può essere quasi sicuri che è un problema di consenso, in definitiva un problema di amore, più forte della vita fisica, perché sostituisce la fonte divina dell’amore in modo narcisistico. Si spiegano così i grandi suicidi di massa di alcune sette: non si tratta di fanatici, ma di gente sfortunata che ha trovato consenso in una setta disumana. E si spiega così che si diffondano bande di ragazzi che ammazzano. Se a sparare è uno solo si tratta di un pazzo; ma se a sparare sono parecchi, allora dietro c’è il problema del consenso.

Così si spiega in gran parte il diffondersi della droga tra i giovani: a suo modo è un problema di amore! Ed è impressionante la quantità di «pasticche» che si spacciano di questi tempi. Così si spiega la criminalità giovanile: se un gruppo di ragazzini gioca in un vicolo e arriva uno di loro con una borsetta rubata e un po’ di soldi, si sente un dio; l’ultimo arrivato non vede l’ora di scippare per godere anche lui della considerazione del gruppo. Anche il furto e il crimine nascono da un problema mal risolto di amore. E così si spiega che tanti giovani, finito il catechismo per ricevere il sacramento della confermazione, disertino ben presto anche la santa messa festiva: hanno paura di essere presi in giro dai compagni. Così si spiega il presunto ateismo di tanti giovani; se, per esempio, frequentano ambienti marxisti crederanno di essere atei, perché altrimenti il loro cuore si sentirebbe squalificato davanti agli altri. Il partito può anche lasciare liberi i suoi iscritti di appartenere a una confessione religiosa, ma ciò significa ben poco, dato che il bisogno di consenso determina il loro pensare e li rende impermeabili ad altri argomenti.

 

La nostra analisi è resa a volte più complessa dal fatto che il consenso per vivere si può sostenere in più modi. Il cuore di un giovane conta molto sul consenso sempre disponibile dei genitori che si affianca a quello dei coetanei. Intanto il suo cuore va preparandosi al consenso futuro, che verrà attraverso il lavoro o il matrimonio, e se le premesse sono buone gode già di una profonda sicurezza. Se uno di questi pilastri del consenso si incrina, si sta molto male, ma ci si può ancora appoggiare sugli altri.

Drammi particolarmente acuti e sconvolgenti si danno quando si crea un conflitto aperto tra due fonti di consenso ugualmente valide. In genere tra il consenso dei genitori e quello dirompente che proviene da un fidanzato non c’è contrasto, ma se entrano in opposizione per quella ragazza saranno dolori. Può succedere tra la vita di fede e un gruppo che prende in giro chi pratica riti religiosi; tra i legami di amicizia e la militanza politica; tra il consenso dei genitori e quello di amici che non piacciono ai genitori. Un giorno un padre mi chiese di parlare con il figlio sedicenne che aveva detto di capire i giovani che si suicidavano. Venne il ragazzo. «Tuo padre mi ha detto che hai dei problemi, ma prima di descrivermeli dimmi cosa fai il sabato sera». «È proprio questo il problema», mi rispose. «Avevo degli amici così squallidi che ho dovuto lasciarli. Avrei altri pochi amici con cui ho fatto musica insieme, ma mio padre non vuole che vada con loro perché dice che in questi complessini musicali gira sempre la droga». Potei dirgli: «Dovresti risolverti tu il problema, ma se vuoi ti do una mano; dammi la tua parola che non ti drogherai neppure per prova e parlerò a tuo padre per fargli capire che per te è un vero dramma». Quel caso si risolse, perché il padre capì il problema acutissimo del consenso per vivere. In genere è ben difficile che ci si sappia mettere nei panni degli altri, proprio per il fatto che ognuno si appoggia su idoli diversi.

Idolatria come amore capovolto

L’uomo vale per i suoi legami, legami di amore o di schiavitù (apparentemente liberi). Il serpente della Genesi dice a Eva «diventereste come Dio» (Gn 3, 5). La tentazione è idolatrica, mettersi al posto di Dio; ma a guardare bene occorre aggiungere «Dio per qualcuno», cioè nel riconoscimento degli altri. Nessuno pensa di farsi Dio, ma tutti, eccetto i santi, vogliamo essere riconosciuti come indispensabili da qualcuno. Non vogliamo essere immagine di Dio, un ritratto che fa pensare a Dio, ma abbiamo bisogno che qualcuno sia a immagine nostra, e curiamo con ogni attenzione, minuziosità e sacrificio tutto ciò che esalta questa nostra immagine negli altri.

Se il legame massimo non è Dio, lo si sposta necessariamente su altri con forte attenzione alle prestazioni necessarie per garantire un successo significativo davanti a loro; tali prestazioni vengono innalzate all’assoluto e diventano idoli. L’idolo è un aspetto della realtà attraverso il quale cerco di catturare il consenso di qualcuno: può essere un aspetto positivo, con un suo valore relativo, come il lavoro, la famiglia, l’apostolato; oppure imprese anche perverse che gli interessati possono vivere con pathos religioso. Ciò dimostra anche che nessun uomo, di fatto, può essere ateo: è sempre idolatra, perché non può prescindere da molti legami, e soprattutto da quello che viene assolutizzato. Il contrario della religione non è l’ateismo, bensì l’idolatria[3].

Dato che, eccetto i santi, tutti ci muoviamo idolatricamente, dobbiamo già essere contenti quando ci ritroviamo su sentieri positivi. Però occorre desiderare la conversione, e chiederla, altrimenti si rimane nella mediocrità che, all’occorrenza, è capace di difendere il proprio io con peccati e malevolenze. Un esempio per tutti è quello della folla che grida a Pilato: «Crocifiggilo». Erano persone come noi, pronte a seguire il Messia con entusiasmo. «Osanna, osanna», avevano gridato pochi giorni prima. Ma quando occorre difendere Gesù sfidando i capi (che appunto «sobillavano la folla»), piuttosto che rischiare di rimetterci qualcosa furono pronte a condannare un innocente. È così che i capi di questo mondo, compresi Hitler e Pol-Pot, hanno sempre potuto disporre di capi intermedi e di folle plaudenti – gente normale – disposti a eseguire ordini nefasti.

Per l’idolo, mediatore del consenso altrui, si è disposti a qualunque sacrificio, perché il problema del consenso è abissale. Già lo intuiva Eraclito in un frammento acutissimo: «Difficile è la lotta contro il desiderio, poiché ciò che esso vuole lo compera a prezzo dell’anima». Dove c’è l’idolo, cioè la prestazione che mi garantisce l’immagine davanti agli altri, ciò che è piccolo e relativo – ciò che altri ritengono un sassolino – diventa assoluto e gigantesco come una montagna. Per la moglie mezz’ora di ritardo del marito è una montagna: non mi ama, pensa solo al suo lavoro; per il marito è un sassolino insignificante. Se un ragazzo non si accorge che la sua ragazza ha cambiato vestito, per lei è un segno che non la ama, per lui è una quisquilia. Si dovrebbe sapere che un fidanzamento non è garantito; eppure uno stesso giovane che viene lasciato dalla ragazza crede che la sua vita si spenga, mentre se è lui a lasciarla si sente liberato e lascia la ragazza nella disperazione.

Ci sono poi quelli che si possono chiamare gli «addentellati idolatrici»: interessi sportivi, culturali, ludici, da tifosi, di computer e così via, in cui si ripone una carica di assoluto (ecco l’aggettivo idolatrico, che indica un’attenzione dovuta più a Dio o alle cose sacre che a realtà molto limitate). In genere ciò avviene perché nella vittoria personale o della squadra favorita il cuore sente un’affermazione significativa davanti agli altri; parimenti nel progredire di traguardi, di acquisizioni, che spesso arricchiscono la persona e la rendono capace di imprese valide. Magari le persone intorno notano un’esagerazione, senza accorgersi che anche loro probabilmente hanno desideri altrettanto forti in cose altrettanto limitate. È facile vedere le esagerazioni degli altri, senza capire da dove vengono. Un addentellato idolatrico presente spesso anche tra i giovani è il look. È facile vedere le esagerazioni se si guarda dall’esterno; eppure si possono spendere capitali pur di vestire come è richiesto dal gruppo o secondo le mode. Spesso per queste valutazioni così diverse nascono dissidi familiari o in un gruppo di amici. Se la brama si cristallizza su realtà positive o innocue, come il tifo o attività ludiche, e ancor più in acquisizioni come il computer, è bene che la gente vicina sappia pazientare e che l’interessato sappia prendersi un po’ in giro, senza altre complicazioni.

Il condizionamento della ragione

Ognuno è convinto di essere sempre ragionevole, e magari lo è, ma non dove c’è il dominio del consenso esistenziale. Lì in genere ragioniamo più con il cuore che con la testa. La ragione mantiene sempre una sua capacità di indagare sulla verità oggettiva, soprattutto nei campi in cui non entra il problema del consenso, ma deve pagare un prezzo esorbitante al bisogno di essere riconosciuti. Basta osservare una lite familiare per vedere che si perde il buon senso e anche il senso comune. Di fatto la mente è forzata dal cuore a pensare a ciò che dà un po’ di potere significativo, anche se ciò avviene in genere in modo inconscio. Così si vedono persone convinte delle cose più disparate: credenti e non credenti, di destra e di sinistra, con gerghi e mode stravaganti; persone che si direbbero molto serie e altri che si direbbero ai margini della società. Ragazzi che studiano fino a tarda ora (perché il loro consenso è garantito dal successo scolastico) e altri, magari fratelli dei primi, che pensano solo alla musica o alle mode, perché hanno trovato consenso in discoteca. I genitori distinguono tra figli buoni e cattivi, ma in realtà il problema è sempre lo stesso, anche se non è equivalente la soluzione in cui sono incappati. Chiunque ha successo nella sua «chiesa segreta» è convinto di avere ragione, di pensare meglio degli altri. Se un ladro opera un grande colpo, che gli dà immagine presso gli amici ladri, il suo cuore gli dice che lui è il più grande filosofo del mondo, colui che pensa la vita meglio di tutti. E così abbiamo visto gente dare la vita per le idee più disparate, per rivoluzioni o terrorismo, per bravate o per cause valide.

Ciò crea difficoltà anche nel dialogo con i giovani da parte di persone esperte da decenni di problemi formativi, proprio perché si frappone il condizionamento della comunità vitale: non soltanto la specifica comunità in cui ogni giovane si muove (che può essere ben diversa da tante altre che si danno), ma anche quella in cui si muove chi vuol dare consigli; anche lui è condizionato. Se un giovane non si sente capito, cosa facilissima, si rifugia nella sicurezza del gruppo, che dà la sensazione che fuori da quel modo di pensare la gente non capisce. Il dialogo tra generazioni va meglio quando si percorre la stessa strada significativa, come si può notare nelle realtà ecclesiali vivaci.

Se in una cosa Nietzsche aveva ragione, era nell’individuare dietro ogni filosofia la volontà di potenza del filosofo. Se ben intesa, la sua intuizione è profondamente vera: il bisogno di riconoscimento nell’àmbito di una «chiesa segreta» porta a usare la testa in funzione del successo tra coloro che ci devono riconoscere. Anche gli illuministi hanno sempre fatto parte di una «chiesa segreta», quella dei giacobini, dei kantiani, degli hegeliani, del liberali, eccetera, fino ai nostri giorni. Nessuno può vivere il dogma illuminista «fidati solo della tua ragione», perché nessuno cerca la verità astratta, bensì la felicità, e la felicità si prova solo con un’accoglienza benevola. Kant non ha mai fatto felice nessuno, tranne quanti hanno potuto scrivere libri in quel senso e così raggiungere un certo successo. Scrivere libri è tra le idolatrie più sicure per sentirsi riconosciuti da altri. E finché i libri hanno un qualche successo, l’autore è sicuro di dire la verità. Il successo lo esalta, lo fa sentire libero, «felice» (in realtà è solo soddisfazione d’orgoglio) e lui pensa che quella «felicità» sia dovuta alla verità delle cose scritte. In realtà è dovuta quasi del tutto al successo.

Avete mai riflettuto sul fatto che si sono date molte migliaia di ricette filosofiche o sapienziali per essere felici, per interpretare il mondo, e tutte sono risultate oltremodo insufficienti? Ripetiamo: ognuno è convinto di ragionare bene, ed è altrettanto convinto che tanti altri ragionano male. Vi immaginate che uno schierato a destra nelle scelte politiche si lasci convincere ragionando da uno di sinistra, o viceversa?

A ben guardare si vedrà che tante battaglie culturali tra «laici» e cattolici, tra destra e sinistra, tra innovazione e tradizione sono vere battaglie di religione, cariche di assoluto, dove il convincimento di essere nel vero è aprioristico, è un pregiudizio che non si discute; da una parte e dall’altra, anche se ciò non significa che tutti abbiano ugualmente ragione. Il cuore non cede sul pregiudizio di fondo, altrimenti si dovrebbe lasciare la propria «chiesa segreta», con perdita di consenso. Per questo è così difficile costruire insieme una società veramente democratica, basata su una cultura degna dell’uomo, da approfondire tutti insieme. La nostra speranza è che al riconoscere il proprio condizionamento si diventi più comprensivi verso gli altri, più democratici!

Anche i cristiani rischiano di appartenere a una chiesa concreta per avere un riconoscimento esistenziale, usando la ragione in funzione della loro appartenenza. Ma su questo torneremo dopo aver chiarito altri punti importanti.

 

È certo comunque che le idee e le scelte non sono equivalenti, e che questo propone un grande compito culturale ai cristiani, in unità con tutti gli uomini di buona volontà per aiutare i giovani a fare scelte socialmente valide e a evitare sofferenze immani. Vedremo che solo Gesù Cristo ha parole di vita eterna. In Lui si scopre la Verità dell’Amore, e cioè la verità che fa liberi, come afferma Gesù stesso. Chi risolve il problema del cuore, ritrova anche la libertà dai condizionamenti per l’uso oggettivo della ragione. La verità dell’amore procura anche l’amore per la verità. La grande razionalità cattolica (nessuno ha mai difeso la ragione come la tradizione cattolica) ha una sua continuità, sa continuamente recuperare il senso comune, la razionalità innata che ci permette di capirci con gente di tutte le razze e tradizioni, ed è capace di dare serene certezze ai giovani che si muovono in mezzo al mondo, come ha ribadito recentemente Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio. Ma più ancora il cristiano recupera la ragione oggettiva nel clima luminoso della Rivelazione. Così come è ingannevole pensare che noi siamo tra quelli che usano sempre la ragione in senso oggettivo, altrettanto pernicioso è pensare che non esista una differenza oggettiva tra il bene e il male, tra il vero e il falso. È il problema della ricerca di senso, che dovrebbe procedere insieme alla ricerca della verità che lo fonda per sé e per gli altri. Chi ha successo non dubita del senso della vita, ma può essere totalmente fuori dalla strada della verità. Anche tra i cristiani è facile privilegiare troppo la ricerca di senso nella comunità (la comunità viva riempie di senso e significato la vita), trascurando l’attenzione alla verità oggettiva. Certamente è l’amore che dà senso, ma è valido solo se è vero, secondo i disegni divini.

Quanto abbiamo detto finora serve anche a capire che è difficile distinguere i buoni dai cattivi e pertanto non bisogna mai giudicare le persone. Diverso è il problema del bene e del male; oggi si tende troppo a confondere il non-giudizio sulle persone con la libertà di chiamare bene o male ciò che a ciascuno piace. In realtà il problema oggettivo della verità, del bene e del male, della morale, rimane di assoluta importanza, per il bene di tutti. Se io, mosso dal bisogno di consenso, faccio il bene, gli altri ne traggono un vantaggio. Se per lo stesso motivo profondo e inconsapevole sono mosso a fare il male (senza naturalmente riconoscerlo come tale), agli altri ne deriva un danno. Per un cristiano è chiaro che occorre sempre aver presenti due cose: il condizionamento del peccato originale, che noi vediamo nel problema del consenso radicale, e la responsabilità personale di fronte agli altri secondo i comandamenti divini iscritti nel cuore umano, ma anche divinamente rivelati, presenti alla coscienza individuale, alle migliori tradizioni sociali o religiose e in modo più esplicito e armonioso nella Chiesa. Questa precisazione sul bene o il male come valori oggettivi è di massima importanza, anche se non possiamo sviluppare l’argomento in questo contesto, tutto teso a scoprire in che modo dobbiamo essere salvati.

Vera o presunta libertà

Un tema che la cultura imperante riesce a confondere totalmente è quello della libertà. La nostra analisi permette di capire che la libertà è sempre debitrice dell’amore. Essere liberi in realtà non vuol dire poter scegliere quello che si vuole. Certo, c’è pure questo aspetto, che da sempre è definito «libertà di arbitrio», in cui i classici sapevano vedere la parte minore della libertà, quella strumentale e passeggera. È la parte minore perché le vere scelte umane bruciano la possibilità di scegliere. Un ragazzo è libero di scegliere la ragazza con cui sposarsi, e viceversa, ma si tratta di un fatto passeggero. Sarà veramente libero, per tutta la vita, se ha scelto bene. La vera libertà consiste nella vita felice. In cielo non ci sarà più da scegliere, ma si sarà completamente liberi. Quando uno è felice, si sente libero. A tornare indietro rifarebbe le stesse scelte: ecco la libertà! Si può essere liberi anche in carcere, se si è stati incarcerati per un motivo nobile.

Ma la felicità viene dall’amore, ed ecco che torniamo al nostro condizionamento di fondo, con i suoi inganni. Proprio sulla libertà si danno grandi inganni. Con quanto abbiamo detto è chiaro che per essere felici occorre un’accoglienza benevola di altri, occorre affermare la propria immagine davanti ad altri. Pur di garantirsi questo riconoscimento si fanno grandi sacrifici, e si fanno con apparente libertà. Anzi, abbiamo detto che per il successo che dà significato alla nostra vita davanti ad altri si è pronti a tutto, anche a morire. Finché si ha potere presso gli altri, o si spera di ottenerlo con prestazioni anche onerose, ci si sente profondamente liberi. Difficilmente ci si accorge che è un problema di amore. Il figlio che invoca la libertà davanti ai genitori di fatto è ben legato a leggi di altri; ma quelle leggi le cerca liberamente e liberamente vi si sottopone, perché solo con quelle leggi ottiene il riconoscimento degli amici.

Sant’Agostino distingueva tra libertas minor (libertà di scelta) e libertas maior (per chi ha scelto bene). Ma concludeva il suo esame del bene dicendo: libertas est caritatis; la libertà è dell’amore. La nostra analisi fa capire questo problema in profondità e mette luce sui presunti proclami di libertà di un mondo che conosce feroci o sottili schiavitù. Tra giovani, spesso e purtroppo, non si dà libertà ma gregarismo; non si dà personalità bensì conformismo. La libertà vera è legata all’amore vero, di amicizia, di fidanzamento, di chiesa. Insieme al «cognome» occorre declinare il «nome»; occorre mantenere la libertà personale di non fare insieme ad altri cose che da soli non si farebbero. L’idea di personalità, nel conformismo di tanti gruppi giovanili, è legata al risalto di qualche dote personale che distingue ciascuno dall’uniformità del gruppo: quella ragazza è grassa e brutta, ma è simpatica e racconta bene le barzellette. Quell’altra è la più bella. Quell’altra è lanciata professionalmente, eccetera. Così tutti sono convinti di non essere pecoroni. Eppure si nota un grande «belato comune» se si osservano alcuni comportamenti di giovani di diverse parti del mondo. C’è una immensa omogeneità. Qualcuno l’ha chiamata la «repubblica dei ragazzi». Una mera distinzione di prestazione ha ben poco in comune con una reale personalità, perché lascia le decisioni importanti al gruppo. E se nel gruppo un capetto propone di tirare le pietre dai ponti dell’autostrada c’è rischio che gli altri lo seguano, per non perdere il consenso. Viene in mente una definizione un po’ tragica di conformismo, che purtroppo corrisponde a tanti giovani: «tutti uguali, tutti stupidi». Sia chiaro comunque che non intendiamo generalizzare. Conosciamo tanti giovani più liberi. È facile comunque che un gruppo di giovani si senta «alternativo» al conformismo comune mentre naviga proprio in quel mare.

Il vero problema della libertà è nella qualità dei vincoli di amore. Più che una capacità delle facoltà spirituali, la libertà è un vissuto relazionale. Noi possiamo scegliere, perché non si darebbe amore senza questa responsabilità personale, ma soltanto se scegliamo il legame con gli uomini insieme al legame con Dio si darà libertà autentica. La libertà dopo Cristo è radicale, come stiamo per vedere. Ma la vera radicalità deve promanare dalla radicalità dell’amore portatoci da Cristo. Per questo san Paolo può dire : «Cristo ci ha liberati» (Gal, 5, 1) o «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3,17). Israele è un popolo che nasce dalla libertà: Dio lo libera dalla schiavitù dell’Egitto; ma lo libera per una Alleanza, per un vincolo di amore nuovo, per essere un popolo nuovo. Più ancora che nel caso di Israele, la libertà è congenita al popolo cristiano; Cristo, come vedremo, viene a liberarci dalla grande schiavitù che ci attanaglia il cuore e di cui parleremo subito; ma ci libera per la nuova ed eterna Alleanza, per un legame di amore senza confini, con Dio e con gli uomini.

La più grande schiavitù

Nei villaggi d’altri tempi i legami significativi erano riconosciuti da tutti. Ciascuno aveva il suo posto scolpito nell’àmbito del parentado allargato dei paesi di campagna. C’era una totale solidarietà. Se bruciava un cascinale, tutto il paese partecipava al salvataggio. Se uno moriva, tutti pregavano e si ritrovavano in casa del defunto e poi al funerale. Le feste erano partecipate da tutti, sia nell’attesa che nella celebrazione.

Oggi ci troviamo in una società secolarizzata dove i valori non sono più riconosciuti da tutti in modo uguale. Il legame significativo si forma in molti modi, spesso improvvisi e diversi. Giovani adolescenti possono configurare il loro gruppo secondo l’influenza di alcuni che prendono dal calderone della cultura imperante un’idea qualunque: quella diventerà il credo del gruppo, con più o meno enfasi, con più o meno consapevolezza. La cultura che ci circonda non influisce direttamente sui singoli, ma sui gruppi. Se alla Tv fanno vedere immagini di clandestini che sbarcano in Italia, un ragazzo scout sarà subito mosso interiormente a gesti di solidarietà. Un naziskin sarà mosso interiormente da moti razzisti.  Il tragico è che il pensare di quest’ultimo è stato unicamente determinato da un incontro fortuito con qualche altro ragazzo, che è servito da tramite per una nuova solidarietà di gruppo.

Uno stesso ragazzo (con qualche eccezione dovuta ad altri condizionamenti di famiglia, di tradizione, di religione, che per fortuna rimangono e possono prevalere) può arrivare a pensare in un modo o nell’altro solo per il fatto che ha incontrato quel gruppo o quell’altro. Questo spiega perché è molto difficile che un giovane ascolti buoni consigli, se non vengono dal suo gruppo. Non per nulla si dice che un giovane è maturo quando sa ascoltare un buon consiglio anche se dato dai genitori. Secoli di civiltà, faticosamente conquistata dai nostri antenati, possono essere vanificati in pochi giorni da un gruppo di coetanei senza radici (e senza progettualità futura! Soltanto chi ha radici, soltanto chi ha un bel passato può avere progetti sul futuro). Può essere vera decadenza[4].

Se il bisogno di consenso porta a uno schieramento in un gruppo negativo, il danno è immenso e spesso irreparabile, perché non è facile usare la ragione per uscirne. Se un mafioso vuol uscire dalla sua cosca, perde la sua «patria», la sua «famiglia», la sua «chiesa». È questo il dramma dei pentiti ed è questo il motivo per cui l’omertà mafiosa ha potuto reggere per decenni. Il cuore non permette di cambiare idea se prima non si è sentito accolto da un’altra comunità vitale, e questo succede in modo particolare tra i giovani. Questo ci porterà a capire che solo comunità di fede vivaci e forti potranno attrarre alla vera salvezza che è Cristo.

 

Tra i grandi il consenso per vivere dipende sempre da una piccola società «forte» che li circonda, ma dove gli idoli di riferimento, quelle prestazioni che garantiscono l’apprezzamento degli altri e che pertanto si caricano di assoluto venendo a sostituire il bisogno dell’amore di Dio, sono quasi sempre quelli classici: il lavoro per l’uomo, il marito e i figli per la donna. Oggi l’immagine femminile è cambiata moltissimo, ma per cadere in idolatrie molto meno controllabili, tanto che la famiglia e i fidanzamenti sono diventati molto precari. Secondo le condanna di Adamo ed Eva l’uomo e la donna si riconoscono apprezzati dagli altri se diventano indispensabili per qualcuno attraverso il lavoro (l’uomo) e nell’essere amate e nel poter generare (la donna). E non c’è da sorridere se si parla ancora di Adamo ed Eva, perché, a studiare bene, lì c’è il massimo concentrato di sapienza ebraica, ispirato divinamente, riguardo a una serie di problemi umani che danno luogo a una vera metastoria – una specie di metafisica della storia – su cui non possiamo soffermarci in questa sede. Su questa base, quando un uomo ha una famiglia che attende il frutto del suo lavoro, rendendolo indispensabile, quando il lavoro va bene (è facile notare che per un uomo il successo nel lavoro è la vita, l’insuccesso è peggio della morte fisica), si sente sereno. L’idolo regge e il suo cuore si sente riconosciuto e stimato. Se la salute lo aiuta e la moglie non lo caccia di casa (il fenomeno è in grande aumento e rende assolutamente tragica la vita di un uomo), può vivere lunghi anni senza sentire il bisogno di essere salvato. La stessa cosa può dirsi della donna se si sente amata dall’uomo (con tanti problemi che qui non possono essere presi in esame[5]), se i figlioletti crescono bene, se ha soddisfazioni di lavoro o di amicizia, se ha salute e un po’ di soldi. In questa situazione probabilmente riderebbe se le si dicesse che ha bisogno di salvezza. Ma basta un breve periodo di disagio per dimostrare la profonda miseria dell’uomo senza la fede viva.

 

Quelle basate solo sul consenso umano sono sicurezze precarie; tutte sono destinate a finire, se non altro con la morte; ma soprattutto: tutte dipendono dalla volontà degli altri. Nel caso del consenso umano non è possibile parlare di vera felicità, ma solo di soddisfazione o di sicurezza. Non è difficile riflettere sulla precarietà di una sicurezza che dipende dalla volontà degli altri o dal caso. È vero che ciascuno, con l’aiuto della famiglia, della scuola, degli amici, cerca di costruirsi basi abbastanza solide da garantirsi il successo necessario per sentirsi realizzato davanti agli altri. È pure vero che istintivamente si cerca il successo che si sente a portata di mano, senza sbilanciarsi troppo in avventure che più facilmente portano al fallimento e pertanto a sentirsi scomunicati e annullati dagli altri. Ma è anche vero che nulla di ciò che può garantirci l’immagine esistenziale davanti agli altri dipende solo da noi. Bisognerebbe visitare almeno una volta nella vita un ospizio, un ricovero per anziani: servirebbe a renderci conto di che cosa può aspettarci. Soltanto l’amore vero risolve tutta la vita e anche la morte. Il successo, una volta finito, lascia ebeti, vuoti, disperati. Solo alcuni, meglio dotati e forse più fortunati, possono inseguire novità fino alla fine della vita. Ma non per questo imparano ad amare, se sono mossi solo dalla mera cura della propria immagine davanti agli altri.

Di fatto tutti hanno le loro sfiducie nascoste; non abbiamo mai trovato persone perfettamente sicure di sé. Anche la gente più sostenuta e altezzosa manca chiaramente di fiducia in sé stessa: perché un uomo è aggressivo, se non per dimostrare qualcosa agli altri? Per molti l’ultimo rifugio è la rabbia, quasi a protestare che si ha diritto a qualcosa di meglio dagli uomini o da quel Dio sempre lasciato in un angolo. Quando la frustrazione viene dagli uomini è possibile sentirsi vivi con il desiderio di vendetta, che è speranza di dimostrare ad altri (rieccoci al punto, anche se normalmente neppure ci si pensa) che si è riusciti a fargliela pagare; ma è facile convenire che non è una bella vita.

Se così stanno le cose diventa facile figurarsi l’abisso di inganno e di menzogna che ci circonda. I maestri orientali, che vengono in Occidente e vedono la società più idolatrica che si sia mai data sulla terra, ci dicono: questi sarebbero i popoli salvati dal Messia? Noi, dal canto nostro, li paghiamo miliardi perché ci diano un po’ di pace con i loro esercizi da «fior di loto», con lo yoga e la meditazione trascendentale, piena solo di vuoto. Già nel secolo diciannovesimo, dove per gli inganni idolatrici non stavamo certo peggio di noi, Tolstoj poteva dire: «Gli uomini muoiono di sete a due passi di distanza dalla fonte, senza osare avvicinarsi. Basterebbe aver fede negli insegnamenti divini; recarci noi tutti che siamo assetati, alla sorgente, per scoprire la perfidia di chi ci guida e la puerilità della nostra sofferenza. Allora soltanto sapremmo quanto la salvezza è vicina. Così andrebbe dispersa l’abominevole menzogna in cui si dibatte il mondo». Di inganno e menzogna si tratta, specie nei riguardi dei giovani. Occorre rendersi conto, come già diceva Einstein, che la nostra cultura ci ha portato alla massima perfezione dei mezzi e alla massima confusione dei fini.

Qui va fatta una precisazione: non sto impiegando questi argomenti per convincere della necessità della fede. La fede non serve per parare i colpi della vita, ma per un Amore che è la vita. Soltanto chi ha la Vita, chi è validamente innamorato, può affrontare con il cuore “salvato” qualunque peripezia che la vita può sempre procurare, come vedremo nel capitolo seguente.

 

Ora capiamo meglio che la nostra schiavitù più profonda consiste nel dipendere dal giudizio e dalla volontà degli uomini. Si vive sempre sospesi sull’abisso; il cuore di ciascuno è condizionato dalla paura di fallire, di essere cioè annullato dagli altri. Basta pensare che cosa succede appena si commette un errore consistente: ci si sente sconvolti, si cercano alibi e giustificazioni di tutti i tipi. E magari è un fatto che dopo poche ore nemmeno ricordiamo più. Se invece l’errore è più grave si entra in angoscia. Se in un incidente d’auto muoiono tre giovani e si salva uno che non guidava, questo sarà addolorato per gli amici morti, ma continuerà a vivere bene; se a salvarsi è solo colui che guidava, la sua vita cambia, oppressa dal senso di colpa, dall’angoscia, dal suo sentirsi accusato dai genitori degli amici defunti.

Dipendere dalla volontà altrui per sopravvivere impedisce il volo dell’amore autentico, della vera dignità. Qualche successo più grande dà l’impressione di una vita travolgente, ma dura poco e si fa pagare molto; prima o poi si finisce nella mediocrità, più spesso nella rabbia o nell’angoscia.

Non basta neppure fare del bene agli altri per garantirsi l’autenticità e la bellezza della vita. Madre Teresa di Calcutta è entrata nei nostri cuori non perché aiutava i poveri (sono molte migliaia i volontari che aiutano i bisognosi), ma perché li amava! Perché il moribondo per le vie di Calcutta, disprezzato da tutti, per lei possedeva il massimo di dignità, la stessa di Gesù Cristo. Se uno di noi cadesse in disgrazia presso gli uomini e incontrasse una Madre Teresa, si sentirebbe «salvato» nel suo cuore, stimato al massimo non solo nella malattia, ma anche nel fallimento umano. Il mondo ha bisogno di questi santi che si fanno mediatori della salvezza di Cristo. Si può essere ottimisti. Cristo è venuto a salvare il mondo e più c’è vuoto di valori, più c’è posto per il suo dono di amore innocente, salvifico. Potremmo anche fare un quadro di gemme preziose che si possono trovare oggi più che ieri, in modo particolare, nella donna, nella famiglia e nella Chiesa. Ma è necessario cogliere l’aspetto esistenziale, quotidiano, della nostra «schiavitù» per capire che è del tutto necessaria la salvezza cristiana.

 

San Paolo scrive ai Romani: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre”» (Rm 8, 15); il dono salvifico, quello della filiazione divina, ci fa sentire amati, riconosciuti intimamente, con la stessa vita di Dio – divinizzati! –, dall’alto, dal Padre. Chi ha un Padre ha una fonte garantita di amore, ha un legame «forte» che non dipende dagli altri e dalla paura che questi altri possano ritirarlo. Lo spirito da schiavi, per san Paolo, è quello che dipende dal successo. Senza disprezzare il giusto successo, il bene che possiamo fare, i talenti che Dio ci ha dato, occorre però salvarsi dal dipendere unicamente dagli altri. Dio vuole la carità fraterna; ma non sarà vero amore fraterno se non ci riconosciamo figli di Dio: «Chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12, 30).

 

 

Capitolo ii

 

perchÈ gesÙ È l’unico salvatore del mondo

 

 

Molti giovani che mi hanno seguito fin qui, attratti da un approccio nuovo ma riconoscibile da loro, ora si troveranno di fronte alle risposte della fede. Queste risposte risultano quanto mai opportune se si è colta la radice dei problemi umani, ma hanno bisogno di una apertura al dono soprannaturale, alla grazia. Anche il linguaggio cambia, e richiede un minimo di dimestichezza con il Vangelo o almeno la disponibilità a confrontarsi con chi può aiutare ad apprezzare tale linguaggio.

E c’è un motivo in più per richiedere un po’ di sforzo a chi ha le doti per farlo. Mi aggiravo in una periferia piuttosto povera. Giovani qua e là. Il pensiero di rivolgermi a loro con le idee di questo libro mi suscitava una immediata autoironia, ma anche un gran dolore. L’ignoranza e la non voglia di uscirne diventano un muro apparentemente invalicabile, un ostacolo per qualsiasi riscatto intellettuale, morale, sociale, professionale. Ma vedevo con chiarezza che tutto parte dal consenso dei coetanei. E mi venivano alla mente le parole di Giovanni Paolo II ai giovani, quando diceva loro che hanno una grazia speciale per il bene della società. Noi grandi possiamo parlare, insegnare, predicare, ma il commento dei coetanei detta legge. Soltanto altri giovani disposti ad approfondire e a vivere una solidarietà costruttiva, che attiri coloro che mai si riscatteranno da soli da un gruppo dove l’ignoranza è un titolo di vanto e di affermazione (e questo vale anche per un gruppo che insegue i raffinati piaceri dell’alta società), potranno riaprire anche per loro cammini di speranza. Ma non sarà senza sforzo, generosità e approfondimento culturale. Non sarà senza un «supplemento d’anima», come crescita sapienziale e morale che la cultura di oggi non favorisce, ma che deve sempre accompagnare ogni crescita strumentale, ogni progresso materiale, che altrimenti diventa un idolo più grande, più capace di catturare i cuori bisognosi di affermazione.

 

Veniamo al titolo di questo capitolo. Se chi mi legge già possiede una fede vissuta in Gesù Cristo, in quanto vero uomo e vero Dio, probabilmente riterrà superfluo che adesso ci mettiamo a dimostrare che egli è il vero e unico salvatore del mondo. Per cominciare, una persona di fede riterrà che la differenza tra Cristo e Confucio, Buddha, Maometto eccetera, sta precisamente nel fatto che costoro non sono Dio, e pertanto fanno parte degli uomini che devono essere salvati. Per chi ha fede fanno testo le parole piene di franchezza di Pietro dopo Pentecoste: «In nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12). Giovanni Paolo II, nel messaggio ai giovani per la Giornata Mondiale del 2000 scrive: «Ciò che contrassegna la fede cristiana, rispetto a tutte le altre religioni, è la certezza che l’uomo Gesù di Nazaret è il Figlio di Dio, il Verbo fatto carne, la seconda persona della Trinità venuta nel mondo. Questa è la “gioiosa convinzione della Chiesa fin dall’inizio”».

Ma è chiaro che molti oggi, non avendo vera fede nel Verbo incarnato, rimangono indifferenti di fronte all’affermazione che Gesù è l’unico salvatore. Tutti però possono riflettere sulle radici della nostra schiavitù e sulla salvezza necessaria, come abbiamo cercato di fare nel primo capitolo. Su questa base è più facile intuire che soltanto Gesù è portatore di un amore innocente e pertanto salvifico. Ci vorrà pur sempre la fede per credere che Gesù è il Verbo incarnato e per vivere la filiazione divina e la vita trinitaria; tuttavia quella consapevolezza renderà più facile desiderare e chiedere il dono della fede.

 

Ancora una premessa. Pensando alla salvezza eterna, assolutamente decisiva, occorre aver presente l’insegnamento del Concilio Vaticano II: «Coloro che senza loro colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di compiere fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della coscienza, costoro possono conseguire la salvezza» (Lumen gentium, 16). Ma una simile salvezza attraverso l’ignoranza, che Dio rende possibile grazie alla sua misericordia che vuole salvare tutti, comporta che comunque si perda il meglio della vita terrena, cioè l’incontro personale con Gesù di Nazaret e la possibilità di imparare ad amare gli altri in modo genuino. È pur vero che molti sono cattolici più di nome che di fatto, e che tanti non cristiani possono essere più retti di loro, tuttavia l’incontro meraviglioso con Cristo può avvenire soltanto nella Chiesa.

La rivelazione di Dio-Amore

Di fronte all'uomo ammalato di amore, il Dio dell'amore annuncia subito la sua salvezza. Getta subito il seme della speranza, anche se la gestazione del dono nuovo e inaudito sarà lunga. La Sacra Scrittura, come rileva sant’Agostino, dalla prima parola all’ultima non parla d’altro se non dell’amore del Padre per l’uomo. L'Antico Testamento svela numerosi bagliori della misericordia divina. Tuttavia manca ancora il reale contatto con il dono ontologico (e cioè con un vincolo reale e non solo con un’intenzione benevola) dell'amore divino. Si rimane ancora in un rapporto fondamentalmente sacrale, attraverso le istituzioni e la Legge, incapaci di vincere l'idolatria, perché ancora legati alla «tribù» d’Israele, a un popolo particolare che si contrappone agli altri.

Il cristianesimo è la rivelazione del Dio-Amore. Il suo messaggio centrale è proprio questo: Dio è Amore, e in questo messaggio – con il dono reale che vi è connesso – c'è la salvezza da tutti i mali e l'elevazione del desiderio della felicità alla beatitudine della comunione trinitaria. «Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1, 18). Gli angeli non riescono a comunicare con gli uomini, perlomeno in modo che l’uomo possa prenderne chiaramente coscienza: l’uomo ha bisogno che tutto passi attraverso i sensi per giungere alla conoscenza spirituale. Per questo, come appare dalle parole citate, il Figlio si è incarnato, per parlaci umanamente, con parole e fatti (fino alla Croce!), dell’amore del Padre e del disegno trinitario di fondare con noi una nuova Alleanza, in comunione eterna con Lui (la comunione trinitaria è l’archetipo della comunione significativa, la fonte genuina ed eterna del consenso per vivere).

Gesù morto e risorto entra in comunione viva con noi a opera dello Spirito Santo, che «il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà con voi». Ma continua Gesù: «non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (Gv 14, 17-19). C’è un chiaro parallelismo tra il mondo che non conosce lo Spirito e non vede Gesù, da una parte, e dall’altra i veri discepoli di Cristo che conoscono lo Spirito e vedono Gesù presente per sempre tra noi e in noi. Il cristianesimo non è l’insegnamento di un maestro morto santamente, né un codice morale come il Corano. È Cristo presente, l’Amico che muore per me, il Salvatore unico con il suo amore innocente che sgorga dalla fonte inesauribile della Trinità, colmando il mio cuore bisognoso fino allo spasimo di un amore che vado mendicando in tutti i gesti della mia vita. Si diventa «consorti», con vero amore sponsale. Quest’incontro con la verità, che è Cristo stesso, non si dà in nessun’altra religione e fa del cristianesimo una vita nuova, nell’amore.

Gesù dice che solo lo Spirito Santo può convincere il mondo in quanto al peccato (cfr Gv 16, 8). La coscienza normalmente riesce a convincerci riguardo ai peccati al plurale, alle trasgressioni. Non c’è bisogno dello Spirito Santo per essere convinti che rubare non è un bene. Ma il peccato al singolare, la prigione del cuore, si svela solo al calore e alla luce dello Spirito Santo. Finché non si giunge alla scoperta reale di quanto sia narcisista ed egoista il nostro cuore, non si capirà mai la natura della salvezza. In realtà le due conoscenze procedono insieme. E così ci si convince del peccato nella misura in cui si va scoprendo l’immensità dell’amore che Dio, in Cristo, ha per noi. Così non c’è rischio di essere pessimisti, scoraggiati, o troppo severi con gli altri.

 

Si parla di amore «sponsale» e di dono «ontologico». Cerchiamo di spiegarci. Sponsale indica proprio quel legame forte di cui tutti abbiamo bisogno: condividere la propria sorte con altri. Vedremo che questo si può dare in modo salvifico, di vera libertà, soltanto nella Chiesa. Parlando di dono ontologico vogliamo distinguere l’amore salvifico, che crea un legame vero tra noi e Dio, attraverso il nostro essere, dai tanti modi in cui si può intendere l’amore a livello sentimentale, spirituale, di considerazione. Una cosa è amare i bambini e un’altra è generarne uno; una cosa è amare i poveri e aiutarli quando si può, mentre ben diverso è condividere la loro sorte (sponsalità). Quando san Paolo dice: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5), non parla di un Dio che ci guarda benevolo dall’alto e ci offre qualche grazia: ci parla di un amore riversato nei nostri cuori, ci parla del dono dello Spirito Santo, la terza persona della Santissima Trinità, che ci è stato dato.

Siamo di fronte al dono ontologico, nell’essere. Corrisponde in gran parte alla vita sacramentale. Molti di noi spesso non capiscono il valore dei sacramenti istituiti da Gesù Cristo; è fondamentale accorgersi che si tratta di qualcosa di sostanziale per la salvezza nella fede. Gesù stesso al culmine della sua rivelazione, nelle ultime parole dell’ultima cena narrata da san Giovanni, dice: «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 26): è il grande motivo che ha mosso il Verbo a incarnarsi e a morire per noi, rivelando a parole e fatti il suo disegno di averci per sempre in comunione trinitaria. In queste parole è indicato il legame intratrinitario che c’è tra il Padre e il Figlio: questo stesso legame il Figlio, Gesù, vuole che vi sia tra noi e il Padre e anche tra noi e Lui. Per questo Giovanni Paolo II, anni fa ebbe a dire che al demonio non dispiace che si creda nel Dio della creazione o in quello dell’onnipotenza. Lui piuttosto attacca l’Alleanza. In altre parole, se crediamo che Dio ha creato il mondo e giudica i buoni e i cattivi, questo non ci fa scoprire l’amore che Dio ha per noi: un posto tra i buoni ce lo si ricava sempre, magari in un angoletto, e si continua a vivere idolatricamente. Il gioco riesce ancora meglio con il Dio dell’onnipotenza, che da sempre è il più gettonato. Da Lui si va per ottenere favori, pensando a sé, e non al suo amore per noi. Il demonio invece attacca il Dio dell’Alleanza, il Dio che si invaghisce del peccatore e mostra la sua misericordia, stabilendo un patto nuovo ed eterno col quale Egli stesso si impegna a dare a degli egoisti tutta la sua vita, in un legame reale che ci rende figli suoi, con la vita del Verbo incarnato. Non si può dire di sapere cos’è il cristianesimo se non si vive coscienti dell’Alleanza.

 

Sempre nell’ultima cena, Gesù, in un clima di grande apertura del suo cuore, con uno stacco rilevabile nel testo, si confida: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15, 9-11). Commenta J.-M. Perrin, nella sua opera Il mistero della carità: «C’è tutto in queste parole: la sovrabbondante carità di Dio che fa entrare nella sua verità e le magnifiche esigenze e le realtà della nostra vocazione. Chi capirà queste parole saprà tutto quello che c’è da sapere sul cristianesimo, chi le gusterà conoscerà la dolcezza del cuore di Dio, chi le vivrà sarà fedele discepolo di Cristo».

Infatti, di fronte al problema più acuto dell'uomo, poter credere a queste parole è già salvezza. La gioia piena si può dire solo del cielo, del paradiso; eppure Gesù ce la promette già su questa terra. Questa gioia incontenibile è legata al «rimanere» nell'amore che Gesù ha per ciascuno di noi[6]. Ma, nella misura in cui siamo avviluppati dall'idolatria, queste parole non diventano vita cosciente in noi e l'amore salvifico, pur nella presenza reale operata dai sacramenti, rimane per così dire «addormentato» (caritas remissa), inoperante a livello della presa di coscienza e pertanto della vita vissuta; parlarne è ancora mera teoria, catechesi fredda. Bisogna distinguere la mente, capace di astrarre, dallo spirito, che è vita. Occorre una vera preghiera perché la Scrittura diventi vita che coinvolge l’intera persona, anche il fisico.

«Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi»; non basta una vita di contemplazione per penetrare la ricchezza e la profondità dell'amore che il Padre ha per il Figlio; eppure, «così» siamo amati anche noi. In quel «come» e in quel «così» non soltanto c'è la soluzione radicale e definitiva del peccato che grava intimamente su ogni cuore, ma c'è in più il dono di amore «che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 19) e ci dà i legami e la ricchezza della vita trinitaria. «Come» il Padre ama il Figlio? Forse limitatamente? O momentaneamente? Forse ha mille figli per amarli indistintamente? No, ha un solo Figlio. E «così», allo stesso modo, in esclusiva, con tutto il «peso» divino, è amato sempre ciascuno di noi. L'amore di Dio per noi è un amore al singolare, originale per ciascuno. Ecco la grande novità rispetto al «Dio della tribù», che protegge come gruppo, nell'idolatria, anche quando il contenuto fosse positivo.

 

Facilmente il cristiano parte dal primo comandamento: «amare Dio con tutto il cuore». Ma ciò può rovinare la vita spirituale e lasciarla sterile! È come partire da un tronco senza radici. Il comandamento ha bisogno del dono che lo precede e lo sostiene. Perché devo amare Dio? Perché Lui mi ama per primo. Se partissi dal mio amore per Dio, piccolo sarebbe il mio amore, perché piccolo è il mio cuore, anche quando amo con tutto il cuore. Mentre se parto dal suo amore entro nell’oceano della misericordia; capisco che il suo amore è infinito anche quando sbaglio, anche per me peccatore. Capisco che Dio non può amare un altro, per santo che sia, più di quanto ama me, pur con i miei egoismi. E ciò porta alla gioia liberante del sapersi amati.

Gesù, che viene a rivelare l’amore del Padre, quando parla direttamente di come il Padre ci ama, mette una grande enfasi nelle sue parole. A Nicodemo dice: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16). Quel «tanto amato» indica un parlare appassionato. Ugualmente nell’ultima cena: «Il Padre stesso vi ama» (Gv 16, 27). Fa un esempio sorprendente: «Anche i capelli del vostro capo sono contati»; nessuna madre può dire questo.

L'uomo ha bisogno dell'amore: «chi non ama vive nella morte» (1 Gv 3, 1); la sua grande schiavitù è non trascendere l'io per cogliere le fonti dell'amore. Cercando questa fonte in sé, nelle proprie opere, o negli altri, rimane profondamente deluso, schiavo di un bisogno che non può soddisfare; il suo amore rimane incatenato. Proprio per questa ragione, dal convincimento vitale che Dio ci ama dipendono buona parte della nostra salvezza e tutta l'opera dell'evangelizzazione. La buona novella, la parola che salva, è la parola che rende consapevoli di essere «amati da Dio» (Rm 1, 7). Per questo Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Christifideles laici, può dire: «L’uomo è amato da Dio. È questo il semplicissimo e sconvolgente annuncio del quale la Chiesa è debitrice all’uomo. La parola e la vita di ciascun cristiano possono e devono far risuonare questo annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è Via, Verità, Vita (Gv 14, 6)» (n. 34). Se la Chiesa non riesce a mettermi in qualche modo in contatto con il dono ontologico dell’amore vero, fallisce la sua missione. Giovanni Paolo II aggiunge che «in questo annunzio consiste la nuova evangelizzazione che la vecchia Europa e il mondo intero attendono». Se il Vangelo è Buona Novella, se è novità, lo è soltanto in quanto rivela il Dio-Amore. Troppi cristiani, come abbiamo già osservato, vivono ancora «sotto la legge»: inseguono il successo protetto da Dio. Ma il Nuovo Testamento ha operato la vera rivoluzione: è possibile vivere di amore. E pertanto ci impegna unicamente nell'imparare ad amare gli altri, perché ci è stato rivelato e dato l'Amore. Non è più soltanto la protezione offerta dai rapporti sociali forti, ma l'amore per l'uomo, fino al nemico, nel Regno di Cristo.

Solo lo Spirito Santo può «convincerci» di questo amore. San Tommaso dice: «Lo Spirito Santo stesso è il Nuovo Testamento, operando in noi l'amore, pienezza della legge» (Commento alla Lettera agli Ebrei, 8, 10). È la Nuova Legge, la legge scritta nel cuore, promessa dai profeti; la legge sposata perfettamente con la libertà, perché è dettata soltanto dall’amore donato[7].

Capire meglio la passione di Gesù[8]

C’è un aspetto dell’amore di Cristo per noi che non sempre è messo bene in luce. Soltanto se si capisce da che male siamo afflitti, se si capisce che il nostro cuore non può assolutamente vivere se non si sente profondamente riconosciuto da altri, si può intuire meglio la natura della morte redentiva di Gesù. In genere ci si ferma ai dolori della crocifissione; che furono tremendi, perché la crocifissione non lede organi vitali e in pratica si muore per il dolore straziante. Ma di fronte alle atrocità che ogni giorno vediamo sugli schermi, di fronte a tante morti ingiuste, l’uomo d’oggi non si commuove più di tanto al pensiero della morte in croce. Nel considerare l’angoscia di Gesù nel Getsemani, e il suo sudar sangue (che si spiega soltanto con una paura acutissima, che spezza i capillari) si pensa allo spavento che umanamente si può provare davanti a una condanna a morte così agghiacciante. Eppure, dei tanti martiri che sono morti in croce, parecchi morivano cantando. Non può essere la prospettiva della morte in sé, per quanto dolorosa, a rendere Gesù più pusillanime di tanti martiri. Ciò che sfugge ai più è il significato di una crocifissione per la teologia ebraica di quei tempi. Nonostante il Libro di Giobbe, ai tempi di Gesù imperava una teologia che vedeva dietro la disgrazia o il dolore una punizione divina per peccati conosciuti o sconosciuti. Sicché i lebbrosi erano considerati peccatori e scomunicati, costretti a vivere fuori dai paesi (era pure una norma igienica, ma per Israele era anzitutto un fatto religioso). Leggendo il Vangelo si nota in numerose occasioni questa mentalità riguardo a persone malate, menomate o storpie: «che male hanno fatto…?». Orbene: coloro che venivano impiccati o crocifissi erano considerati maledetti e scomunicati da Dio stesso: «l’appeso è una maledizione di Dio» (Dt 21, 23). San Paolo, nella Lettera ai Galati dice: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno» (Gal 3, 13).

Per san Paolo ciò che ha fatto angosciare Gesù nel Getsemani è chiaro: il Messia ha voluto soffrire «in carne di peccato» (cfr Rm 8, 3; Eb 2, 18), cioè come soffriamo noi peccatori quando la nostra «chiesa» ci scomunica e noi cadiamo in angoscia, fino al suicidio. Gesù non è stato condannato da nemici, ma dai suoi capi religiosi, dai custodi della Legge data da Dio a Mosè. Se muore in croce, è un segno evidente che Dio stesso lo maledice e lo scomunica, decretando l’eliminazione dal consesso del popolo di Dio[9]. Non è facile immedesimarsi nei sentimenti umani che Gesù ha patito in quel momento: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34). Ma neppure ci è del tutto impedito, se abbiamo presente che l’immenso portato della Passione non si può ridurre al vissuto esistenziale, ma neppure può prescindere da esso. Possiamo intuire qualcosa se pensiamo a ciò che può accadere a tutti noi: se c’è da difendere persone care, tutti sappiamo rischiare la vita. Frequentemente si legge di giovani o parenti morti in montagna per salvare un loro compagno. Dieci minatori, un anno fa, sono morti in Belgio per salvare un loro compagno rimasto intrappolato; lui si è salvato e loro sono morti. Tutti, su questa terra, anche le persone più egoiste, hanno un legame profondo con qualcuno che all’occorrenza potrebbe portarli anche alla morte: tutti. Incredibile ma vero. E invece il problema nasce quando siamo giudicati male dai «nostri»; questo è duro e addirittura insopportabile. Le nostre peggiori paure riguardano la possibilità di deludere gli «altri-per-me», o peggio, di venire rigettati da loro.

San Luca è l’evangelista che, alla scuola di san Paolo, conosce bene il vero dramma della passione di Gesù. È nel suo Vangelo dove sentiamo Gesù dire: «perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori» (Lc 22, 37). Gesù, davanti al suo popolo e ai capi, appare come il più grande malfattore, con garanzia divina. A differenza dei due ladroni che hanno ucciso o rubato oro, Lui voleva rubare il cuore d’Israele, la sua speranza, la messianicità.

Tutto ciò è ben conosciuto dalla teologia, forse un po’ meno dalla catechesi. E un approfondimento decisivo riguarda anche la Risurrezione e l’Ascensione al cielo di Gesù. Gesù non si è presentato davanti al Sinedrio dopo la sua risurrezione. Forse istintivamente noi pensiamo che in realtà si è manifestato sufficientemente ad alcuni ebrei (apostoli e discepoli), mentre ha snobbato i suoi nemici. In realtà non erano affatto i suoi nemici, ma coloro che dovevano garantire la sua messianicità. Le apparizioni postpasquali sono particolari: fugaci, a volte strane; si sottraggono al desiderio degli apostoli di usarle come prova davanti ai capi. E con l’Ascensione si conclude ogni possibilità di riscatto umano, ogni possibilità di vittoria. Il consenso umano, per dirla con il gergo qui usato, in Gesù ha ricevuto lo scacco massimo, l’angoscia della sconfitta definitiva. L’Ascensione va intesa, dal punto di vista umano, non come un momento di gloria (la gloria cui ascende il Cristo è quella della Trinità), ma piuttosto come damnatio memoriae: impedisce il riscatto umano, sancisce definitivamente l’obbrobrio per Gesù nella storia futura di Israele. Proprio come succedeva a Roma: ancora oggi si vedono statue decapitate o lapidi scalpellate per cancellare il nome e ogni memoria del malcapitato. Gesù ha provato umanamente lo sconforto che proveremmo noi peccatori di fronte a un destino di perpetua vergogna; per questo sudava sangue nel Getsemani. Solo capendo la natura dell’Ascensione si possono capire la natura della Risurrezione e la radicalità della Croce. Quando san Paolo vede Gesù risorto, sulla strada di Damasco, capisce nello Spirito che il «maledetto» secondo la Legge era in realtà il Benedetto di Dio. Soltanto che non aveva cercato il riscatto presso il Sinedrio, non si era presentato in piazza (sarebbe bastato un momento, e lo avrebbero proclamato Messia). Come risultato umano della sua avventura tra gli uomini  aveva scelto la sorte dello scacco definitivo, proprio il contrario di ciò che Saulo perseguiva con grande zelo e con tutte le sue forze, e cioè il riconoscimento da parte del suo popolo con Dio come garante, ciò che gli ebrei cercavano nel successo.

C’è chi si sorprende paragonando la serenità con cui Socrate affronta la morte con l’angoscia di Gesù nel Getsemani. Ma c’è un’immensa differenza tra chi muore per la causa, nel consenso dei suoi, e chi muore scomunicato dalla propria patria, dalla propria chiesa, dalla propria casa. Tutti siamo pronti a morire per la causa e tutti abbiamo una causa, anche se la maggior parte di noi non lo sa. Socrate muore in coerenza con le sue idee, davanti ai suoi discepoli. La sua causa non era Atene, ma il ruolo sapienziale che lui svolgeva in Atene. Gesù invece, sposa la condizione umana fino a mettersi in grado di soffrire come noi: «in carne di peccato», cioè per le conseguenze della concupiscenza. In Lui, naturalmente, non ci sono né il peccato originale né quella concupiscenza che causa in noi l’egoismo abissale. Ma Egli può provare la sofferenza acuta che si prova quando la concupiscenza è frustrata: se non fosse così rimarrebbe troppo lontano dalla nostra condizione esistenziale per poter essere il nostro salvatore. Gesù muore per una causa soprannaturale, che permette però la sofferenza umana di chi muore rifiutato dai suoi. Gesù non ha paura della morte fisica; perlomeno non ha certo più paura dei martiri e degli eroi che sono morti per la propria causa. Sente però la gogna, la scomunica del popolo, garantita da Dio, secondo la Legge. E ciò come destino definitivo sulla terra, anche se ora, nella fede di innumerevoli popoli, facciamo fatica a capire il suo destino umano di annientamento. Gesù ha assunto su di sé la più grande lontananza dalla fonte dell’amore («Dio mio perché mi hai abbandonato?») perché il suo amore filiale attraversasse ogni abisso del cuore e ritrovasse il Padre di tutti, il Padre dei peccatori.

La sera di Pasqua, rivedere Gesù dopo l’immensa delusione della Croce fu gioia grande per gli apostoli. Probabilmente pensarono che in pochi minuti ci sarebbe stato il grande riconoscimento ufficiale da parte dei capi del Sinedrio. Ma non era una gioia cristiana. Era ancora una gioia ebraica, il ritrovamento del messia perduto sulla croce; il ritrovamento del potere maturato accanto al messia. Grandissima soddisfazione, ma non certo un cuore liberato, salvato; non era ancora un amore genuino. Soltanto il dono dello Spirito Santo cambierà il loro cuore, facendolo capace di capire che Gesù sulla croce ha donato per sempre ogni gloria umana, ogni stima, ogni giustizia; tutto ciò che noi temiamo massimamente di perdere. E lo ha fatto per me! Ciò vuol dire che la risurrezione è la proclamazione dell’amore di Dio per l’uomo, è il sigillo divino a un dono totale di sé all’uomo. La risurrezione non recupera la sconfitta totale di Gesù davanti al suo popolo. Noi che veniamo dalla gentilità, lontani dalla sensibilità ebraica, siamo portati a considerare la risurrezione come vittoria definitiva di Gesù, a riscatto delle sue sofferenze fisiche. Eppure dopo seicento anni, nel Talmud, Gesù è ancora chiamato l’«appeso», il maledetto da Dio. Da parte del suo popolo la scomunica non è mai stata ritirata.

Se Gesù fosse andato in piazza dopo la risurrezione, avremmo la più grande soddisfazione idolatrica degli uomini sulla terra: il popolo di Israele avrebbe potuto fregiarsi di seguire il grande messia, l’invincibile, l’immortale, sfruttando il potere divino contro i nemici e per una amministrazione della legge senza uguali. Ma non è questa la redenzione. Se gli ebrei potessero capire (ma ci vuole lo Spirito Santo, come per noi) che Gesù è risorto per glorificare divinamente la natura umana, e non per rendere padrone l’uomo del potere divino, forse allora intenderebbero di quale promessa antiidolatrica sono ancora portatori. Forse potrebbero capire che sono destinatari, nelle promesse loro fatte, di un amore che sana ogni egoismo, ogni divisione, ogni giudizio dell’uomo sull’uomo, ogni Babele, ogni scoraggiamento personale. E aiuterebbero noi, in gran parte ancora «gentili» e pagani, a convertirci con tutto il cuore e ad abbandonare i mille inganni idolatrici di cui l’occidente ha riempito il mondo.

«Mi ha amato e ha dato la sua vita per me»

Tutto diventa sconvolgente e beatificante (salvifico) quando, con l’azione dello Spirito Santo, si giunge a vivere di questa fede in modo che coinvolga tutta la nostra persona. Non una fede nozionale; non un semplice catechismo dove imparo che Gesù è morto per gli uomini, ma la scoperta vitale che Gesù è morto per me! Ed è risorto per me! È qui con me: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20); questa affermazione è più volte ripetuta, in forme diverse, nell’ultima cena raccontata da Giovanni.

San Paolo può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me» (Gal 2, 20). San Paolo non aveva conosciuto Gesù sulla terra; non poteva intendere che Gesù era morto per lui come forse poteva uno dei suoi apostoli dopo tre anni di piena condivisione della vita. Eppure la sua fede è chiara: «Per me!». Il Demonio sa benissimo che il Verbo si è incarnato ed è morto per gli uomini; ma non può dire: per me. Conosce tutto il catechismo a memoria, ma non può dire che tutto ciò è avvenuto per lui. Invece ciascuno di noi può dire con piena certezza che Dio ha creato il mondo e ha inviato il Verbo a morire proprio per lui. E Gesù risorge e si fa eucarestia per ciascuno di noi. Il Vangelo è parola di vita per me, proprio per me! Ogni parola del Vangelo è pronunciata da Dio, da Cristo, oggi, per me[10]. Nella sua prima Enciclica, la Redemptor hominis, Giovanni Paolo II ci esorta a impadronirci profondamente della redenzione; solo così scopriremo il valore che la nostra vita ha per Dio, fino a riempirci di stupore per noi oltre che di ringraziamento e di lode per Lui. E aggiunge «Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, “nel mondo contemporaneo”» (n. 10). Come dire che se liturgie, sacerdoti, teologie e catechismi, eccetera, non riuscissero a far sorgere in qualcuno (per fortuna ci riescono) un po’ di stupore per quanto siamo amati, la Chiesa fallirebbe miseramente il suo scopo e non servirebbe se non per una certa organizzazione di cose umane.

Se un giovane pensa un poco a come dipende dalla considerazione altrui, a come è sensibile ai riconoscimenti o all’insuccesso davanti agli amici, a come si esalta nell’amore umano e a come si abbatte fino all’angoscia se viene lasciato, può intuire qualcosa della schiavitù del proprio cuore e può intuire un piccolo barlume di come è beatificante il vivere nell’amore di Cristo, tutto per lui. Nella Lettera ai giovani che ha scritto nel 1985, Giovanni Paolo II si sofferma sullo sguardo personalissimo di Gesù al giovane ricco: «“Gesù, fissatolo, lo amò”. Vi auguro di sperimentare uno sguardo così! Vi auguro di sperimentare la verità che egli, il Cristo, vi guada con amore!. Egli guarda con amore ogni uomo. Il vangelo lo conferma a ogni passo. Si può anche dire che in questo “sguardo amorevole” di Cristo sia contenuto quasi il riassunto e la sintesi di tutta la buona novella» (n. 7). Anche in questo caso, dire che praticamente il vangelo si riassume nel sentirsi amato, equivale ad avvertirci che se non sentiamo l’amore personale di Gesù per noi, vanifichiamo la redenzione nella sua dimensione storica[11].

Non vivremo dell’amore personale di Gesù per noi se non c’è in noi il desiderio sincero di corrispondere con tutto il cuore. Un cristianesimo a metà non soltanto non esiste, ma, come diceva Kierkegaard, è la più grande sciocchezza che si possa dire. Nel Sinodo dei Vescovi europei, dopo la caduta del Muro di Berlino, parlarono quattro giovani reduci dalla Giornata mondiale della gioventù di Czestochowa, chiamati a far valere i desideri dei giovani nei riguardi dei pastori. Una ragazza portoghese disse le parole che qui riassumo: «Da giovane cercavo la libertà per come la offre il mondo e mi sentivo sempre più vuota. La trovai quando trovai Cristo e i legami di amore nella sua Chiesa. L’obbedienza alla Chiesa mi fa sentire libera. Per questo noi chiediamo ai nostri pastori che ci diano Cristo intero. Non un programma ridotto come quello di alcuni uffici pastorali, mossi dalla paura di perdere i giovani, ma un Cristo vero. Un programma a metà lì per lì ci attira e ci alletta, ma dopo un anno ci stanca».

 

Nella risposta a Cristo occorre partire sempre dal fatto che noi siamo egoisti e ricadiamo nel nostro peccato, nel nostro amor proprio. Se lo riconosciamo con umiltà, potremo sempre ricorrere alla misericordia di Gesù. La grande scoperta è quella del perdono divino; di Gesù che va oltre il perdono personale quando chiede al Padre di non far valere la sua giustizia, ma la misericordia anche per coloro che lo hanno messo in croce. Un perdono infinito. I nostri peccati, il nostro egoismo, danno occasione al Padre per-un-dono inaudito. Ecco il perdono come cuore della Nuova Alleanza. Il titolo principale per appartenere a Cristo è dato dai nostri peccati: non sono venuto per i sani ma per gli ammalati, non sono venuto per i giusti ma per i peccatori, per le «pecore perdute», ripete spesso Gesù. Quando ci smarriamo, scopriamo che Gesù è venuto per la pecorella smarrita. Quando siamo colpevoli, scopriamo il Salvatore: io non ti giudico. Dire «non ti giudico» vuol dire non ti condanno, non ti separo da me là dove hai peccato; tu mi vali quello che valgo io. Gesù giunge a dire a una adultera che lei gli vale come sé stesso, come il Figlio di Dio incarnato, come l’uomo perfetto.

Tutto ciò va perfettamente d’accordo con la nostra libertà e responsabilità; con l’impegno a fare il bene, a risorgere ogni volta che sbagliamo, nella gioia di essere amati con i nostri peccati e con il desiderio sempre più concreto e operoso di rispondere col bene all’amore di Cristo. È la gioia di vedere Gesù che non si è stancato dei miei peccati, che mi mette le ali ai piedi e mi fa agire nel bene. Se non c’è questa conseguenza operativa, vuol dire che con i nostri peccati non abbiamo incontrato Gesù, ma soltanto un «buonismo» assai comodo ed egoista. È necessario riconoscere i nostri peccati e opportunamente confessarli nel sacramento della riconciliazione, per poterli lasciare completamente dietro le spalle e pensare al bene. Possiamo sempre riconoscere i nostri peccati, anche più volte al giorno, pur confessandoci soltanto periodicamente, quando i peccati non sono mortali; l’importante è che ogni volta siamo sinceri. Bisogna non scoraggiarsi mai e non lasciare mai di lottare per il bene. Del resto Gesù dice all’adultera: va e non peccare più, chiamando il male «peccato». Quella donna, salvata dall’amore, sicuramente cambiò vita.

 

Il perdono svela il cuore di Dio. Soltanto un grande approfondimento della teologia trinitaria può spalancare le porte della speranza nel millennio iniziato. Tutta l’impostazione che abbiamo dato al problema della salvezza si rifà in definitiva all’origine e al destino trinitario della nostra vita. Il cuore della rivelazione è il disegno del Padre di averci come figli, nati alla vita divina, con lo stesso legame di amore che ha il Figlio con il Padre celeste.

Prima di affrontare qualunque problema umano occorre ricordarsi che il motivo per cui Dio ha voluto tutto è in questo disegno. Dio, rivelando, opera: rivela il suo disegno di averci per figli, suoi familiari, e realizza questo disegno. Amare genuinamente, vivere nella fede in Cristo che mi ama e dona la sua vita e tutti i suoi poteri per me, vivere la storia pieni di speranza, senza temere la vita e la morte, senza temere l’insuccesso, collaborare a una civiltà dell’amore dove si ringrazia Dio per la bellezza della vita: questo è salvezza, che incomincia dalla nostra vita terrena. Nulla è dato di perfetto sulla terra, ma questa è la salvezza. Altrimenti si vive esposti all’angoscia, sicuri soltanto nel successo garantito dagli altri e pertanto per pochi momenti, con una gioia che non è genuina, d’amore, ma di soddisfazione, con una strumentalizzazione sottile anche degli amori più belli come l’amore dell’uomo e della donna. Non c'è alternativa tra salvezza e schiavitù del cuore. C’è una grande differenza qualitativa tra un cuore salvato e un cuore che si esalta perché riconosciuto come una specie di dio per qualcun altro (tra l’altro perché il successo crea assuefazione, come le droghe).

Postilla sull’esistenza di Dio

La cultura di oggi istilla idee strane e vaghe sull’esistenza di Dio. Ne nascono alibi e incertezze al momento delle scelte. Ricordiamo che nella misura in cui il senso della vita arride, nel successo, si è sempre sicuri di aver ragione. Un giovane bene avviato può essere impermeabile al problema di Dio. Ciò che rende inevitabile il tema di Dio è la sofferenza, e non certo per concludere che «Dio non esiste altrimenti non si spiega perché fa soffrire i bambini». Proprio perché bambini e adulti conoscono spesso grandi sofferenze, non basta che qualche intellettuale dica che Dio non esiste. La vita deve avere senso in tutte le circostanze, altrimenti per molti la terra diventa un inferno. Quando si vedono i miracoli dell'amore in tanti sofferenti, si può intuire che un amore infinito offre senso infinito. È bene ritornare al senso comune schietto, constatando che, lungo la storia, tutto ciò che è stato affermato contro le verità semplici e costanti del senso comune prima o poi è passato di moda. Intanto, rifugiarsi nell’agnosticismo è facile: evita di scegliere contro Dio ed esime dall’impegnarsi a vivere coerentemente (se non con le leggi del gruppo!). Basta poco, con il buonsenso, per capire che gli agnostici hanno sempre torto. Tra gli agnostici ci stanno spesso anche coloro che si professano credenti, perlomeno a giudicare dal modo di comportarsi, e tra coloro che si professano agnostici tanti sono in sincera ricerca e disponibili al dialogo con tutti. La condizione terrena, a ben vedere, pone sempre un velo su Dio, che può portare facilmente a navigare nell'agnosticismo. Tuttavia è chiaro che Dio o c'è o non c'è. Come può Norberto Bobbio dire che la sussistenza oltre la morte è un problema che non lo interessa? Un’affermazione del genere ha senso soltanto perché serve a mantenere la sua immagine di pensatore critico. Si può ritenere che tutto finisca sulla terra, ma non si può dire che è un problema senza interesse. Di fatto è l’unico problema veramente importante, salvo preferire la momentanea e fragile sussistenza nel riconoscimento degli uomini. Anche così, però, il problema resta pur sempre decisivo.

Nelle pagine precedenti abbiamo indicato varie piste che portano necessariamente a Dio[12]. Il tema di fondo di questo libro indica un problema di amore più grande dell’istinto di conservazione, e pertanto della vita fisica. Implica legami necessari carichi di assoluto. Mostra che di fatto nessuno può essere ateo, perché ha la sua idolatria, il suo sostitutivo del riconoscimento divino. Ha i suoi riti. Ha soprattutto la sua «chiesa». Abbiamo cercato di mostrare che, in quanto siamo bisognosi di un riconoscimento forte, carico di assoluto, un tale riconoscimento non ci condanna alla schiavitù di essere in balìa della volontà altrui soltanto se viene da Dio.

Ma ci sono tante altre piste che portano sempre a Dio, non con una costrizione razionalista, quasi che Dio possa essere conosciuto dalla mente umana, ma per semplice razionalità. L’ateo prima o poi deve abbandonare la ragione. Non è per nulla vero che la scienza dimostra che si può fare a meno di Dio. È più ragionevole dire «il mondo è stato creato» rispetto a dire «non so come sia venuto fuori». Tra l’altro perché questa affermazione non riguarda soltanto l’inizio (che non potremo mai conoscere perfettamente), ma soprattutto la causa, l’origine di quell’inizio e del suo attualizzarsi, uguale allora come adesso. L’evoluzionismo non spiega l’emergere delle forme. Le forme dei corpi non sono corporee e neppure spirituali, se non negli uomini. Come il linguaggio non si spiega con il linguaggio (lo ha dimostrato Wittgenstein), così la forma emerge sempre dalla materia: un gatto è un gatto, e non si spiega solo con gli atomi[13]. Non è molto razionale dire che tutto si spiega con gli elettroni, i protoni e i neutroni. Non è facile spiegare con essi l’autocoscienza, la libertà, l’amore, la vista, la sessualità o le ali degli uccelli che sfruttano l’aria senza aver nulla in comune, materialmente, con essa. Le perfezioni del creato sono stupefacenti e non dipendono dal caso. Caso e necessità si danno sempre insieme nei fenomeni naturali e non si può ridurre la necessità (la perfezione) al caso, come fanno in modo volontaristico i materialisti. Neppure si pretende di dimostrare l’esistenza di Dio con la scienza. Si dice soltanto che tutto è più ragionevole con Dio, nulla è ragionevole senza Dio. Con la stessa convinzione diciamo che non si può dimostrare matematicamente che la musica di Mozart sia bella, che per sposarsi è meglio innamorarsi, che l’amicizia esiste, perché sostenere il contrario è molto meno ragionevole.

È stato detto: nella penombra ha ragione chi dice che esiste la luce. Dio ci lascia nella penombra perché ha bisogno di sostenere la nostra libertà storica, altrimenti l’amore non fiorirebbe. C’è sufficiente luce per chi cerca sinceramente, e c’è sufficiente oscurità per non vedere nulla da parte di chi non vuol vedere. Naturalmente uno scettico convinto ribatterà che da queste parole si deduce che credere coincide con voler credere. Ma semmai è più facile sostenere il contrario: non credere è voler non credere; ci sono meno appigli razionali. Diceva Dino Segre, che fu un violento scrittore antireligioso negli anni ’30 ma in seguito si convertì alla fede cattolica: «Attenti, attenti a non prendere troppo sul serio certe “ragioni” degli scettici. Ero tra loro e posso testimoniarvi che quelle ragioni in realtà non c’erano, anche se ero brillante nel fingere di averle. Non lasciatevi impressionare dalle frasi a effetto: ne ero maestro e so come, spesso, dietro non ci sia che insicurezza e vuoto». Quante volte si rimane esterrefatti davanti agli argomenti usati contro la Chiesa, «nemica delle scienze», «che vuol sottomettere le coscienze a una morale impossibile per mantenere il potere», o cose simili. Ma ce ne sono di più intelligenti. Per esempio, è vero che la preghiera non si può riportare direttamente ai protoni e agli elettroni, ma con l’evoluzione il cervello emette queste sensazioni. Hai un bel dire che gli animali non distinguono le feste mentre gli uomini, anche atei, non ne possono fare a meno, e che non c’è segno di evoluzione in questo; diranno che è questione di neuroni. Una serie di brillanti battute scettiche la si trova nel film L’avvocato del diavolo: i sensi di colpa esistono solo perché si crede in Dio; la morale viene dal sadismo di Dio che si diverte a dare regole impossibili. Parla John Milton, il demonio: «Kevin, ti voglio dare una piccola informazione confidenziale a proposito di Dio. A Dio piace guardare. È un guardone giocherellone. Riflettici un po’: lui dà all’uomo gli istinti, ti concede questo straordinario dono, e poi che cosa fa? – te lo giuro che lo fa per il suo puro divertimento, per farsi il suo bravo spot pubblicitario del film – fissa le regole in contraddizione! Guarda, ma non toccare; tocca, ma non gustare; gusta, ma non inghiottire. E mentre tu saltelli da un piede all’altro, Lui che cosa fa? Se ne sta lì a sbellicarsi dalle matte risate, perché è un moralista, è un gran sadico, è un padrone assenteista, ecco cos’è. E uno dovrebbe adorarlo? No, mai!». Tentando un’ultima difesa del divino, l’uomo Kevin replica: «Che mi dici dell’amore?». John Milton: «Sopravvalutato. Biochimicamente non è diverso da una grande scorpacciata di cioccolata».

Non credo ci sia bisogno di contestare gli attacchi alla morale: basta un po’ di amore, appunto (e per amor proprio, per il consenso dei coetanei, quanti sacrifici non si fanno?). L’attacco, apparentemente brillante, è sull’amore. È certo che quando una ragazza (ma anche un ragazzo) si innamora, nel suo cervello succede una tempesta di scariche elettriche e di sovvertimenti chimici ben più notevole che per una scorpacciata di cioccolata. Una tempesta che si potrebbe anche indurre chimicamente, con una pillola adeguata. Ma non mi pare che il ragazzo di cui si innamora sia semplicemente una immagine virtuale capace di suscitare scariche interne alla ragazza. Così Dio non è una immagine virtuale per l’uomo, visto che tutto nella vita umana acquista significato, speranza, amore, soltanto a partire dalla fonte divina.

Anche la battuta sul Dio sadico diventa facile slogan: se è Dio che ci ha dato i sensi, noi dobbiamo usarli senza frapporre divieti. Però dovrebbe essere facile capire che ogni aspetto del reale è inserito in un disegno più grande, e il Dio che ci ha dato gli occhi per vedere ci ha anche dato le palpebre per chiuderli. Ma il vero problema è sempre quello di fondo: se il gruppo giustifica, lo slogan fa da supporto acritico per potersi ritenere ragionevoli e tacitare la coscienza o i genitori preoccupati. È molto importante capire il noto apologo del “re nudo”. Se si crea un’area culturale “forte” si arriva a giustificare tutto, e il contrario di tutto. Che l’aborto sia un omicidio è ben chiaro al senso comune (che non è l’opinione comune ma la razionalità innata in ogni uomo)

Ogni ateo o scettico ha la sua immagine davanti agli altri da difendere. Se qualcuno lo convincesse che Dio esiste si troverebbe senza «chiesa», senza «casa». Non si può dirlo anche dei credenti? Sì, a patto che si abbiano presenti due cose: la grande razionalità cattolica lungo i secoli, che si è sempre confrontata con tutte le idee, e soprattutto la Rivelazione. Proprio perché non si riesce a ragionare fino in fondo, data la prigione del cuore dolorante di amore, occorre lasciarsi penetrare dalla luce divina, dalla Parola. Non basta il ragionamento astratto. Astratti sono i numeri, né materiali né spirituali: sono immateriali. È lo spirito che vive di amore, e non si riduce alla mente che astrae. Ed è nello spirito che ci si gioca la vita e la vita eterna.

L’esistenza di Dio non è propriamente oggetto della fede; bastano il senso comune e la ragione innata. Tutto l’essere umano è condizionato dal trascendente. La fede entra in ballo quando si tratta dell’incarnazione del Verbo, della sua risurrezione, dei sacramenti e in particolare dell’eucarestia, della Trinità, della filiazione divina, della visione beatifica in cielo. Davanti alla risurrezione di Gesù, per esempio, non possiamo usare gli stessi argomenti che ci valgono per capire che Dio esiste. Eppure, con tutti i dati scientifici a nostra disposizione, con la testimonianza storica degli apostoli, con i problemi dell’uomo e dei suoi rapporti, eccetera, possiamo dire, anche in questo caso, che è più ragionevole credere nella risurrezione di Gesù (così lontana da un ragionamento scientifico) che non il contrario.

 

 

CAPITOLO III

 

la necessità della chiesa

 

 

La salvezza – la giustificazione, come si dice nel gergo neotestamentario – è dono totalmente gratuito. È amore di Dio per l’uomo peccatore, indegno di tanta considerazione. Eppure Gesù una cosa ce la chiede in cambio: ci chiede di ricambiare negli altri qualche barlume della misericordia del Padre, qualche sentimento del suo cuore per gli uomini: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Lc 6, 38). Nell’ultima cena, dove svela gli abissi dell’Amore, ci chiede in cambio, più volte, di osservare i suoi comandamenti, che però spesso riassume in uno solo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15, 12).

Il comandamento di Gesù

Un seme è dono gratuito per un terreno sterile. Però il seme, appena donato alla terra, da quella terra succhia umidità, sali e concime, moltiplicandosi cento volte. Così il dono dell’amore è per tutti, ma ha bisogno di una risposta di santità; di un impegno da parte nostra; di coerenza morale e di responsabilità verso gli altri. Gesù riassume tutta la morale in un solo comandamento: «questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15, 17), e fa notare che si tratta di un «comandamento nuovo» (Gv 13, 34). È nuovo anche rispetto all’universale «ama il prossimo tuo come te stesso». Non basta vedere nell’altro un altro sé stesso. Occorre vedere nell’altro la dignità del Figlio di Dio: «Amatevi come io vi ho amati». Gesù spiega più volte che chi ama in questo modo osserva tutta la legge. Come dire: vi hanno dato tanti precetti (basti pensare ai precetti degli ebrei); io ve ne do uno solo, perché chi lo osserva sarà portato a osservare gli altri quando l’amore lo esigerà. San Paolo gli fa eco con grande chiarezza: «Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole: perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge […] pieno compimento della legge è l’amore» (Rm 13, 8-10).

Essendo un «comandamento nuovo» è anch’esso frutto dello Spirito Santo, come la risurrezione di Gesù: realtà veramente nuove dopo la creazione. Come potremmo amarci all’altezza di quel «come io vi ho amati» senza lo Spirito Santo? Però deve essere chiaro che dove non c’è il frutto della carità fraterna tutto il resto non è redento, non è cristiano, anche se si tratta di virtù, di giustizia, di opere a favore degli altri. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35), e non da altro. Se si pensa alla Trinità, più che un “io” che ama “gli altri”, c’è un “noi” costitutivo. Il Padre non sarebbe Padre se non fosse tutto nel Figlio. L’amore è costitutivo della persona.

 

Un cuore salvato opera il bene. C’è pertanto una responsabilità terrena degli uomini che condiziona il destino eterno. La salvezza cristiana permette di far fiorire l’amore genuino, i rapporti familiari e sociali nell’autenticità di un amore vero: per la gioia e il significato delle persone, per l’edificazione delle famiglie e della sacralità della vita umana, per la responsabilità storica verso gli altri, visto che in cielo ci va soltanto la carità fraterna, come compassione e come misericordia. Gli esami del giudizio finale proposti dal Vangelo sono sulla compassione: chi mi ha visto affamato…, oppure (e sempre) sul perdono: «perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore» (Lc 11, 4), che corrisponde in san Luca alla più nota dizione di san Matteo: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12), ma che meglio ci dice che questa è la chiave del Paradiso: Dio farà dei nostri peccati esattamente quello che noi abbiamo fatto ai nostri simili nei riguardi dei loro errori, difetti e peccati: «con la misura con cui misurate sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6, 38). I difetti degli altri sono il luogo dove posso imparare ad amare e pertanto sono una fortuna per chi ha capito che la vita sulla terra, nella storia, ci è data per imparare ad amare gli altri: «Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso» (Lc 6, 32). E alla fine Gesù ci dirà: se hai usato i peccati degli altri per imparare ad amarli di più, io userò i tuoi per darti più cielo, moltiplicando il tuo atto di misericordia per circa 20.000 volte (tale è la differenza tra i 10.000 talenti e i 100 denari della famosa parabola dei due debitori insolventi). Ma se hai parlato male degli altri o li hai giudicati male in cuor tuo, anch’io ti giudicherò degno di Purgatorio (moltiplicando, anche qui, per 20.000 volte le conseguenze dei nostri atti). Naturalmente non usiamo i numeri in modo matematico, ma come eco della logica evangelica. Gesù parla del cento per uno che vien dato a chi rinuncia a qualcosa per Lui, mentre sembra proprio che la ricompensa sia molto maggiore per chi opera in favore del prossimo. Anche questo è una costante del Vangelo. Gesù, quando parla dell’amore di Dio e dell’amore fraterno, finisce sempre per fissare l’accento su quest’ultimo; per esempio del Padre nostro commenta unicamente il «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (cfr Mt 6, 14-15); un altro ottimo esempio è la parabola del buon samaritano.

In tutti i modi Gesù fa capire che nella nuova ed eterna Alleanza c’è un posto centrale per tutti. Quante volte dovremo perdonare? Pietro domanda un criterio per porre un limite. Ma Gesù risponde rapido: settanta volte sette, cioè sempre. Il perdono è infinito. Parimenti Egli abbatte ogni criterio per distinguere il prossimo, ogni misura di stima, dicendo a un’adultera: io non ti giudico. Nel cristianesimo non vale l’amore universalistico, cosmopolita, bensì l’amore per ciascuno, con l’impossibilità di negare la propria misericordia a chicchessia. Se si esclude uno solo dall’amore di Cristo, restano esclusi tutti! Basta un attimo di riflessione per capirlo bene: una fonte di luce non può lasciare zone d’ombra fluttuanti.

 

Non comprenderemo mai a sufficienza quanto sia vero e decisivo che gli uomini si trovano sulla terra per imparare ad amare gli altri, nella verità di Cristo. La storia, la libertà, la responsabilità, ci sono date per imparare ad amare gli altri. Se in questione fosse la nostra scelta rispetto a Dio, forse si sarebbe potuto fare a meno della storia, com’è accaduto per gli angeli. Ma gli angeli non hanno fratelli da portarsi in cielo: ognuno è di una razza diversa e fa specie a sé, anche se qui non c’è spazio per spiegarlo. Noi invece abbiamo figli e fratelli; ogni nostro simile è affidato alla responsabilità di tutti gli altri. San Paolo lo dice chiaramente: per vedere Gesù mi converrebbe morire subito, ma penso che dovrò restare quaggiù per edificare voi. La storia terrena esiste per pensare alla salvezza degli altri! C’è una specie di barzelletta che può aprire gli occhi. Un uomo muore e si presenta a san Pietro chiedendo del suo destino eterno. San Pietro digita le sue generalità sulla tastiera del computer e lo schermo indica il paradiso. «Mi hanno detto che in paradiso tutti i desideri si avverano». «Certamente», risponde san Pietro. «Io ne avrei uno prima di entrare in cielo: dare una sbirciatina all’inferno». «Andiamo subito». Prende una grossa chiave e apre un grande portone. Entrano in una sala meravigliosa: luminosa, decorata stupendamente, con un tavolo stretto e lungo pieno di ogni cibo prelibato. Intorno al tavolo gente smunta, angosciata, silenziosa, con due bastoncini cinesi in mano lunghi un metro e mezzo. I demonietti vigilano che nessuno bari impugnando i bastoncini a metà. E tutti sono disperati. «Andiamo via, ho capito tutto». Entrano in cielo: stessa stanza, stesse decorazioni. Stesso tavolo pieno di ogni ben di Dio. La gente è paffutella, chiacchierona, felice, ma anche loro con i due bastoncini cinesi in mano e con tanti angioletti che vigilano perché nessuno bari. Il cielo è un gioco, con le sue regole, e Dio le fa osservare. «Che differenza c’è?», domanda l’uomo a questo punto. «Aspetta e vedrai», risponde san Pietro. E difatti poco dopo vede uno che prende il cibo con i bastoncini e lo porge a quello di fronte.

C’è stato chi ha commentato questo racconto dicendo: «Ho capito tutto. Se passo la vita a risolvere i miei problemi è l’inferno, se la passo a risolvere i problemi degli altri è il paradiso». Chi fa questa scoperta e la mette in pratica ha imparato a vivere. È felice solo chi sa far felici gli altri. Nella Giornata mondiale della gioventù del 1995, a Manila, in una messa con cinque milioni di fedeli, Giovanni Paolo II diceva: «La vocazione di amare, intesa anche come apertura agli esseri umani nostri fratelli e come solidarietà con loro, è la più fondamentale tra tutte le vocazioni. È l’origine di tutte le vocazioni della vita».

Quando Gesù dice: «dai frutti si riconoscerà la bontà dell’albero», non parla tanto delle opere di misericordia, quanto della misericordia stessa. Parla cioè dei frutti dello Spirito Santo, che san Paolo elenca nella Lettera ai Galati: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22). Dev’essere sempre chiaro per tutti che non c’è carità senza opere di carità; non c’è misericordia senza opere di misericordia. Tuttavia deve essere ancor più chiaro che ci sono molte opere di carità senza vera carità. Infatti san Paolo dice pure: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (1 Cor 13, 3). C’è amore genuino, che si vede nella qualità del rapporto interpersonale, e c’è molta generosità idolatrica, di autoaffermazione. Non bisogna temere molto l’egoismo idolatrico (che cerca amore per sé), se porta a fare del bene; capita a tutti. Il vero problema è quando il bisogno di consenso porta a fare il male facendoci credere che siamo giustificati.

Tuttavia è importante capire la differenza e cercare il dono dello Spirito che può convertirci. Gli antichi distinguevano tra amore di concupiscenza e amore di benevolenza; il primo è mosso da quello che ciascuno di noi guadagna nel rapporto con gli altri. Il secondo invece è sapersi mettere realmente nei panni degli altri volendo il loro bene. Dato che anche il primo si riempie di sacrifici e attenzioni, ci è molto facile pensare che siamo capaci di amare. In effetti dopo il peccato originale è soltanto con lo Spirito Santo che si riesce a operare il dono di sé autentico agli altri. La garanzia del nostro amore ce la devono dare gli altri. Gesù affida la visibilità del suo amore alla visibilità del nostro, tra noi e verso tutti. Dunque occorre imparare la grande lezione di san Giovanni Bosco: non basta amare, occorre che gli altri se ne accorgano. Una madre ama sempre i suoi figli, ma spesso loro non se ne accorgono: quando è nervosa, pedante, pretenziosa. Occorrono affetto, pazienza sorridente, anche quando è difficile. Solo questo dimostra un animo nobile.

A ben pensare, la nostra disamina sul cuore assolutamente bisognoso di amore, che condiziona l’uso dell’intelligenza e pertanto impedisce di cogliere facilmente il bene e il male oggettivi, permette anche di avere molta più comprensione per gli altri e di vivere in profondità il comandamento nuovo. Se io non riesco a convertirmi dal mio idolo a Dio e agli altri, con le mie sole forze (basta provarci per sperimentarlo), come posso pensare che gli altri debbano cambiare solo perché lo voglio io? Magari, dall’esterno, vedo meglio i loro assoluti fuori posto, e vedo le ingiustizie che ne derivano, ma non posso pretendere che mi ascoltino. Posso soltanto amarli di più, con vera pazienza, perché non posso invece giudicarli, sapendo che fanno quello che possono e che solo una comunità viva di fede che li circonda potrà calamitare il loro cuore, sotto l’azione dello Spirito Santo, alla verità divina della vita. Dato, inoltre, che quasi tutti vivono mille pene convinti che la colpa sia degli altri, capendo il condizionamento del cuore si avrà molta più pace, smettendo di incolpare chicchessia delle proprie infelicità.

Imparare ad amare. Ecco la grande avventura, il grande compito che dà significato alla vita fino all’ultimo respiro. Chi decide di vivere per questo scopo non andrà mai in pensione; nessuna malattia lo renderà inutile e tutto culminerà proprio con la morte, con il dono definitivo della propria vita a Dio e agli altri. Un racconto vero, tra i tanti che narrano l’eroismo dei martiri del secolo appena trascorso, mette in risalto l’efficacia divina della carità eroica. Un bambino di circa dieci anni bussa alla porta di un carcere, a Mosca, con una rosa in mano. Chiede del capitano. Costui è un aguzzino spietato. Il carcere è destinato ai credenti, che lui tortura per sapere dov’è la tipografia clandestina. Un soldato avverte il capitano che chiede: «Chi è?». «Non lo ha detto». Trattandosi di un ragazzo, lo fa entrare. «Oggi è il compleanno della mamma e papà mi ha insegnato a regalare una rosa alla mamma in giorni come questo, ma mia madre è in carcere, perché ce l’hai messa tu. Anche papà è in carcere, perché ce l’hai messo tu. Io vivo con la nonna, che mi insegna a pregare e mi dice che noi cristiani non solo dobbiamo perdonare i nemici, ma dobbiamo amarli. Per questo sono qui, per amarti. E la rosa che non posso dare alla mamma la do a te». Consegna la rosa e se ne va, lasciando di sale il capitano. Per un mese quell’uomo cercò di non pensare al fatto, ma non ci riuscì e dette le dimissioni, convertendosi al cristianesimo. Fu sospettato, pedinato, scoperto e incarcerato. Ci si aspettava che i cristiani lo avrebbero sbranato, ma non fu così: lo accolsero. Morì poco dopo per i maltrattamenti, che verso di lui erano particolarmente efferati, avendo però scritto un diario con la sua testimonianza sull’eroismo di tanti cristiani da lui torturati. Ecco la forza dell’amore misericordioso.

La salvezza e la Chiesa

Tutto dipende dal fatto che Gesù ha assoluto bisogno della visibilità del nostro amore fraterno, del legame ecclesiale visibile: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). Il Verbo si è incarnato per rivelare all’uomo l’amore trinitario. Se l’uomo non vede e non sente, non può capire. Ma ora questa visibilità è affidata a noi. Se è vero che l’amore autentico che salva il cuore umano può venire solo da Gesù Cristo, è pur vero che ognuno di noi, alla ricerca disperata di consenso, ha bisogno di «vedere» un riconoscimento sociale; i due legami si possono dare insieme soltanto nella Chiesa. Ognuno di noi ha bisogno di essere attirato interiormente a Cristo dalla visibilità dell’amore cristiano. Il cuore viene attratto lì così come di fatto tanti vanno dietro a qualunque altro rapporto significativo. Con la differenza che la Chiesa attira il cuore, offre il riconoscimento umano, per orientarlo a Cristo e alla Trinità. La Chiesa è icona della Trinità. La differenza tra icona e idolo, tra immagine sacra e feticcio atto a catturare il potere del divino, è che l’icona apre al mistero, invita ad andare oltre sé stessa, rendendosi trasparente e pronta a scomparire; l’idolo invece è specchio in cui cercare sé stessi e un potere che ci rassicuri. La stessa immagine religiosa può essere vissuta a livello sacro, sacramentale, oppure a livello idolatrico. E così un gruppo cattolico o una chiesa locale possono aprire alla Trinità (cosa che le sette e tutti gli altri gruppi non possono fare!), ma possono anche essere vissuti come luogo in cui specchiarsi, in cui trovare consenso, come succede in tutte le altre aree di riferimento esistenziale.

Non è possibile cogliere il cuore di Gesù risorto, tempio vivo dell’amore che salva, senza la visibilità della sua Chiesa, purché sia visibilità di un amore che altrove non si trova. Da qui l’importanza del «comandamento nuovo». Senza la visibilità e lo spessore umano dell’amore ecclesiale non si può diventare coscienti della presenza di Cristo tra noi. Se si crede nel risorto presente tra noi, lo si deve vedere da un particolare vincolo visibile tra noi. Dice san Giovanni: «Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4, 11-12). Ma questa visibilità del comandamento nuovo richiede la consapevolezza e la concretezza vissuta del vincolo particolare che ci unisce in Cristo, e questo si può dare solo nella chiesa particolare: la Chiesa universale è comunione di comunità. Si è cristiani a Efeso o a Corinto, a Gerusalemme o ad Alessandria, con particolarità diverse e un solo contenuto essenziale. La Chiesa è l’aspetto visibile del Regno di Cristo. Nella sua cattolicità è il popolo universale. Ma proprio per questo non è fatta da individui collettivizzati, bensì da persone libere, chiamate alla conversione e alla scelta personale di un legame di amore che è comunione, popolo di Dio, «chiesa locale», cammino ecclesiale ben definito, «forte», cioè con vincoli significativi. Quel che conta è che ogni popolo si riconosca in Cristo, celebri l’eucarestia e gli altri sacramenti, accetti il canone delle Sacre Scritture e il ministero petrino, come ministero di unità e di carità, i dieci comandamenti e poche altre cose. In questo modo in ogni chiesa locale è presente tutto il mistero della Chiesa, in unità con le altre chiese locali, anche attraverso il primato che Gesù ha assegnato a Pietro. La nuova ed eterna Alleanza, oltre a essere un vincolo interiore con Dio in Cristo, è anche comunione di popoli.

Dato che nessuno può vivere senza amore, senza un legame centrale forte in una comunità umana solidale, soltanto con un legame ecclesiale si può trovare la salvezza dalla più grande schiavitù, che sopra abbiamo studiato. Solo la Chiesa offre consenso attingendolo dall’alto, in Cristo, unendo in alto le varie comunità e potendo così fondare la vera pace, sia del cuore che dei rapporti umani, aperta a tutti gli uomini[14]. Inoltre le chiese particolari hanno una possibilità che nessuna comunità vitale può avere: attirano il cuore come qualunque gruppo significativo, ma per aprirlo verso l’alto, ben al di sopra della comunità stessa. Le altre comunità vitali sono sempre e necessariamente settarie: forzano la verità secondo il consenso interno al gruppo; possono coltivare motivi positivi e pacifici, ma possono creare possibili inimicizie, fino alla morte, con altre «confessioni», con altre «chiese segrete».

Anche i gruppi o le chiese particolari cattoliche possono essere vissuti in modo settario, normalmente senza accorgersene[15], ma hanno in sé il principio di superamento che può permettere la santità di vita, l’amore autentico, il sogno vero del cuore. Ogni gruppo cattolico è fortemente incentrato su Cristo, che è di tutti e non solo di quella comunità (Geova invece è invenzione del gruppo); si usa il Vangelo che è uguale per tutti e non può essere riscritto diversamente. In ogni realtà cattolica si è incentrati sull’Eucarestia e sugli altri sacramenti, sulla devozione a Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Tutti riconoscono nel papa il padre comune, il vicario di Cristo in terra. Tutto ciò fa sì che i contenuti di gran lunga più importanti di ogni realtà cattolica non siano un prodotto originale di un concreto gruppo, ma dono comune, superiore a tutti, che unisce in alto nell’unica Chiesa, pur con tutte le particolarità di ogni realtà diversa. Ciò non garantisce ancora la santità dei singoli, ma offre strade di santità, essendo la santità cristiana, nello stato germinale che è dato sulla terra, l’unica garanzia di autenticità, di vita salvata, di vita genuina, di amore vero. Allo stesso tempo, rendendo capaci di oltrepassare il proprio recinto, apre il cuore ai non credenti, in convivenza pacifica.

Celibato e matrimonio

Abbiamo detto che la salvezza, nel senso di un amore autentico più forte di ogni paura, come segno di una felicità destinata all’eternità, si può dare solo (anche se non è scontato che si dia) in comunità cattoliche «forti». Con questo termine penso a quelle realtà di fede dove non si cercano sconti sul Vangelo. Dove fioriscono il celibato e il matrimonio. Il celibato, accomunato qui con la verginità, è il segno forte della presenza di Cristo risorto e dell’azione creatrice e potente dello Spirito Santo. Dove c’è il celibato c’è una realtà di fede di prima fila; tra i monaci e i religiosi; con i sacerdoti, che con il dono di sé proprio del celibato sono chiamati a favorire la scelta forte della fede; e, come dono particolare dello Spirito al nostro tempo, nelle realtà ecclesiali sorte lungo il secolo ultimo, là dove con maggior chiarezza si vede che il celibato, specialmente se preso come espressione della radicalità del battesimo più che di una speciale consacrazione, è lievito per tutti i cristiani, anche per quelli che sono chiamati da Dio al matrimonio (che tra i cattolici è sacramento e risponde a un disegno divino in Cristo).

Rimarranno sempre in prima fila i cristiani con il saio o che agiscono in realtà molto compatte anche esteriormente. Ci sono però delle strade, delle realtà ecclesiali sorte nell’ultimo secolo, o anche parrocchie ben impostate, realtà diocesane rinnovate dallo spirito del Concilio Vaticano II, eccetera, che permettono un vincolo in Cristo radicale senza un cambio sociale rimarchevole. Per iniziare può già essere sufficiente una buona direzione spirituale, con un sacerdote che crede nella nostra santificazione e conta su di noi per l’apostolato in nome di Cristo.

Insieme al celibato, abbiamo indicato come segno di fede viva il fiorire del matrimonio. In un’epoca in cui la famiglia occidentale attraversa la sua più grande crisi, con un carico di sofferenza e di disperazione ben superiore alle disgrazie naturali e anche a tante guerre (pur volendo tutt’altro che minimizzare il male della guerra), là dove si sviluppa un itinerario cristiano forte e aperto a ogni sorta di vocazione, nel celibato e nel matrimonio, la famiglia presenta una forza incredibilmente superiore a quella che in media si nota nella società circostante. Un dato che dovrebbe fare riflettere tutti è quello delle separazioni: in media nelle società occidentali si separa il 35-40% delle famiglie. Le persone sagge d’altri tempi dicevano che per ogni famiglia che si separa ce ne sono altre due in gravi difficoltà. Oggi non lo si può più dire per il semplice motivo che si sfonderebbe il tetto del 100%; ma si può senz’altro pensare che perlomeno altrettante siano in difficoltà. E siamo sul 70-80% di persone che soffrono pene profonde, che nulla può compensare. Si ha un bel dire, assecondando l’immensa ipocrisia della nostra cultura, che basta separarsi senza drammi, o che i figli soffrono meno così che a veder litigare i genitori. Di fatto i figli ne hanno un danno ben maggiore, e semmai l’unico consiglio è di non litigare mai davanti a loro. Quanto ai coniugi, uno dei due si sente forse liberato da un peso, ma non certo per un amore più vero, bensì per puro egoismo. L’altro coniuge è ferito a morte, sempre. Chi è lasciato sente spegnersi la vita e nessun ragionamento altrui potrà dargli la pace[16]. Tanti giovani, intuendo il rischio del fallimento, più per paura che per comodità preferiscono convivere prima di sposarsi, senza pensare che ciò aggrava il problema: una convivenza senza responsabilità non è certo una prova di matrimonio, proprio per il problema della responsabilità delle vite altrui per tutta la vita, che è propria del matrimonio e non si può sperimentare fuori.

Ma se guardiamo i cammini cristiani forti, troviamo una realtà meravigliosa. Al di fuori di ogni apologetica, guardando soltanto ai fatti, si vede che qui per trovare una sola separazione occorrono dalle cento alle duecento famiglie! Siamo a meno dell’1%, specie se entrambi i coniugi partecipano di un cammino comune. Ne mettiamo qualcun’altra in disagio e siamo al 2-3%. Le altre sono belle o splendide, con più figli e con una forza umana impressionante. Anche la malattia o la povertà vengono affrontate in crescita di amore e si trasformano in avventure. Un handicap non è una disgrazia, ma un concentrato di attenzione e di affetto per tutti. Queste cifre dovrebbero bastare per far aprire gli occhi sull’efficacia della salvezza cristiana anche nel cuore della storia e non solo per l’aldilà.

La fecondità reciproca di celibato e matrimonio dovrebbe far riflettere sulla bellezza della morale cristiana e della sessualità inserita in un percorso di amore. C’è chi pensa che la morale cristiana sia troppo esigente. In realtà è da osservare bene come ogni gruppo chiuso in sé abbia proprie forti esigenze ed estorca sacrifici ben più duri (fino al suicidio, come abbiamo studiato), in apparente libertà. Di fatto, pur di avere consenso si è disposti a tutto. Ciascuno è persuaso di fare solo i sacrifici che vuole, ma in realtà ne fa tanti e tutti si rifanno al filo sottile che lega il suo cuore al riconoscimento altrui. A volte certi gruppi cristiani, visti dal di fuori, sembrano troppo esigenti. Certamente ci sono sensibilità diverse e la Chiesa è ricchissima di possibilità. Fa parte della cattolicità il profondo rispetto per le scelte spirituali e la gioia di veder fiorire la fede in cammini diversi dal proprio. Ma riguardo alle richieste concrete non si può giudicare da fuori: un itinerario cristiano forte riesce a prendere il cuore, in semplice e opportuna alternativa alle tante «chiese segrete». Dove ci si sente amati si è anche liberi di corrispondere, costi quel che costi. È pur vero che se uno perde lo slancio d’amore tutto sembrerà macchinoso. Magari a quel punto vedrà un primato dell’istituzione sulle persone e se ne andrà sdegnato. Come afferma Eliot, dicendo di averlo imparato da Dante: «Togli l’amore e farai un inferno». Ma se il legame di amore è realmente in Cristo, secondo il comandamento nuovo da lui lasciatoci, si verificherà quello che diceva sant’Agostino: «ama e fa’ quello che vuoi», volendo liberamente ciò che l’amore cristiano ci esige.

Cristianesimo e altre religioni

Mosè ha dato la Legge di Dio alle tribù di Israele. Gesù dà la Nuova Legge, la Nuova Alleanza, ai peccatori. Il cristianesimo è il popolo dei peccatori, dei quali Dio è invaghito. Non più una tribù contro un’altra, guidate dai loro dei; non più un popolo contro altri popoli: ma un popolo in cui sono convocati proprio tutti, a puro titolo di peccato, e cioè a titolo universalissimo, perché non c’è uomo sulla terra che non si trovi avvolto dal suo egoismo che lo rende schiavo della considerazione degli altri e pertanto bisognoso di salvezza. Il peccato originale è un capovolgimento di amore. Dice san Paolo: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!» (Rm 3, 32); ai Galati scrive: «ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato» (Gal 3, 22). L’universalità del titolo di appartenenza al Regno mantiene la varietà e la diversità dei popoli. L’universalità cristiana non è astratta, perché rispetta le varie tradizioni, le espressioni culturali diverse. A Pentecoste Pietro parlava in aramaico e ciascuno sentiva nella propria lingua: è una icona stupenda del nuovo e definitivo popolo di Dio.

La naturale propensione all’amore, nel capovolgimento del peccato presente nel profondo del cuore ci lega strettamente in piccoli «popoli», in tante «tribù», anche in pieno mondo secolarizzato. Queste «chiese» non sono tutte uguali. Alcune sono positive e permettono, se non una vita veramente salvata, perlomeno una vita positiva. Le migliori, in genere, sono quelle connotate religiosamente. Però deve essere chiaro che le religioni non cristiane non sono tutte uguali, anche se tutte svolgono il compito confessionale di dare una appartenenza consapevole e forte a tanta gente.

Potrebbe sembrare un’eccezione il buddismo, basato su di una sapienza che può sembrare strettamente personale: diventare indifferenti a tutto per vincere l’idolatria del successo, del possesso, del riconoscimento altrui. Budda ha intuito molto del peccato originale e cerca di stagnare il sangue di cui si nutre. Tuttavia non sfugge neppure lui al condizionamento del peccato: l’idea che lo ha illuminato, il nirvana, l’assoluta indifferenza, in realtà è un’idea potente. Subito ha radunato cinque vecchi compagni di eremitaggio, li ha istruiti e inviati a diffondere la sua idea. Per lui e per quei cinque si è costituita immediatamente una chiesa, un legame forte. E così è per tutti i buddisti di tutte le epoche. Anche in Occidente, attualmente, dove la mentalità è agli estremi opposti di quella propria del buddismo, questo ha successo perché di fatto crea aree di consenso: basta un po’ di meditazione trascendentale, un po’ di yoga, un po’ di indifferenza ai tanti beni superflui che ci circondano, e si ha la sensazione di essere entrati nel cuore di un gruppo di eletti. È questo che spinge al buddismo, come spinge alla new-age e a qualunque altra setta o religione, ma anche a gruppi di estrazione sociale, musicale, politica, eccetera. Naturalmente, ripetiamo, non sono uguali i contenuti che si è chiamati a vivere nei vari gruppi per sentire il consenso vivificante; il buddismo, per esempio, è più sublime di tanti altri. Le religioni garantiscono una forte solidarietà e pertanto danno senso alla vita con il loro legame significativo forte. Ma si rimane in balìa del consenso umano, come Saulo tra gli ebrei: doveva primeggiare, aver successo nella pratica religiosa, per avere il consenso del popolo. Dio, che vuol salvare tutti per la vita eterna e che accetta la scusa dell’ignoranza, invocata da Gesù sulla Croce, alla fine, attraverso la purificazione del Purgatorio, salverà a partire dalla sua misericordia e dal fatto che lui, molto meglio di noi, vede nell’intimo del cuore e conosce quella buona volontà che si annida dietro ogni tipo di consenso, il quale è ben più forte della capacità di discernere il bene dal male. Ma il fatto che Dio vuole e può salvare molto al di là del battesimo di acqua, vedendo il battesimo di desiderio nei meandri dei cuori umani assetati di amore, non vuol dire che sia tutto uguale, che le religioni si equivalgano e che non sia di enorme importanza conoscere e praticare le vie della salvezza già sulla terra, per il bene proprio, sulla terra e in cielo (che non sarà di uguale intensità per tutti), per il bene di chi ci è accanto e per il bene di tutti gli uomini, che attendono la testimonianza dei figli di Dio per conoscere e fruire la presenza beatificante della salvezza.

Le comunità protestanti, pur essendo chiuse in sé stesse e pertanto incapaci di salvare profondamente il cuore nel suo bisogno capovolto di amore idolatrico, basandosi sulla Sacra Scrittura hanno un principio di superamento del gruppo stesso (in questa possibilità consiste il passaggio alla salvezza, al dono dell’amore innocente di Cristo). Occorre però considerare come sia possibile leggere lo stesso testo, anche rivelato, con precomprensione idolatrica diversa, che impedisce il vero aggancio in alto. L’esperienza protestante ha dimostrato come sia facile dividersi e credersi portatori dell’unica lettura valida della Scrittura. Nessun santo cattolico si è mai sognato di essere l’unico ad aver letto il Vangelo in pienezza. A Lutero invece è proprio successo questo: una luce pur valida e forte lo ha convinto di essere nella verità, in realtà egli si è chiuso idolatricamente e si è reso capace di dividere la Chiesa (non voglio qui sottrarre le loro responsabilità ai pastori, né semplificare troppo il problema). Non si prenda questa considerazione in senso antiecumenico; anche i cattolici hanno a che fare con sottili idolatrie (in realtà soltanto i santi lasciano passare l’amore salvifico). Mi serve soltanto per sottolineare che i protestanti hanno un cammino che può portare alla salvezza ma soltanto con un ecumenismo forte, proiettato alla vera cattolicità, che supera anche le forme concrete e storiche della Chiesa istituzionale, ma non può prescindere da essa (si può pensare a Taizè). Anche i cattolici devono essere cattolici; il che non è facile, e questo li impegna in un reale ecumenismo. Del resto abbiamo già detto che la cattolicità unisce tante realtà ecclesiali ben diverse tra loro, tanti «popoli» dalle lingue diverse, purché si conosca la lingua dello Spirito.

 

Convertendosi al cristianesimo, alcuni dovranno lasciare la loro «chiesa segreta», perché perversa o di tipo negativo; c’è chi professa l’ateismo, il razzismo, la lotta di classe, il satanismo e così via. Ma tante altre appartenenze restano sostanzialmente rispettate. Gli africani possono danzare nella celebrazione liturgica (dietro la danza si possono vedere tanti contenuti culturali e tradizionali), così come altri popoli possono mantenere tradizioni e riti compatibili con la fede cristiana. In questo senso il cristianesimo è chiamato a essere il vero popolo universale, benché non nel senso cosmopolitistico degli illuministi o della globalizzazione economica in atto in questi tempi.

 

Se c’è stato un espandersi delle sette, soprattutto in America Latina, ma anche da noi, per esempio con i Testimoni di Geova, ciò è dovuto al fatto che tanti cristiani tradizionali non hanno mai vissuto un legame «forte» con la Chiesa in un cammino concreto, ma solo un obbligo morale di adempimenti esterni. Nel venir meno di altri legami sociali significativi (il villaggio, il parentado allargato, i molti figli, eccetera) molti si sono sentiti attratti umanamente da un gruppo compatto che dava loro attenzione e accoglienza benevola, ma non certo vera salvezza. Nel mondo si sono moltiplicate le sette. Ciascuna crede di possedere la verità, ma non sono salvifiche.

Ripetiamo che non stiamo tanto parlando della salvezza eterna – che Dio dà leggendo nel cuore di ciascuno –, quanto del prendere coscienza sulla terra di ciò che è la salvezza e di poterne sperimentare coscientemente i frutti beatificanti e l’efficacia di bene per gli altri. Non si salveranno solo i santi, ma solo i santi capiscono perché Dio ha creato il mondo, ha permesso il male, ci ha dato la libertà, la responsabilità storica, i legami familiari e sociali. Tanta gente sostiene l’ateismo o l’agnosticismo invocando le sofferenze dei bambini; ma dove c’è amore, dove la famiglia sa reagire al dolore con legami più profondi, si vede subito che il dolore fisico ha la sua redenzione, fa crescere l’amore e la felicità. Quanti casi meravigliosi! Ma il sostegno ultimo è l’amore di Cristo in Croce che diventa nostro nell’azione dello Spirito Santo donato a Pentecoste. Allo stesso tempo è vero che tanti non appartenenti alla Chiesa si salveranno, ma non per merito loro bensì sempre attraverso la redenzione di Cristo, attraverso il dono dello Spirito. Attraverso, in qualche modo, la mediazione della Chiesa. Il cardinale Giacomo Biffi, dopo aver studiato attentamente questo tema della salvezza attraverso la Chiesa, fa notare che il rifiuto di questa certezza da parte dei non cattolici e anche il silenzio di certi cattolici si può spiegare con la possibilità che anche la Chiesa sia idolatrata, assolutizzata. Ma, guardando la Chiesa come sempre incentrata in Cristo, vero portatore della salvezza, si può senz’altro dire che «se la “ecclesialità” è nel suo significato proprio e più adeguato intrinseca relazione con Cristo, allora si fa ovvio e gratificante l’asserto che una qualche appartenenza al “Christus totus” sia, più che una condizione, una connotazione sostanziale della nostra salvezza»[17].

 

Soltanto il legame ecclesiale forte nello Spirito Santo può salvare il cuore dell’uomo chiuso idolatricamente nel suo gruppo. Anche la richiesta di perdono operata da Giovanni Paolo II per peccati commessi da cristiani nel corso dei secoli è indice, come è stato ben studiato, di una cattolicità reale, di una autentica universalità palpitante in ogni sua parte. Indica la realtà di un amore universale, non astratto, che ci lega in Dio e ci salva dai nostri vincoli egoistici e autoreferenziali o narcisistici. In Cristo deve essere possibile sognare una riconciliazione universale, vera, profonda, duratura. San Paolo può dire che Cristo è la nostra pace, perché riesce a riconciliare gli ebrei con i gentili: «Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia […] per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in sé stesso l’inimicizia. […] Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2, 14-16. 18). Vediamo ancora oggi come sia difficile abbattere la separazione tra ebrei e palestinesi, governati da un Dio della tribù e non dalla Trinità onnicomprensiva. Fin che il proprio Dio serve per far guerra a un altro Dio, siamo chiusi nel Dio della tribù. Può succedere anche ai cattolici, ma ciò non toglie che solo in Cristo è fondata la vera pace.

Quadro conclusivo

Abbiamo ora i dati per trarre le conseguenze.

I tre capitoli corrispondono a tre cardini per prendere coscienza della vita e della fede, per operare una scelta di vita autentica, aperta a ogni futuro.

Innanzitutto ognuno deve vedere a quali livelli opera nel suo cuore l’amor proprio, che, come dice la parola, è sì amore, ma capovolto. Che cosa gli succede nel successo e nell’insuccesso. Come teme il non riconoscimento degli altri e lo scadimento della stima, o il rifiuto nell’amore umano. Quali sacrifici è pronto a fare per quelle prestazioni che gli garantiscono «il consenso per vivere». È bene scoprire come è composta la «chiesa segreta» in cui ci muoviamo. Anche chi crede di non avere un gruppo in realtà ha un vincolo forte con amici o futuri estimatori.

Tutto ciò lo rende schiavo delle circostanze, ma ancor più della volontà altrui. Ognuno si muove su un abisso di paura, che si spalanca là dove si rompe il vincolo significativo. Se il successo è stabile non tutela però dalla mediocrità, e lascia esposti all’angoscia qualora venisse meno.

Il problema dell’amore è più profondo e onnipresente di tutti gli altri problemi che accompagnano la vita umana. Soltanto un dono di amore che non sia in balia della volontà altrui può dar fiducia e libertà al cuore umano.

E così si passa al secondo caposaldo.

Soltanto in Cristo si opera la rivelazione del Dio-Amore.

Soltanto se mi sento amato da Dio in Cristo, se conosco il Dio-Amore, posso stabilire legami sociali senza la schiavitù di dipendere dagli altri per il significato ultimo della mia vita.

Soltanto se mi sento amato con pienezza umana e divina posso aprirmi alla speranza e all’ottimismo di fronte a ogni prospettiva di vita, sapendo che in ogni insuccesso, sempre possibile, avrò la grande consolazione di potermi unire alla passione di Cristo, purificando e accrescendo la mia capacità di amare.

Il terzo punto prende in considerazione il fatto che stiamo nella storia, viviamo con gli altri e mai potremmo, condizionati profondamente dal bisogno di riconoscimento, prescindere da un’accoglienza benevola che si rende visibile in un gruppo primario. Ciò rende indispensabile la Chiesa come comunità di comunità, come legame forte capace di dare significato umano alla vita di ciascuno, ma aperto al dono che viene dall’alto. Ciò tra l’altro corrisponde al disegno di Dio che non ci vuole soli e indica nell’amore fraterno la vera impresa della storia umana.

Se tutti hanno una «chiesa segreta», chiesa per chiesa solo quella con la «C» maiuscola risolve autenticamente il problema della vita e dell’amore.

Oggi è scoccata l’ora dell’autenticità cristiana, del legame di amore libero, cosciente, personale tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e l’uomo, in Cristo: la santità cristiana. È il dono da chiedere allo Spirito Santo con l’insistenza di tutta la vita. Negli anni trenta, quando ancora reggevano i legami sacrali ma erano già operanti i germi del secolarismo, un profeta dei nostri tempi, il beato Josemaría Escrivá, gridava al mondo: «Un segreto. – Un segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi» (Cammino, n. 301). Non si tratta di pensare a una santità che separa dal mondo, che rende diversi, ma soltanto a un vero desiderio di amore, che è dono di grazia, rinnovando continuamente questo desiderio nell’interiorità e nel contraccambio fraterno, aperto a tutti. Diceva Bernanos: la santità è un’avventura. Anzi, è l’unica avventura. Chi lo ha intuito anche una sola volta ha penetrato il segreto della Chiesa. Ma chi si dà pena di essere santo?

 

Ora è più facile giustificare le provocazioni del titolo.

Perché cattolici e non semplicemente cristiani? Oggi si tende a usare sempre meno il termine «cattolico»: sembra quasi «teologicamente scorretto». In realtà un vago cristianesimo non serve a nulla. La Chiesa, il papa, hanno il merito di essere punto di riferimento anche per chi non si riconosce in loro. Ma il punto centrale è proprio nel tema della salvezza: soltanto un legame di amore che non si chiude all’interno della comunità vitale in cui si vive può salvare il cuore umano dalla paura, e ciò si dà unicamente nella cattolicità. Non basta la fortuna di appartenere a una «chiesa segreta» sufficientemente positiva e sufficientemente stabile; essa non conterrà una vera speranza capace di reggere anche all’eventualità del rifiuto da parte della comunione umana, e pertanto non vi sarà una gioia autentica, un dono per gli altri. La salvezza è un dono d’amore, dall’alto, che sana le paure del cuore e ci accoglie per l’eternità.

Con ciò giustifichiamo anche la provocazione di quell’«essere cattolici» che va inteso come necessità e non soltanto come cosa bella e opportuna. Necessità per chi vuol ritrovare la genuina umanità dopo quel capovolgimento abissale del cuore umano che da sempre va sotto il nome di «peccato originale» o mysterium iniquitatis, di cui abbiamo delineato i connotati, e che è il problema abissale dell’amore capovolto. Ma, ancor di più, è una necessità per chi vuol capire la vera condizione dell’uomo nel disegno eterno di Dio (un disegno il cui scopo è nientemeno che averci in comunione intratrinitaria). La società secolarizzata sforna nuovi riferimenti di consenso con grande facilità, ma sono effimeri. La cultura corrode i vincoli, anche se in realtà la soggettività è soltanto presunta e mai possibile. È vero però che una società che vuol dirsi moralmente neutra, anche se ogni gruppo ha la sua ferrea morale, alla lunga ingenera incertezza, instabilità, fino alla depressione.

E infine la terza provocazione: perché «fin da giovani»? Conosciamo conversioni meravigliose al tramonto della vita. Conosciamo la parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna anche all’ultima ora, con salario pari a quelli della prima ora. Il buon ladrone ci riempie di speranza. La morte può offrire una chiaroveggenza formidabile. Ma è pur vero che si tratta di casi molto limitati. Per uno come Ernst Junger che si converte sacramentalmente a centoun anni dopo una lunghissima maturazione, molti cercano il sacerdote in fin di vita, ma solo dopo che la paura della morte supera la paura di perdere la considerazione degli amici atei o miscredenti, o marxisti, o massoni. Se il consenso umano «costringe» (è la parola esatta) a non praticare la fede cristiana, soltanto quando esso crolla definitivamente è possibile ricordarsi in modo coinvolgente della vita eterna. Ma questa rischia di essere una conversione di paura, non di autenticità. Inoltre non è per nulla detto che ci siano il tempo e l’opportunità di pensare bene alla fine. E comunque, se anche vi saranno, ne seguirà la tristezza infinita di aver sprecato la vita sulla terra, che era fatta per imparare ad amare gli altri con il cuore di Cristo e per contribuire con una storia nobile e responsabile a edificare il Regno, ad attrarre molta gente a Cristo, con grande beneficio anche per la civiltà.

Per tutto questo ci sentiamo di affermare che non esiste alternativa autentica e valida per l’uomo, rispetto all’appartenenza a una comunità di fede «forte», che può configurarsi nei modi più diversi, dal monachesimo alla massima semplicità di vita nel mondo, comprendendo l’amore schietto per l’umanità, il lavoro, l’amicizia, l’arte, il gioco, specie tra i giovani, il volontariato, eccetera. Oggi i villaggi tradizionali non ci sono più; ne viene una maggior urgenza di una scelta cosciente di fede fin da giovani. Se il cuore di un adolescente è rubato da altri gruppi non si può sapere dove approderà la sua vita, anche se non si escludono conversioni in futuro (per alcuni). Il futuro è per coloro che si legano liberamente a Cristo riconoscendo e sperimentando la forza dell’amore fraterno vissuto in una realtà ecclesiale che trabocca nella società.

 

Abbiamo cercato di offrire una spiegazione concreta ed esistenziale, verificabile da tutti con un minimo di attenzione alla realtà che ci circonda, del grande messaggio che la Chiesa, attraverso il Concilio Vaticano II, ha offerto a tutti gli uomini nella seconda metà del ventesimo secolo; un messaggio che, con la prospettiva di alcuni decenni, si manifesta sempre più nell’affermazione di una chiamata universale alla santità e nella configurazione della Chiesa come comunione di comunità.

A questo punto sarà pure chiaro, tuttavia, che non è affatto detto che ritrovarsi da giovani in una realtà cattolica vivace nella fede sia di per sé sufficiente. Di fatto la stragrande maggioranza dei cattolici non vive contenuti di amore più genuini di altri gruppi religiosi validi. La salvezza è in Cristo dentro la sua Chiesa, ma in questa Chiesa occorre stare con fede viva in Cristo, animati dallo Spirito. Si può praticare la fede come una religione, attraverso la ritualità, senza vedere il volto di Cristo risorto che ci ama con le cicatrici della sua croce. Ce lo ricorda un apologo dei primi tempi del cristianesimo, che può suggerirci come il gruppo visibile vada trasceso con una fede personale in Cristo. Si racconta che nei primi tempi del cristianesimo un uomo andò da un eremita. Maestro – chiese – spiegami una cosa: perché tanti lasciano le loro case per venire nel deserto a pregare e poi la maggior parte torna a casa? Vedi – rispose l’uomo di Dio –, è come quando un cane vede una lepre: si mette a correre e ad abbaiare a più non posso. Gli altri cani, udendolo abbaiare e vedendolo correre, si buttano anche loro a far cagnara, correndo e abbaiando. Ma la lepre non l’hanno vista, sicché quando si stancano si fermano. Ma chi ha visto la lepre non si ferma finché non la prende!

Come Gesù ama te, in esclusiva, così tu devi amare Gesù personalmente, nell’intimità dell’amicizia. Il tuo Gesù, non quello indistinto di tutti. Pur avendo visto quanto sia assoluta la necessità del legame ecclesiale, tanto da affermare che la santità cristiana non si può dare senza Chiesa, in legami di amore, mi sento di dire con pari sicurezza che nessuno può amare e santificarsi al posto mio e tuo; nell’amore non basta il conformismo del gruppo. C’è un primato della vita interiore, come Gesù spiega a Marta, che richiede il rapporto profondo di preghiera. Non bastano le idee, la dottrina, e neppure il gruppo: occorre la vita interiore, la vita dello spirito, che non è un’astrazione come la matematica o come la filosofia: è vita. Coinvolge la volontà, i desideri, i propositi, le speranze, la memoria e ancor prima l’intelletto, l’intus-legere, che vede in profondità, sa contemplare, portando a momenti profondi di vita spirituale. Se il seme della grazia non trova il solco dell’orazione, della vita dello spirito, non dà frutto.

 

E possiamo concludere ritornando al titolo: La sfida dell’Amore. Si tratta dell’Amore, con la maiuscola, che viene da Dio e sfida il mondo non per provocarlo, ma per salvarlo. L’Amore ha bisogno di libertà, e questo spiega perché Dio abbia dovuto permettere tanti mali provocati dall’egoismo degli uomini. Se il male è soltanto fisico, l’amore forte di una famiglia e di una comunità di fede viva lo trasforma in avventura. Gli esempi sono innumerevoli. Il problema è il male provocato dall’orgoglio umano. Ecco la grande sfida: l’Amore non teme alcun male perché è molto più forte. Bisogna però ricordare che il nostro idolo ottiene ogni sacrificio, anche quello della vita, altrimenti si rimane, sì, nella retorica di un amore che vince la morte, ma soltanto perché è una bella frase.

Dio scommette con Satana che Giobbe gli sarà fedele anche senza tornaconto terreno. E Giobbe – senza saperlo! – gli fa vincere la scommessa. Noi ne sappiamo di più: Gesù si è giocato non soltanto la vita fisica, ma l’onore, la stima, la fama, subendo un’ingiustizia suprema che comprende tutte le ingiustizie del mondo[18], facendo vincere al Padre la scommessa sulla vittoria dell’Amore. Tutto è nato dall’Amore: Dio è amore! Tutto si ritrova in libertà, in gioia, in bellezza, nell’Amore; costi quel che costi. È questa la grande sfida che proviene dal cielo. La Modernità ha puntato tutto sulla capacità della ragione di far felici gli uomini. Era un’illusione. È fallita proprio nel rapporto di amore tra gli uomini. Il nuovo millennio nasce già vaccinato su tante illusioni della ragione umana e sulla necessaria deriva di disperazione, egoismo, pansessualismo, eccetera, come sostitutivi per la mancata felicità. Ma non è detto che il nuovo millennio accetterà la grande sfida dell’amore, della relazionalità significativa, della persona che si definisce insieme nella libertà e nell’amore. I cristiani hanno la grande responsabilità di testimoniare l’Amore con una vita che si santifica e propone legami fraterni visibili sconosciuti al mondo. Se per i cristiani il secondo millennio ha visto crescere la fede eucaristica, la coscienza della presenza di Cristo nel dono sacramentale e liturgico, il nuovo millennio dovrà aprirsi visibilmente a riconoscere la presenza di Cristo nel fratello. Abbattendo ogni giudizio sulla persona, ogni steccato di razza, di cultura, di religione, di ricchezza economica, e incominciando a fare tutto ciò con i vicini.

La rinascita cristiana nel battesimo è innanzitutto una nascita all’Amore, per una vita terrena di profonda comprensione. Il mondo dovrà vedere che si può rinascere per la comprensione e che l’Amore è più forte di ciò che divide, più forte di ogni egoismo, più forte, cioè, di ogni paura.

 

 

INDICE

 

PRESENTAZIONE................................................................................................................. 3

PREMESSA........................................................................................................................... 5

Capitolo i.- UN PROBLEMA ABISSALE DI AMORE .................................................. 7

Un consenso per vivere........................................................................................................ 9

Idolatria come amore capovolto......................................................................................... 14

Il condizionamento della ragione....................................................................................... 15

Vera o presunta libertà....................................................................................................... 16

La più grande schiavitù...................................................................................................... 18

Capitolo ii.- perchÉ gesÙ È l’unico salvatore del mondo ................... 21

La rivelazione di Dio-Amore............................................................................................... 22

Capire meglio la passione di Gesù..................................................................................... 25

«Mi ha amato e ha dato la sua vita per me»....................................................................... 27

Postilla sull’esistenza di Dio............................................................................................... 30

Capitolo iii.-la necessità della chiesa ......................................................... 33

Il comandamento di Gesù................................................................................................... 33

La salvezza e la Chiesa....................................................................................................... 36

Celibato e matrimonio......................................................................................................... 37

Cristianesimo e altre religioni............................................................................................. 39

Quadro conclusivo............................................................................................................. 41

 

 



[1] E. ROJAS, Remedios para el desamor. Temas de hoy, Madrid 1990, p. 67.

[2] Chi volesse approfondire tutta la tematica può leggere U. BORGHELLO, Liberare l’Amore. La comune idolatria, l’angoscia in agguato, la salvezza cristiana. Presentazione di B. Forte, Edizioni Ares, Milano 19973, dove si mostra come il tema profondamente esistenziale dell’amore è comune a tutti gli uomini e illumina i compiti non soltanto della psicologia e della filosofia, ma anche della teologia, in tante sue ramificazioni, offrendo la possibilità di una rilettura del Vangelo più vicina alla sensibilità dell’uomo del duemila.

[3] L’idolatria si dà di fatto in tutti, in quanto abbiamo bisogno di salvezza. Ma anche razionalmente alcuni atei sono portati a negare Dio ricorrendo ad altri valori assolutizzati. Feuerbach, per esempio, che ha convinto Marx e milioni di persone sostenendo che Dio è una proiezione dell’uomo che soffre verso una immagine perfetta di sé stesso, in realtà non ha tolto il problema dell’assoluto e di Dio, lo ha solo spostato sull’uomo generico, che non esiste, quello che un giorno si riapproprierà della propria perfezione, lasciando l’uomo vero, quello che esiste, senza una speranza vera, in cambio di una speranza basata sul nulla. Tutti gli atei più agguerriti hanno sempre commesso l’errore di spostare l’assoluto su parti del reale.

[4] Come diceva un acuto osservatore, la decadenza è come pulci che vivono nella pelliccia del leone; e si agitano dicendosi tra loro: a cosa serviranno mai i leoni? Ragazzi che hanno ottenuto una dignità meravigliosa attraverso la crescita della famiglia monogamica e indissolubile, in un amore umano che ha uno spessore divino, si dicono tra loro «a che servirà sposarsi in Chiesa?», togliendo Dio dai loro rapporti di amore, senza accorgersi che si autodistruggono.

[5] Chi volesse capire meglio le sorti dell’amore umano nei giovani e nella famiglia, con i problemi che pone all’amore umano il diverso condizionamento idolatrico per muoversi con qualche chance in più di buona riuscita nel matrimonio, può leggere U. BORGHELLO, Le crisi dell’amore. Prevenire e curare i disagi familiari. Edizioni Ares, Milano 20002.

[6] Si può notare, tra l’altro, che queste parole di Gesù nessun uomo può pronunziarle e neppure immaginarle, specie se è ebreo (del resto le affermazioni di Gesù che nessun uomo saggio potrebbe pronunziare sono moltissime). Nessun santo e nessun uomo saggio nel mondo ha mai lontanamente pensato di porsi come salvezza di altri. Eppure, come diciamo nel testo, sono le parole più vicine ai bisogni del cuore umano: corrispondono perfettamente a ciò che più si cerca, e in ballo c’è tutta la vita. Ora, se mangiando un frutto esotico vedo che ha un picciolo, posso dedurre che c’è una pianta che lo ha prodotto. Non essendo una foto, una parola, ma un frutto che mi sfama, non ho alcun dubbio sulla sua provenienza, anche se non ho la minima idea di come sia fatto l’albero. Se qui siamo di fronte alle parole di cui posso pascermi a mia salvezza e so che nessun uomo può pronunciarle, ho una «prova» fortissima dell’esistenza di Dio e della divinità di Cristo.

[7] Per capire bene che cosa significhi la legge scritta nel cuore è opportuno capire come l’idolo ammaestra il cuore e lo rende «libero» di fare tutto ciò che è necessario per avere successo. Una ragazza che si innamora è «ammaestrata», non c’è bisogno di ammonirla a fare ciò che è necessario per un fidanzamento. Un uomo per il suo lavoro, per i sacrifici necessari e le attenzioni minute «è ammaestrato». E così una madre che genera un figlio; fa tante cose, anche con sacrificio, con piena libertà e senza ammonimenti. I gruppi di coetanei «ammaestrano» immediatamente i giovani, che sanno in pochi giorni come comportarsi secondo il codice simbolico del gruppo. E ciò che avviene con idoli dal contenuto positivo accade anche con idoli perversi, e ciò spiega la durezza di tanti uomini, la crudezza delle guerre, la spietatezza della criminalità. A ben capire ciò, in controluce, si intravede la grandezza di una vita autenticamente cristiana, che rende liberi e «ammaestra» al vero amore, per il bene di tutti. Non per nulla la più importante profezia dell’Antico Testamento, che promette una Nuova Alleanza dice: «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri (…) perché tutti mi conosceranno» (Ger 31, 33-34). Gesù riprende questa profezia: «Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno ammaestrati da Dio”». Lo Spirito Santo «ammaestra», muove con libertà all’amore.

[8] Questo paragrafo è piuttosto nuovo rispetto alla catechesi abituale, ma è di grande rilevanza per capire la risposta salvifica di Cristo all’abisso del disagio umano. Chi volesse capire meglio può consultare il già citato Liberare l’Amore.

[9] Come dimostra bene Ratzinger, c’è un disegno teologico nella morte di Cristo. I capi, il popolo d’Israele, non sono più colpevoli degli altri uomini. Occorre capire sia il portato universale della Redenzione, con un rapporto con tutti i popoli, che i labirinti del cuore umano, il suo capovolgimento nel peccato e la via percorsa da Cristo. Cfr J. RATZINGER, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Milano 2000.

[10] Un racconto vero della persecuzione in Cina mette in risalto il valore di questa fede personalissima: quando, nei primi anni cinquanta, i comunisti andarono al potere in Cina, un giovane professore universitario cattolico fu messo in carcere perché non voleva denunciare il suo vescovo come nemico della patria. Prima di mandarlo in un lager gli fecero vedere la moglie nella speranza che lo convincesse a firmare la denuncia contro il vescovo. Ma la moglie con un sussurro gli disse: «Grazie per aver scelto così!». I suoi occhi fieri gli trasmisero il coraggio di sostenere la sua decisione. Due anni dopo lo spedirono a casa con la speranza che aderisse alla «chiesa patriottica». Potè vedere il quinto figlio e concepire il sesto, appena in tempo per essere rispedito nel lager, dato il suo diniego. Anche in questa occasione la moglie lo sostenne: «Fidiamoci di Dio. A noi tocca vivere intensamente l’esistenza che ci è concessa». Nel 1970, in un giorno di primavera, venne chiamato in infermeria dall’altoparlante. Gli fecero una iniezione. Non fu più lui. Incominciò a deperire vistosamente. Chiese di vedere per l’ultima volta sua moglie, che lo trovò in fin di vita. Quanta fatica per non piangere; raccolse tutte le forze: «So che sto per tornare alla casa di Colui che mi ha fatto felice fin qui. Sto morendo, Teresa, e vorrei tanto resistere ancora qualche giorno; vorrei incontrare il nostro Dio il Venerdì santo. È sempre stato un giorno molto importante per me: la memoria del buon Dio che non ha trovato di meglio che donarmi persino suo Figlio, perché capissi quanto gli sono caro. Ai nostri figli porta la gioia che provo per loro. Sono grato di questa vita, sono grato di tutto quello che ho ricevuto. Sono soprattutto grato di aver saputo che Gesù è morto per me, e di averlo amato. Ne è valsa la pena». Morì nel primo pomeriggio del Venerdì santo di quell’anno. Teresa apprese la notizia un mese dopo. Ma già lo sapeva.

[11] Molti considerano ancora la santa messa domenicale alla stregua di un precetto e invocano la libertà e l’autenticità come motivi per disertarla, specie tra i giovani. Non capiscono che il precetto è un portato dell’amore sponsale: nessun ragazzo ha mai lasciato attendere invano la sua fidanzata invocando la libertà di stare con amici; sa benissimo che se non andasse a un appuntamento dove è atteso, metterebbe in croce l’altra persona e  diventerebbe inaffidabile e incapace di matrimonio, perché nessuno potrebbe mai sapere quando si può contare su di lui. Ugualmente un ragazzo non rimane fuori tutta la notte senza aver avvertito i genitori, altrimenti li metterebbe in croce; sa che lo cercherebbero in tutti gli ospedali o commissariati della zona. Saltare la messa domenicale è molto più grave di così. Gesù vale di più dei genitori che attendono il rientro serale o di una fidanzata che va all’appuntamento: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me» (Mt 10, 37). Vale di più e richiede molto di meno. Chi non va a messa mette in croce Gesù. Tutto appare chiaro quando la fede è viva: credo in Dio che mi ama e manda il Figlio a morire per me! Credo che Gesù mi attende, insieme ai fratelli, la domenica alla celebrazione liturgica comune, a meno che non sia impedito da malattia o da causa grave. Se si capisce che è un appuntamento di amore, sarà pure facile capire che non basta limitarsi ad andare a messa la domenica. Si può dire che la fede ha effetto nella vita quando il cristiano vive fedelmente qualche altro appuntamento con Gesù, specialmente di meditazione personale. Altrimenti si rimane nel mero dovere senza amore.

[12] In modo particolare nelle note 3 e 6. Si può vedere anche la nota 14.

[13] L’esaltazione delle forme e delle essenze ha portato alla filosofia razionalista, molto astratta, soprattutto da Cartesio in poi. Contro questa filosofia si sono dati rovesciamenti vitalistici o meramente funzionali, antiformali, antimetafisici. La forma e l’essenza non sono tutto. Il reale è immensamente più ricco. Solo la scoperta del fondamento filosofico usato da san Tommaso, l’atto di essere, ha dato spazio per una rinascita della metafisica, ma ancora pochi se ne sono accorti. L’atto di essere non è irrazionale, perché fonda la verità e la razionalità di tutto. La verità, per esempio, prima che dell’essenza è un trascendentale dell’essere. Le cinque prove dell’esistenza di Dio, dateci da san Tommaso, acquistano una particolare forza sulla base della metafisica dell’atto di essere. L’essere come atto non è l’esistenza, e neppure è da confondersi con il reale, e neppure con l’esse comune. È ciò che pone tutto nella sua perfezione, ciò che attua con perfezione diversa le realtà diverse, mentre l’esistenza si dice nello stesso modo per tutto ciò che esiste. Non è facile pensare all’atto, e difatti l’essere come atto è ineffabile. Tanto più ineffabile è Dio, atto puro. Oltre all’atto di essere, le forme sostanziali hanno la loro consistenza fondamentale. Senza entrare nella metafisica, rimanendo a livello scientifico, ogni fenomeno materiale si dà nell’àmbito della formalità delle leggi della dinamica, e queste leggi non conoscono evoluzione. L’evoluzione pertanto non può spiegare tutto. Antonino Zichichi riesce a far vedere come tali leggi sono universalissime; le definisce come il linguaggio di Dio per decifrare la creazione. Ma, in modo più concreto, si può vedere che un ragazzo scopre di avere i baffi intorno ai quindici anni, ma è chiaro che fin dal concepimento c’era una formalità nascosta, che per emergere ha atteso l’evolversi della complessità molecolare.

[14] Sentendo parlare di legami forti si può temere il fondamentalismo. Ma, oltre a capire che il fondamentalismo si può dare soltanto se si mette l’assoluto su verità sbagliate, lo si supera in radice quando l’assoluto è posto sull’amore, come nel vero cristianesimo. Luciano De Crescenzo, nel libro Così parlò Bellavista, dice che il mondo si divide tra platonici (assolutisti) ed epicurei (relativisti), scegliendo di stare con questi ultimi. Si teme, giustamente, che il fanatismo di una ideologia assolutizzi una parte astratta di verità, come è successo con il nazismo e il fascismo e come vediamo in alcune frange islamiche, ma anche in tante teorie e in tante sette. Di fatto però, l’uomo non può vivere senza credere e senza proiettarsi verso un fine più grande di lui, verso un futuro con speranza vera. Un assoluto ce l’ha sempre. Anche coloro che predicano la tolleranza come valore principe diventano intolleranti verso coloro che hanno credo diversi. La tolleranza è molto importante, ma non è l’assoluto; tra l’altro perché educa i giovani all’indifferenza dei valori, dato che non potremmo impegnarci a trasmettere valori senza venir meno alla tolleranza come assoluto. Il problema non si risolve escludendo tutti gli assoluti, bensì mettendo l’assoluto là dove va messo, e cioè nell’amore. Soltanto l’amore, se assolutizzato, non diventa intollerante, perché la tolleranza è una delle virtù dell’amore. Anche questa è una prova praticamente inconfutabile dell’esistenza di Dio. Soltanto l’amore infinito di Dio colma le inquietudini di assoluto che l’uomo ha dentro di sé, come ha ben sintetizzato sant’Agostino nelle Confessioni: «Ci hai fatto o Signore per te, e inquieto è il nostro cuore fin che non riposa in te».

[15] Come ho studiato a lungo nel libro Liberare l’Amore, anche tra i cattolici si annida profondamente l’idolatria, la ricerca di consenso non in Cristo ma nel gruppo. A questo livello i gruppi cattolici hanno di buono soltanto il fatto che oggettivamente percorrono un cammino positivo e che una eventuale conversione è notevolmente favorita dal fatto che non c’è da cambiare strada e gruppo. Non è per nulla facile convertirsi intellettualmente e intraprendere un percorso da soli, lasciando alle spalle i vecchi amici con il loro consenso fuori posto. Quanti giovani abbandonano la fede perché di fatto si sono trovati coinvolti con amici non praticanti! Molti non si convertono proprio perché è il loro cuore a impedirlo, intuendo immediatamente che dovrebbe subire la scomunica della «chiesa segreta». Un gruppo cattolico (dico «gruppo» ma voglio intendere la variegata gamma delle realtà ecclesiali) è comunque una strada positiva. Abbiamo intravisto come sia sempre un bene che la ricerca di consenso si assesti su realtà positive. In questo senso le religioni universali non cristiane offrono certamente molti valori positivi e una convivenza spesso pacifica.

[16] Si veda la nota 1.

[17] G. BIFFI, La sposa chiacchierata. Invito all’ecclesiocentrismo, Jaca Book, Milano 1998, p. 73.

[18] L’ingiustizia consiste nella differenza tra ciò che mi è dovuto e ciò che mi è dato; se merito un trenta in un esame e mi danno ventiquattro, mi sento trattato ingiustamente. A Gesù era dovuto ogni onore umane e divino ed è stato annoverato tra i malfattori, il peggiore di Israele. La distanza tra il dovuto e il dato definisce ogni ingiustizia.

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