Ugo Borghello
La
sfida dell’Amore
Perché
essere cattolici fin da giovani
Presentazione del Cardinale Giacomo Biffi
EDIZIONI ARES - MILANO
Giugno 2000
Copyright
C 2000 Edizioni Ares
Via
A. Stradivari, 7 – 220131 Milano
ISBN
88-8155-196-9
Prima edizione
Il nostro indirizzo Internet è:
La nostra e-mail è
La e-mail dell’autore di questo libro è:
ugoborghello@yahoo.it
Imprimatur:
+ Claudio Stagni
Vescovo
Ausiliare, Vicario Generale
Bologna,
19 giugno 2000
Non è impresa facile
sottrarsi a quella sorte di frenesia inconcludente che affligge, e quasi
assimila nei suoi più vari aspetti, la vita dei nostri tempi, per tanti versi
così frammentaria.
Fermarsi a riflettere
su sé stessi, accogliendo in pienezza la grazia e la responsabilità del proprio
essere uomini, rischia di divenire, di conseguenza, più arduo ancora che in
passato; e saranno in grado di farlo ormai solo quei temerari che osino sfidare
i dogmi aridi e vuoti che così spesso vengono enunciati da molti «profeti del
niente».
Oggi come in ogni
tempo, tuttavia, chiunque si accinga a intraprendere onestamente un cammino di
questo genere dovrà rendersi conto presto di come non sia possibile negare, né
eludere, il problema della salvezza.
Il bisogno di essere
salvati, infatti, è una realtà che ogni creatura umana reca impressa, nel
profondo del proprio essere, come un marchio incancellabile. Tutti abbiamo
bisogno di essere salvati dal male, che ci assedia dall’esterno ma di cui pure
scopriamo radici dentro di noi; di essere salvati dalla paura, dall’incertezza,
dalla menzogna. E c’è in ciascuno un’urgenza lancinante di essere salvati da
quell’insignificanza – vivente e angoscioso presagio della morte, che tutto
sembra vanificare senza riparo – che è capace di avvelenare ogni più nobile
sforzo, ogni più appagante risultato, ogni più faticosa crescita, ogni anèlito
alla bellezza.
Il problema della
salvezza è il problema della verità e del senso; ed è veramente, secondo
un’espressione che ricorre in questo libro, «un problema abissale di amore».
Parole che suscitano,
nell’animo di chi è uso alla preghiera della Chiesa, l’eco di quelle del Salmo
42, «Abyssus abyssum
invocat»: «un abisso
chiama l’abisso». La profondità della creatura, mistero a sé stessa, invoca,
col proprio semplice esistere, un abisso infinito capace di colmarla di senso.
Grida la sua sostanziale, drammatica indigenza; e grida, insieme, la sua
inesausta speranza, nella consapevolezza innata che solo l’amore può essere
risposta compiuta e definitiva al suo appello.
Il dono e la fortuna del
credente è di sapere che la risposta alla preghiera che si eleva, più o meno
cosciente, dall’uomo e dalla storia, è venuta: in Gesù Cristo, l’unico
necessario Salvatore.
Ed è una risposta
universale, che vale per tutti gli uomini e per tutti i tempi, e per ogni tempo
della vita di ogni uomo: risposta, nel senso più pieno del termine, veramente
«cattolica».
Una risposta che nei
giovani può trovare destinatari privilegiati; perché Cristo, presentato nella
sua meravigliosa perfezione di uomo e nel suo totalizzante mistero divino, è
ancora e sempre il grande fascinatore dei cuori, che proprio nel cuore dei
giovani, non ancora chiuso e indurito dalle esperienze amare del mondo, sa
destare le risonanze più prodigiose e sorprendenti.
Per questo, ogni opera
che si proponga di aiutare i giovani a realizzare l’incontro con Cristo, o a
prendere coscienza con gioia e con legittima fierezza della grazia inestimabile
e delle conseguenze vitali dell’incontro con lui già avvenuto, merita
considerazione e incoraggiamento.
È l’incoraggiamento
che desidero esprimere all’Autore di queste pagine, insieme con la mia
gratitudine di pastore e coll’augurio più cordiale che la passione, che da
ognuna di esse traspare, per la salvezza dei giovani e per il loro Salvatore,
sia ricompensata da una messe copiosa di frutti.
Bologna
22 giugno 2000
+ Giacomo Card. Biffi
Arcivescovo di Bologna
Il titolo e il sottotitolo, con le sue serene provocazioni,
saranno ripresi alla fine.
In questo libro si propone un modo nuovo di porsi di fronte
alla fede, partendo dal vissuto quotidiano scandagliato in profondità e dalle
domande segrete presenti in tutti noi. Spesso il Vangelo non illumina perché lo
si interroga con domande sbagliate, ignorando le vere domande del cuore. Dare
risposte a chi non si pone domande è come seminare pietre.
Guardiamoci intorno: quanti slanci giovanili meritevoli di
un futuro pieno di speranza rischiano di soffocare nel vuoto nichilistico della
cultura imperante? Non è facile a un giovane dare uno sguardo panoramico alla
miriade di speranze, di filosofie, di promesse proposte lungo la storia,
soprattutto recente, per accorgersi che sono tutte passate di moda e non sempre
in modo indenne per gli uomini. Perché ci
sono tante convinzioni diverse, che regolano la vita e il destino degli uomini?
Ognuno è convinto di pensare bene, eppure se ha ragione lui tutti gli altri
sbagliano. C’è dietro un immenso problema
di amore che ha bisogno di essere «salvato», sanato da una sorgente pura,
per farci vivere autenticamente i nostri aneliti, altrimenti genera sofferenze
per sé e per gli altri.
C’è stato un uomo (le prove storiche sono al di sopra di
ogni scientifico sospetto), il figlio di un falegname mediorientale, che si è
posto proprio come fonte innocente di un amore salvifico, fiume di acqua viva
che disseta per la vita eterna. Ha detto cose inaudite: «Mai un uomo ha parlato
come parla quest’uomo» (Gv 7, 46),
cose che nessun uomo sano e sensato può pronunciare. E ha sconvolto la storia. Il
figlio di un falegname che diceva di essere figlio di Dio e si fece
crocifiggere a causa dell’ostinazione con cui sosteneva tutto ciò. Un povero
pazzo, un girovago che pagò con la morte la sua follia. Oppure no?
Studiando i problemi abissali di amore che ci condizionano,
le parole di Gesù diventano vera luce di vita. La fede dona nuovi orizzonti
divini, ma allo stesso tempo illumina i grandi problemi dell’uomo. Nel nostro
tempo diventa sempre più opportuno, oltre a studiare la Scrittura, studiare
l’uomo per capire la bellezza della risposta rivelata. Qualcuno ha fatto notare
che la parola di Gesù è bella al di sopra di ogni bellezza umana, e da questo
la ragione è indotta a credere che Gesù è il Figlio di Dio.
Studieremo tre passaggi
necessari di cui prendere coscienza per decidere bene della propria vita:
Innanzitutto cogliere la natura del male che ci affligge – dell’inganno, del
disagio – come problema abissale di amore. In secondo luogo scoprire
l’autenticità dell’amore di Gesù Cristo, unico in tutta la storia dell’umanità.
Infine, il dono dell’amore, che salva il nostro cuore e i nostri rapporti
umani, dobbiamo vederlo in parte realizzato sulla terra, con legami nuovi.
L’amore agisce solo in quanto crea legami forti, non basta pensarlo e neppure
basta il sentimento.
«Gesù Cristo? Un uomo che ha molto futuro», rispondeva un
giornalista inglese in un’intervista. Se si riesce a pensare al futuro, non è
difficile intuire che soltanto Gesù Cristo può sostenere i nostri legami di
amore in una prospettiva che si apre all’eternità. Ma non senza la Chiesa.
Tempo fa ho conosciuto uno studente universitario. Era
prossimo alla laurea. Fu facile entrare in simpatia. Tanto da potergli chiedere:
«tu preghi?». La risposta, che a parer suo avrebbe dovuto essere disarmante, fu
spontanea: «perché dovrei pregare? Ho ventiquattro anni, sto per laurearmi
brillantemente. Ho la fidanzata, tanti amici, faccio sport, posso chiedere i
soldi di cui ho bisogno ai genitori. Mi dice lei perché dovrei pregare?».
«Dovrò partire un po’ da lontano» – mi venne da rispondere –, «ti ci vorrà
pazienza e apertura di cuore, disponibilità a cambiare parere e vita. La
preghiera è il canto dell’anima, canto triste o gioioso, “canto nuovo” nella
fede cristiana, ma non puoi capire il bisogno di pregare se non conosci il
labirinto del tuo cuore».
Tanti invece sono venuti dal sacerdote perché affranti,
insicuri, a volte disperati. Li riassume bene Kierkegaard, in La ripetizione: «Sono allo stremo. La
vita mi disgusta, è insapore, senza sale né senso. Fossi affamato più di
Pierrot, non mi andrebbe ugualmente d’ingoiare la spiegazione offerta dagli
uomini. Dove sto? Che cosa vuol dire: il mondo? Perché non mi hanno
interpellato? perché non mi hanno istruito su regole e costumi, invece
d’intrupparmi quasi che fossi stato comperato da un mercante di mozzi? Come
sono diventato socio della grande impresa che chiamano realtà? Perché devo
essere socio? Non è facoltativo? E se devo esserci costretto, dov’è allora il
direttore? Dove devo rivolgermi con il mio reclamo? Dopo tutto, la vita è un
dibattito; posso chiedere che il mio parere venga inserito nell’ordine del
giorno? Se bisogna prendere la vita com’è, non sarebbe meglio stabilire com’è?».
Sembrano parole lontane dal primo esempio. In realtà le posizioni non sono
molto distanti. Quel ragazzo infatti fu lasciato dalla fidanzata dopo cinque
anni di fidanzamento, in vista del matrimonio, ed è caduto in prostrazione per
un anno circa, con sentimenti simili a quelli descritti da Kierkegaard. La sua
felicità dipendeva dal parere incerto di una ragazza.
L’esempio meno sbiadito che si possa dare del cielo, della
salvezza, della felicità che tutti cercano, piena ed eterna, è il momento in
cui erompe l’amore di un giovane per una giovane. In Spagna si dice: «mira como se contemplan!», guarda come
si contemplano! La felicità vera rende estatici, ferma il tempo. Proprio
quest’esempio ci permette di leggere in controluce l’abisso di angoscia che
ogni persona cerca di attraversare su fragile passerella. E l’angoscia è
l’esempio meno sbiadito della vita non salvata; potremmo anzi dire che è un
anticipo dell’inferno, purché non si fraintenda: come non è detto che chi si
innamora umanamente abbia il vero cielo nel cuore, così chi si angoscia non è
certo per questo destinato alla perdizione. È solo una pista per giungere a
capire che tutti noi siamo esposti all’angoscia e pertanto abbiamo tutti
bisogno di salvezza, già sulla terra e per il destino eterno. Dice uno
specialista dell’amore umano: «L’amore non corrisposto porta a un’esistenza tre
le più disperate che si possano immaginare. La vita diventa una prigione, tutto
svanisce e perde significato. La tristezza invade il cuore e vi prende dimora
stabilmente. Non ci sono più progetti e speranze»[1].
Come si vede, sono sentimenti simili a quelli descritti da Kierkegaard.
Innamorarsi, essere lasciati: sorti diverse che non
dipendono soltanto dalla nostra volontà. Entra in ballo la libertà e la volontà
di un’altra persona, che non possiamo sottomettere per garantirci la felicità.
Per questo, pur essendo creati per amori grandi, di fatto siamo esposti all’angoscia. E questo non vale soltanto per l’amore
umano. I figli, gli amici per gli adolescenti e i giovani, il lavoro o le
responsabilità sociali, danno un significato forte alla vita, ma sempre esposto
alla libertà e volontà di altri. Se il legame si rompe, ecco che si precipita
in un dolore sconvolgente. Una persona sicura di sé, che ha raggiunto tante
mete e legami soddisfacenti, può crollare da un momento all’altro per una
malattia grave, per un forte insuccesso sul lavoro, per una calunnia pubblica,
perché lasciato dalla moglie, perché tradita dal marito, perché un figlio si
droga, perché la fidanzata lo lascia senza che sappia bene il motivo, perché si
logorano i rapporti all’interno del gruppo di riferimento esistenziale. Tutte
cose che capitano o possono capitare (anche se non le augureremmo a nessuno!).
Non le ricordo per spaventare, ma per aiutare a prendere coscienza di paure
presenti anche se nascoste, che condizionano la vita e i rapporti umani. Solo
chi sa guardare nel proprio cuore senza paura può intravedere i rischi e le
speranze della vita e può aspirare a una felicità reale, che inizia sulla terra
e riguarda tutti.
Per capire perché e in che modo Gesù Cristo è l’unico
salvatore del mondo occorre innanzitutto
capire perché dobbiamo essere salvati. Diamo alla parola «salvezza» il
significato più pieno: che non riguarda soltanto la vita eterna (significato
principale), ma anche la responsabilità che tutti abbiamo verso la salvezza
degli altri, verso l’amore autentico quaggiù nella storia, verso una vita
sempre più degna dell’uomo, salvata dal male, salvata dall’egoismo umano,
salvata dagli inganni terribili che causano ogni sorta di disagio nel cuore di
ciascuno e nelle famiglie, nel lavoro, nella società, nella Chiesa stessa, tra
le nazioni. Non possiamo pensare di salvarci nel destino eterno senza pensare
agli altri che ci accompagnano sulla terra. Non basta però fare del bene se il
cuore rimane inautentico, se non viene salvato dal dono innocente di Cristo.
Per conoscere la salvezza non la si può rimandare al futuro: il futuro eterno è
per chi incomincia a viverlo sulla terra. Gesù dice: «Chiunque avrà lasciato
case o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome,
riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19, 29): occorre capire anche il
significato di quel «cento volte tanto», altrimenti rischiamo di rimandare
tutta la salvezza a un paradiso concepito come paese delle meraviglie, mentre
nel frattempo seminiamo l’inferno sulla terra. Più lontano lasciamo il cielo
dalla terra, più contribuiamo a rendere irrespirabile l’atmosfera umana.
Naturalmente ci possiamo capire solo con chi intuisce e riconosce che l’uomo è
intrinsecamente bisognoso di salvezza. Chi pensa che tutto va bene, che l’uomo
può essere felice e scampare alla morte con le sole sue forze, sorriderà di
fronte a ciò che diciamo. Ma poi resta da vedere se per caso, dato che comunque
quell’uomo felice non è, non se la prenderà con gli altri dando a loro la colpa
della sua insipienza e riempiendo così il mondo di divisione, di lotta, di
infelicità.
Possiamo partire dalle parole di Giovanni Paolo II nella sua
prima Enciclica: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso
un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene
rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo
fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor
hominis, n. 10).
Sono parole che si colgono immediatamente come vere.
Difficilmente però ci si pone di fronte a esse per domandarsi come sia
possibile, quanto ci riguardino personalmente, cosa si intenda per amore,
eccetera. Il problema sta nel fatto che la parola «amore» evoca subito
orizzonti belli, umani, necessari, ma nell’àmbito di sentimenti personali,
privati, più emotivi che di oggettiva e reale consistenza. Il legame di amore
riguarda anche gli altri; chi non sa amare diventa un problema per tutti. Dai
greci in poi la filosofia ha riservato poca considerazione all’amore; ha
seguito strade razionalistiche, o rovesciamenti irrazionali, pragmatistici,
romantici, mistici, edonistici e così via. Eppure il tema dell’amore affiora in
molti modi. Nella letteratura, innanzitutto; nel cinema, in alcune filosofie.
In teologia naturalmente è un tema centrale, ma viene lasciato unicamente al
versante soprannaturale. Dove invece appare nella sua istanza esistenziale è in
psicologia. Tutte le scuole scoprono nei più diversi modi il tema decisivo dei
rapporti interpersonali, per il benessere o il malessere della persona. Quello
che molti intuiscono è che il cuore ha
una sua prigione, che la ragione non riesce ad aprire, ma non ne capiscono
la causa germinale. Solo la Parola di Dio può illuminarci, quella Parola che
per l’autore della Lettera agli Ebrei «è viva, efficace e più tagliente di ogni
spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e
dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i
pensieri del cuore» (Eb 4, 12). Quel
che diremo terrà presenti le scuole psicologiche, ma più ancora la Scrittura
rivelata e l’esperienza di rapporti con migliaia di persone. Naturalmente dovremo
essere brevi e a portata di tutti[2].
Fin dall’inizio Dio rivela la natura necessariamente sociale
del genere umano: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2, 18). Un proverbio napoletano dice: «Si può anche vivere senza
sapere perché si vive, ma non si può vivere senza sapere per chi si vive». Se
si interroga qualcuno sul senso della vita c’è rischio di ricevere risposte
scortesi. Ma se si potesse domandare al cuore di ciascuno: «per chi vivi?»
verrebbero alla luce tanti legami «forti», con i genitori, i familiari, gli
amici, nel fidanzamento, ma anche nelle relazioni del lavoro, o nei compiti
sociali, nelle imprese politiche, di volontariato, e infine nella Chiesa. Ogni
persona, che ha un «nome» per definire la sua unicità e singolarità libera, ha
un bisogno profondo di un «cognome» che la identifichi presso gli altri. Col
sopraggiungere dell’adolescenza il cognome paterno non basta più, e il cuore
non può vivere se non trova un «cognome» allargato tra gli amici e nella
società. Perché tanti contrasti tra genitori e figli? Eppure si direbbe che a
volersi bene la vita sarebbe bella per tutti. Ma il bisogno di consenso tra i
coetanei oggi è talmente imperioso che provoca contrasti spesso inspiegabili
per i genitori.
Ricoeur distingue tra «gli altri-da-me» e «gli
altri-per-me»; solo i secondi formano una comunità vitale, un’area
solidaristica, che permette al cuore di sentirsi riconosciuto, di trovare
immagine significativa. Senza questo riconoscimento si precipita nell'angoscia.
Di fatto non si può vivere se non si divide la sorte con qualcuno («consorti»). L’uomo ha bisogno del ri-conoscimento o
del con-senso altrui più dell’aria che respira. L’emarginazione è sentita
come condanna, riempie di paura, l’essere
esclusi svuota la vita. Anche coloro che sostengono di non aver bisogno di
alcun successo, o di riconoscimenti, coloro che fanno professione di
individualismo, in realtà stanno gridando al mondo che loro non hanno bisogno
di nessuno. È anche questo un modo di sentirsi affermati, dimostrando agli
altri di essere superiori al loro giudizio, ma dipendendo in realtà da un
successo di immagine. L’individualismo è un appello lanciato al mondo per
essere riconosciuti dagli altri come
esseri unici, come persone. L’uomo riconosce sé stesso solo se ri-conosciuto
dagli altri. Si stima solo se altri lo stimano e lo amano. Sant’Agostino poteva
dire: «Non c’è nessuno che non ami, ma ci si domanda cosa ama» (Sermone 34). Il problema dell’amore
entra nella definizione stessa di persona, proprio come «nome» e «cognome»,
come essere per sé ed essere per gli altri. Tanta efficacia e forza che
riscontriamo in Giovanni Paolo II è dovuta proprio al fatto che ha colto nella
persona umana il bisogno congenito dell’amore e che fin da giovane ha preso sul
serio l’invito di san Paolo a scegliere «la via migliore» (cfr 1 Cor 12, 31), il primato della carità
fraterna. Ripete spesso che se non avviene il dono di sé agli altri, la persona
non ritrova sé stessa.
La radicalità del problema è facile da individuarsi nell’età
giovanile. Le grandi novità dell’adolescenza nascono proprio dal bisogno
profondo di andare oltre il riconoscimento dei genitori e dimostrare al mondo
che ci siamo anche noi. Se si trovano amici che ci apprezzano, la vita diventa
bella, altrimenti diventa insopportabile. In genere qualche amicizia la si
trova sempre, perché il bisogno di amicizia per i ragazzi è di tipo assoluto e
vale per tutti; pertanto è facile appoggiarsi gli uni sugli altri. Di per sé
non è negativo, anzi è bello e necessario, fa parte del disegno di Dio. Ma
facilmente si viene a creare un gruppo
con il suo codice simbolico, le sue leggi morali, che assume la forza di una
chiesa. È giusto parlare di «chiesa», perché si tratta di un vincolo che
vale più della vita fisica, più dell’istinto di conservazione e pertanto
costituisce un fatto spirituale, che sostituisce il legame necessario con Dio,
come fonte di amore. Di fatto tutti,
giovani e grandi, viviamo in una «chiesa segreta», che esternamente può essere
più o meno consistente, ma che determina tutte le scelte importanti e
soprattutto il modo di pensare. Si crede di fare scelte libere e pensate,
ma in realtà «si è scelti», non coscientemente da altri, ma dai rapporti che di
fatto vengono a crearsi. Anche un intellettuale ateo, per esempio, non può
rinunciare ai suoi lettori o seguaci. Poi ci si convince «liberamente» e
profondamente che le idee che si sposano nel gruppo o nell’area culturale di
riferimento siano state pensate personalmente. In realtà sono quelle che
servono per avere un riconoscimento interno al gruppo, per avere successo nei
rapporti interpersonali del gruppo. È possibile che quattro ragazzi che vivono
per la discoteca si dicano cose molto superficiali, ben convinti di essere più
intelligenti dei genitori o dei professori, o magari del Papa, perché con
quelle idee ottengono ascolto dalle «persone essenziali» che si riconoscono in
quel gruppo (e con ciò non voglio trinciare un giudizio globale sugli ambienti
delle discoteche e tanto meno sulla personalità dei singoli che le
frequentano).
Molti pensano che ogni uomo sia mosso da un egoismo
personale, dal desiderio di possedere beni, dal piacere. Tutto questo c’è, ma
in effetti è subordinato al problema dell’amore, anche quando esso è capovolto
nell’amor proprio. Il figlio prodigo della parabola vuole possedere l’eredità
per diventare signore di sé stesso, non più figlio. Finisce per disperdere i
suoi possessi per scoprirsi schiavo. L’uomo non può essere padrone di sé
stesso. O è figlio o cade nella schiavitù. Perché dietro c’è sempre il problema
dell’amore. Dietro il dono c’è il donante; dietro l’eredità c’è la paternità.
Possiamo ingannarci, magari barattando l’amore del padre con le attese degli
amici di baldoria (sicuramente il figlio prodigo è stato attirato da altri a
una vita senza le leggi del padre, ma con quelle del gruppo che gli ha imposto
la rottura con la casa paterna), e credere di diventare possessori di un dono
capace di farci liberi. Ma se si rompe il vincolo con il padre, con la sorgente
viva del dono, si rimane vuoti. È come abbattere l’albero per coglierne meglio
i frutti. Saranno gli ultimi. I beni di questo mondo devono rimandare sempre a
rapporti belli di amore. Tornando in sé stesso quel giovane sentì la nostalgia
della casa paterna. La salvezza non consiste nel togliere i mali di questo
mondo, ma nel passare dalla schiavitù di dipendere dal riconoscimento degli
uomini alla condizione di figli di Dio.
Nel passato gli adolescenti cercavano amici coetanei, ma il
consenso radicale era quello dei grandi. C’erano piccole ribellioni o
innovazioni, sufficienti a far gridare agli anziani di tutti i tempi: guarda
che tempi! Chi capisce più questi giovani? Ma ben presto prevalevano le attese
dei grandi. Oggi le attese dei grandi valgono ancora; in alcuni giovani sono
preponderanti. Eppure è successo qualcosa che potrebbe far pensare che i tempi
sono cambiati radicalmente. Oggi più che mai si potrebbe dire: chi capisce più
questi giovani? Però lo si dice molto meno, indice che il mondo dei grandi è
già coinvolto nella rottura delle tradizioni.
Il grande cambio è stato accelerato molto concretamene dai
movimenti giovanili sorti nel 1968. Mesi e mesi di occupazione, lontano dalla
famiglia, nell’avventura inebriante con i coetanei, sulla cresta dell’onda e
dei giornali, hanno spostato di fatto il consenso predominante dai grandi ai
coetanei. L’autogoverno dei giovani, con la rottura sbandierata di tanti
costumi tradizionali, soprattutto sessuali, ha conquistato una apparente
libertà dai genitori, dai professori, dai sacerdoti, che ha cambiato in
profondità molte cose. I genitori hanno dovuto cedere molto per riavere i figli
in casa. Da quei momenti in avanti sono molto cambiate soprattutto le ragazze,
con conquiste positive e negative molto mescolate, senza sufficiente coscienza
critica.
Più tardi si è visto che i coetanei non ti trovano il lavoro
e pertanto c’è stato un certo ritorno a casa. Dato che i genitori avevano e
hanno chiuso entrambi gli occhi su tante cose, questo ora permette a tanti
giovani di sfruttarli molto a lungo. Ma il problema del consenso rimane assai
confuso (che cosa si attendono gli altri dai giovani?); e con esso quello della
progettualità, dell’amore umano, della responsabilità familiare, eccetera. Con il prevalere del consenso dei coetanei
avvengono veri sconvolgimenti, difficilmente gestibili, perché nascono
«chiese segrete» imprevedibili, dall’esito problematico sia per i giovani che
per la società intorno a loro. Sono possibili fenomeni molto positivi, ma pure
tante vite perdute. Di fatto si dà una maggior fragilità dell’amore umano, con
carichi schiaccianti di sofferenza. È impressionante vedere l’effetto del
consenso dei coetanei in certe scuole medie, tra ragazzini e soprattutto ragazzine
dodicenni. La permissività dilagante le scatena, ma come fanno a quell’età a
gestire sentimenti forti, rapporti sessuali, relazioni di tutti i generi senza
rimanerne disgregate? È fondamentale una crescita graduale, un passaggio
armonico dal consenso dei genitori a quello sociale. Nei gruppi cristiani è più
facile che si dia un giusto equilibrio, perché l’ecclesialità comprende
relazioni in tutti i sensi.
Dopo la stagione politica del ’68, il consenso dei coetanei,
con promiscuità totale, ha aumentato l’autogestione di ciascun gruppo. Prima
dell’avvento della totale promiscuità tra ragazzi e ragazze, i giovani si
organizzavano: in politica, nello sport, nell’arte, eccetera. Ora tendono a
stare insieme e basta; tra di loro parlano di loro, di altri assenti. Si fa
molta musica, perché aiuta a stare insieme senza altri problemi. Si fa
qualcosa, come mangiare una pizza o andare in discoteca, ma per stare insieme.
Danno l’impressione di essere inattaccabili; infatti è così, finché il gruppo è
omogeneo e i rapporti interni sono vivaci e sereni. Quando ha successo nel gruppo, un giovane vive momenti di euforia, di
libertà, di fiducia; come un uomo che ha successo nel lavoro. I coetanei
non chiedono particolari prestazioni, ti accolgono così come sei, non ti rimproverano,
mentre i grandi giudicano continuamente, non sono mai soddisfatti, controllano
i compiti, i risultati, i peccati, le responsabilità.
So bene che ci sono tante eccezioni, magari proprio fra chi
leggerà queste pagine. Ma bisogna sempre avere davanti il quadro globale, ed è
lì dove frange sempre più estese di giovani tendono unicamente a stare insieme.
Sandro Onofri, uno scrittore recentemente scomparso che era anche insegnante,
nel volumetto postumo Registro di classe
descrive i suoi alunni in un Istituto della periferia di Roma. L’occasione
gliela dà una mattinata a teatro, dove i ragazzi «non hanno mosso un dito dal
primo all’ultimo minuto». Ricorda i suoi tempi di alunno, quando a teatro dopo
meno di un’ora si scatenavano tutti, per il semplice fatto che un ragazzino non
sta fermo più di un’ora. «Storia vecchia, dunque. Eppure c’è qualcosa di
diverso e di nuovo […] Silenziosi, muti e immobili, come sempre. Come sono
anche in classe. E però assolutamente assenti. I miei compagni di classe erano
capaci di rivoltare l’aula con partite a pallone giocate con una palla fatta di
carta, ma anche di restare a bocca aperta un’ora intera ad ascoltare una storia
o un racconto letto dalla nostra professoressa di italiano. I miei alunni
restano per la maggior parte con le mani buttate sul banco e la testa buttata
sulle mani, le palpebre a metà, dalle nove alle tredici. Indifferenti, apatici,
indolenti. E fuori scuola non sono molto diversi. Non hanno interessi, non
hanno passioni neanche in quel modo arruffone e divampante tipico degli
adolescenti» (p. 69). Il problema è dovuto anche al fatto che nelle grandi
periferie è più facile che un giovane viva tutto proiettato nel gruppo e che
ben presto proprio i rapporti interpersonali del gruppo entrino in crisi, dando
un senso di vuoto e di incertezza profondamente tragico per un giovane. Oggi il
problema più grande che si può rilevare tra i giovani è proprio questo affidarsi troppo al gruppo e ben presto
ritrovarsi in crisi per la fragilità dei rapporti interni del gruppo. E
allora si cerca la sicurezza in casa, dai genitori sempre disponibili, oltre la
soglia dei trent’anni, con grande mancanza di progettualità e di fiducia in sé
stessi. Oggi le nuove «chiese» hanno ben poche radici e di fatto trascinano
masse ingenti di giovani verso il fallimento esistenziale. Sembra, dalle
indagini sociologiche, che circa un terzo perda i legami generazionali (vite
smarrite, senza amore – cui non togliamo però la speranza di una possibile
rinascita); un altro terzo si barcamena con notevoli disagi.
Da quanto stiamo dicendo si può capire che di fatto
l’egoismo è molto più sottile e ingannevole di quanto ciascuno possa pensare di
sé stesso. Stiamo di fatto accostando «la regione della dissimilitudine», come
la chiama sant’Agostino, e cioè il disordine di fondo provocato dal peccato
originale. Allontanandosi dalla fonte
divina dell’amore le creature umane non è che rinuncino a un amore infinito:
siccome non possono assolutamente vivere senza di esso, istintivamente lo
cercano negli altri. È questa la prigione del cuore, perché si è in balia della
volontà degli uomini.
L’illuminismo ha cercato in tutti i modi di negare il
peccato originale, ma non riesce a far felici se non attraverso il successo
sugli altri, attraverso il potere (e non certo attraverso la ragione pura).
Nessuno può negare il disagio che attraversa il cuore umano. Questo disagio,
che dipende solo in minima misura dalle circostanze esterne, porta a dividere i
cuori anche di persone mosse soltanto dal desiderio di amarsi e capirsi, come
avviene per i coniugi, per i genitori verso i figli, per i cristiani nella
comunione ecclesiale, eccetera. Se si capissero i moti profondi del cuore si
eviterebbero tanti drammi, tante cattiverie. Ma è difficile che i genitori
capiscano quale calamita sta pilotando il cuore del figlio, e tantomeno sono i
figli a capire le calamite dei genitori. Sicché per cose di poco conto si
possono arrecare disagi efferati a gente carissima. E molto più esposti ci si
ritrova negli altri rapporti sociali.
L’egoismo più sottile
è compatibile con eroismi e generosità sconfinate, fino alla morte.
Tutte le persone di questo mondo sono disposte, di fatto, a morire per
qualcuno, altrimenti il loro cuore non si sentirebbe importante per nessuno e
ciò porterebbe al suicidio. Una donna che ha abortito il secondo figlio è
capace di morire per il primo. Qui la massima generosità apparente convive con
il massimo egoismo. Ci sono padri che in casa sono sempre stanchi e poco
attenti, ma sul lavoro sono capaci di sacrifici senza limiti. Ci sono giovani
capaci di bastonare gente di altre razze, ma pronti a rischiare anche la vita
per il loro gruppo. In tutti i tempi e in tutti i luoghi tanti giovani sono
partiti per la guerra, e molti sono morti. Per quale motivo? A parte le motivazioni
coscienti è certo che nessuno può continuare a vivere in paese, di fronte ad
amici e conoscenti, se ha disertato, lasciando che altri morissero al suo
posto. È sempre il «consenso per vivere» che determina vita e morte.
Da dove traggono la
forza per tanti sacrifici? Ognuno penserà alla coerenza con le
proprie idee, ma in realtà si muore per idee molto diverse. Un terrorista
pronto a morire per le sue idee, cambierebbe immediatamente comportamento se
venisse a sapere che i suoi lo hanno tradito; e cambierebbe anche le idee! Dietro c’è sempre un problema di amore, mal
risolto.
Certamente tanti giovani, oggi, nei Paesi opulenti, vivono
nella comodità, ma si può scoprire che
sono pronti a grandi sacrifici se il gruppo lo richiede. Così come si dice
che i giovani d’oggi sono amorali o seguono una morale soggettivistica. In
realtà seguono sempre le leggi ferree del gruppo. Basti pensare ai costumi
sessuali: «se non fai tutto sei una suora»; «sei ancora una bambina che ha
paura», si sente dire ogni ragazza adolescente dalle altre (e non solo dal
ragazzo che ci spera) in un gruppo non configurato cristianamente. Non si
tollera una diversità positiva, che possa creare ripensamenti e scrupoli.
Naturalmente non si impone nulla con la forza, ma un condizionamento di gruppo,
che può essere più forte della morte, riesce a omologare quasi tutti coloro che
frequentano quel gruppo. C’è ben poco soggettivismo morale, anche tra i grandi;
ci sono nuovi conformismi. In genere i dieci comandamenti si ritrovano dietro
le superfici culturali differenti. Ma è pur vero che il «consenso per vivere»
condiziona la morale, anche se soltanto riguardo a ciò che dà potere
significativo all’interno del gruppo di riferimento.
Ma va ricordato che il consenso si gioca in molti modi diversi.
Tanti giovani non amano il branco, anche se non sfuggono al bisogno di
consenso. Molti rimangono grandemente calamitati verso il futuro, verso le
attese dei grandi, verso imprese di successo. Ci sono giovani rampanti di
grandi capacità. Giovani intellettuali. Ci sono soprattutto i gruppi cattolici
pieni di vitalità e di futuro. Ci sono esperienze di ogni tipo. A volte la
«chiesa segreta» sembra evanescente, ma si nasconde dietro affermazioni sociali
da cui un giovane non può prescindere. Se un giovane è proiettato a sfondare
nella new-economy si sottometterà a
mille sacrifici e a leggi di comportamento dettate dal successo fortemente
ricercato.
Vedendo i casi estremi (tutti i giorni sui giornali), si può
riflettere sulla forza nascosta del «consenso per vivere» e dell’abissalità del
problema dell’amore anche nel caso di chi si muove in apparente normalità. Un
esempio significativo ci viene dal Connecticut, dove un giorno, nel 1995,
furono ricoverate d’urgenza al pronto soccorso quattro ragazze che avevano
tentato il suicidio. Poco dopo ne giunsero altre cinque. Non è facile a
quindici anni riuscire a togliersi la vita tagliandosi le vene; il medico
riuscì a salvarle tutte. Poi si informò sulla causa di quegli episodi assurdi.
Quindici ragazze adolescenti avevano fatto un patto tra loro: se una moriva,
tutte sarebbero morte. Una di loro, probabilmente depressa, aveva tentato il
suicidio; tre che erano con lei l’avevano imitata subito. Altre cinque, venute
a sapere delle prime, le avevano seguite. Gli psicologi americani hanno tentato
di dare le loro spiegazioni, dando per lo più la colpa agli ambienti chiusi
delle cittadine provinciali. In realtà non erano ragazze diverse dalle altre.
Ma una di loro, magari con un po’ di carisma da leader, avrà proclamato il loro
credo, la loro forza «se saremo sempre unite, fino alla morte». Se un ragazzo
si suicida, è certamente depresso; se a suicidarsi sono più d’uno si può essere
quasi sicuri che è un problema di consenso, in definitiva un problema di amore,
più forte della vita fisica, perché sostituisce la fonte divina dell’amore in
modo narcisistico. Si spiegano così i grandi suicidi di massa di alcune sette:
non si tratta di fanatici, ma di gente sfortunata che ha trovato consenso in
una setta disumana. E si spiega così che si diffondano bande di ragazzi che
ammazzano. Se a sparare è uno solo si tratta di un pazzo; ma se a sparare sono
parecchi, allora dietro c’è il problema del consenso.
Così si spiega in gran parte il diffondersi della droga tra
i giovani: a suo modo è un problema di amore! Ed è impressionante la quantità
di «pasticche» che si spacciano di questi tempi. Così si spiega la criminalità
giovanile: se un gruppo di ragazzini gioca in un vicolo e arriva uno di loro
con una borsetta rubata e un po’ di soldi, si sente un dio; l’ultimo arrivato
non vede l’ora di scippare per godere anche lui della considerazione del gruppo. Anche il furto e il crimine nascono da un
problema mal risolto di amore. E così si spiega che tanti giovani, finito
il catechismo per ricevere il sacramento della confermazione, disertino ben
presto anche la santa messa festiva: hanno paura di essere presi in giro dai
compagni. Così si spiega il presunto ateismo di tanti giovani; se, per esempio,
frequentano ambienti marxisti crederanno di essere atei, perché altrimenti il
loro cuore si sentirebbe squalificato davanti agli altri. Il partito può anche
lasciare liberi i suoi iscritti di appartenere a una confessione religiosa, ma
ciò significa ben poco, dato che il
bisogno di consenso determina il loro pensare e li rende impermeabili ad altri
argomenti.
La nostra analisi è resa a volte più complessa dal fatto che
il consenso per vivere si può sostenere in più modi. Il cuore di un giovane
conta molto sul consenso sempre disponibile dei genitori che si affianca a
quello dei coetanei. Intanto il suo cuore va preparandosi al consenso futuro,
che verrà attraverso il lavoro o il matrimonio, e se le premesse sono buone
gode già di una profonda sicurezza. Se uno di questi pilastri del consenso si
incrina, si sta molto male, ma ci si può ancora appoggiare sugli altri.
Drammi particolarmente acuti e sconvolgenti si danno quando
si crea un conflitto aperto tra due fonti di consenso ugualmente valide. In
genere tra il consenso dei genitori e quello dirompente che proviene da un
fidanzato non c’è contrasto, ma se entrano in opposizione per quella ragazza
saranno dolori. Può succedere tra la vita di fede e un gruppo che prende in
giro chi pratica riti religiosi; tra i legami di amicizia e la militanza
politica; tra il consenso dei genitori e quello di amici che non piacciono ai
genitori. Un giorno un padre mi chiese di parlare con il figlio sedicenne che
aveva detto di capire i giovani che si suicidavano. Venne il ragazzo. «Tuo
padre mi ha detto che hai dei problemi, ma prima di descrivermeli dimmi cosa
fai il sabato sera». «È proprio questo il problema», mi rispose. «Avevo degli
amici così squallidi che ho dovuto lasciarli. Avrei altri pochi amici con cui
ho fatto musica insieme, ma mio padre non vuole che vada con loro perché dice
che in questi complessini musicali gira sempre la droga». Potei dirgli:
«Dovresti risolverti tu il problema, ma se vuoi ti do una mano; dammi la tua
parola che non ti drogherai neppure per prova e parlerò a tuo padre per fargli
capire che per te è un vero dramma». Quel caso si risolse, perché il padre capì
il problema acutissimo del consenso per vivere. In genere è ben difficile che
ci si sappia mettere nei panni degli altri, proprio per il fatto che ognuno si
appoggia su idoli diversi.
L’uomo vale per i suoi
legami, legami di amore o di schiavitù (apparentemente
liberi). Il serpente della Genesi dice a Eva «diventereste come Dio» (Gn 3, 5). La tentazione è idolatrica,
mettersi al posto di Dio; ma a guardare bene occorre aggiungere «Dio per
qualcuno», cioè nel riconoscimento degli altri. Nessuno pensa di farsi Dio, ma
tutti, eccetto i santi, vogliamo essere riconosciuti come indispensabili da
qualcuno. Non vogliamo essere immagine di Dio, un ritratto che fa pensare a
Dio, ma abbiamo bisogno che qualcuno sia a immagine nostra, e curiamo con ogni
attenzione, minuziosità e sacrificio tutto ciò che esalta questa nostra
immagine negli altri.
Se il legame massimo non è Dio, lo si sposta necessariamente
su altri con forte attenzione alle prestazioni necessarie per garantire un
successo significativo davanti a loro; tali prestazioni vengono innalzate
all’assoluto e diventano idoli. L’idolo è un aspetto della realtà attraverso il
quale cerco di catturare il consenso di qualcuno: può essere un aspetto
positivo, con un suo valore relativo, come il lavoro, la famiglia,
l’apostolato; oppure imprese anche perverse che gli interessati possono vivere
con pathos religioso. Ciò dimostra anche che
nessun uomo, di fatto, può essere ateo: è sempre idolatra, perché non può
prescindere da molti legami, e soprattutto da quello che viene assolutizzato. Il contrario della religione non è
l’ateismo, bensì l’idolatria[3].
Dato che, eccetto i santi, tutti ci muoviamo idolatricamente,
dobbiamo già essere contenti quando ci ritroviamo su sentieri positivi. Però
occorre desiderare la conversione, e chiederla, altrimenti si rimane nella
mediocrità che, all’occorrenza, è capace di difendere il proprio io con peccati
e malevolenze. Un esempio per tutti è quello della folla che grida a Pilato:
«Crocifiggilo». Erano persone come noi, pronte a seguire il Messia con
entusiasmo. «Osanna, osanna», avevano gridato pochi giorni prima. Ma quando
occorre difendere Gesù sfidando i capi (che appunto «sobillavano la folla»),
piuttosto che rischiare di rimetterci qualcosa furono pronte a condannare un
innocente. È così che i capi di questo mondo, compresi Hitler e Pol-Pot, hanno
sempre potuto disporre di capi intermedi e di folle plaudenti – gente normale –
disposti a eseguire ordini nefasti.
Per l’idolo, mediatore
del consenso altrui, si è disposti a qualunque sacrificio,
perché il problema del consenso è abissale. Già lo intuiva Eraclito in un
frammento acutissimo: «Difficile è la lotta contro il desiderio, poiché ciò che
esso vuole lo compera a prezzo dell’anima». Dove c’è l’idolo, cioè la
prestazione che mi garantisce l’immagine davanti agli altri, ciò che è piccolo
e relativo – ciò che altri ritengono un sassolino – diventa assoluto e
gigantesco come una montagna. Per la moglie mezz’ora di ritardo del marito è
una montagna: non mi ama, pensa solo al suo lavoro; per il marito è un
sassolino insignificante. Se un ragazzo non si accorge che la sua ragazza ha
cambiato vestito, per lei è un segno che non la ama, per lui è una quisquilia.
Si dovrebbe sapere che un fidanzamento non è garantito; eppure uno stesso
giovane che viene lasciato dalla ragazza crede che la sua vita si spenga,
mentre se è lui a lasciarla si sente liberato e lascia la ragazza nella disperazione.
Ci sono poi quelli che si possono chiamare gli «addentellati
idolatrici»: interessi sportivi, culturali, ludici, da tifosi, di computer e
così via, in cui si ripone una carica di assoluto (ecco l’aggettivo idolatrico,
che indica un’attenzione dovuta più a Dio o alle cose sacre che a realtà molto
limitate). In genere ciò avviene perché nella vittoria personale o della
squadra favorita il cuore sente un’affermazione significativa davanti agli
altri; parimenti nel progredire di traguardi, di acquisizioni, che spesso
arricchiscono la persona e la rendono capace di imprese valide. Magari le
persone intorno notano un’esagerazione, senza accorgersi che anche loro
probabilmente hanno desideri altrettanto forti in cose altrettanto limitate. È
facile vedere le esagerazioni degli altri, senza capire da dove vengono. Un
addentellato idolatrico presente spesso anche tra i giovani è il look. È facile
vedere le esagerazioni se si guarda dall’esterno; eppure si possono spendere
capitali pur di vestire come è richiesto dal gruppo o secondo le mode. Spesso
per queste valutazioni così diverse nascono dissidi familiari o in un gruppo di
amici. Se la brama si cristallizza su realtà positive o innocue, come il tifo o
attività ludiche, e ancor più in acquisizioni come il computer, è bene che la
gente vicina sappia pazientare e che l’interessato sappia prendersi un po’ in
giro, senza altre complicazioni.
Ognuno è convinto di essere sempre ragionevole, e magari lo
è, ma non dove c’è il dominio del consenso esistenziale. Lì in genere
ragioniamo più con il cuore che con la testa. La ragione mantiene sempre una
sua capacità di indagare sulla verità oggettiva, soprattutto nei campi in cui
non entra il problema del consenso, ma deve pagare un prezzo esorbitante al
bisogno di essere riconosciuti. Basta osservare una lite familiare per vedere
che si perde il buon senso e anche il senso comune. Di fatto la mente è forzata
dal cuore a pensare a ciò che dà un po’ di potere significativo, anche se ciò avviene
in genere in modo inconscio. Così si
vedono persone convinte delle cose più disparate: credenti e non credenti,
di destra e di sinistra, con gerghi e mode stravaganti; persone che si
direbbero molto serie e altri che si direbbero ai margini della società.
Ragazzi che studiano fino a tarda ora (perché il loro consenso è garantito dal
successo scolastico) e altri, magari fratelli dei primi, che pensano solo alla
musica o alle mode, perché hanno trovato consenso in discoteca. I genitori
distinguono tra figli buoni e cattivi, ma in realtà il problema è sempre lo
stesso, anche se non è equivalente la soluzione in cui sono incappati. Chiunque ha successo nella sua «chiesa
segreta» è convinto di avere ragione, di pensare meglio degli altri. Se un ladro
opera un grande colpo, che gli dà immagine presso gli amici ladri, il suo cuore
gli dice che lui è il più grande filosofo del mondo, colui che pensa la vita
meglio di tutti. E così abbiamo visto gente dare la vita per le idee più
disparate, per rivoluzioni o terrorismo, per bravate o per cause valide.
Ciò crea difficoltà anche nel dialogo con i giovani da parte
di persone esperte da decenni di problemi formativi, proprio perché si frappone
il condizionamento della comunità vitale: non soltanto la specifica comunità in
cui ogni giovane si muove (che può essere ben diversa da tante altre che si
danno), ma anche quella in cui si muove chi vuol dare consigli; anche lui è
condizionato. Se un giovane non si sente capito, cosa facilissima, si rifugia
nella sicurezza del gruppo, che dà la sensazione che fuori da quel modo di
pensare la gente non capisce. Il dialogo tra generazioni va meglio quando si
percorre la stessa strada significativa, come si può notare nelle realtà
ecclesiali vivaci.
Se in una cosa Nietzsche aveva ragione, era nell’individuare
dietro ogni filosofia la volontà di potenza del filosofo. Se ben intesa, la sua
intuizione è profondamente vera: il bisogno di riconoscimento nell’àmbito di
una «chiesa segreta» porta a usare la testa in funzione del successo tra coloro
che ci devono riconoscere. Anche gli illuministi hanno sempre fatto parte di
una «chiesa segreta», quella dei giacobini, dei kantiani, degli hegeliani, del
liberali, eccetera, fino ai nostri giorni. Nessuno può vivere il dogma illuminista
«fidati solo della tua ragione», perché nessuno cerca la verità astratta, bensì
la felicità, e la felicità si prova solo
con un’accoglienza benevola. Kant non ha mai fatto felice nessuno, tranne
quanti hanno potuto scrivere libri in quel senso e così raggiungere un certo
successo. Scrivere libri è tra le idolatrie più sicure per sentirsi
riconosciuti da altri. E finché i libri hanno un qualche successo, l’autore è
sicuro di dire la verità. Il successo lo esalta, lo fa sentire libero, «felice»
(in realtà è solo soddisfazione d’orgoglio) e lui pensa che quella «felicità»
sia dovuta alla verità delle cose scritte. In realtà è dovuta quasi del tutto
al successo.
Avete mai riflettuto sul fatto che si sono date molte
migliaia di ricette filosofiche o sapienziali per essere felici, per
interpretare il mondo, e tutte sono risultate oltremodo insufficienti?
Ripetiamo: ognuno è convinto di ragionare
bene, ed è altrettanto convinto che tanti altri ragionano male. Vi
immaginate che uno schierato a destra nelle scelte politiche si lasci
convincere ragionando da uno di sinistra, o viceversa?
A ben guardare si vedrà che tante battaglie culturali tra
«laici» e cattolici, tra destra e sinistra, tra innovazione e tradizione sono
vere battaglie di religione, cariche di assoluto, dove il convincimento di
essere nel vero è aprioristico, è un pregiudizio
che non si discute; da una parte e dall’altra, anche se ciò non significa che
tutti abbiano ugualmente ragione. Il
cuore non cede sul pregiudizio di fondo, altrimenti si dovrebbe lasciare la
propria «chiesa segreta», con perdita di consenso. Per questo è così
difficile costruire insieme una società veramente democratica, basata su una
cultura degna dell’uomo, da approfondire tutti insieme. La nostra speranza è
che al riconoscere il proprio condizionamento si diventi più comprensivi verso
gli altri, più democratici!
Anche i cristiani rischiano di appartenere a una chiesa
concreta per avere un riconoscimento esistenziale, usando la ragione in
funzione della loro appartenenza. Ma su questo torneremo dopo aver chiarito
altri punti importanti.
È certo comunque che le
idee e le scelte non sono equivalenti, e che questo propone un grande compito
culturale ai cristiani, in unità con tutti gli uomini di buona volontà per
aiutare i giovani a fare scelte socialmente valide e a evitare sofferenze
immani. Vedremo che solo Gesù Cristo ha parole di vita eterna. In Lui si
scopre la Verità dell’Amore, e cioè la verità che fa liberi, come afferma Gesù
stesso. Chi risolve il problema del
cuore, ritrova anche la libertà dai condizionamenti per l’uso oggettivo della
ragione. La verità dell’amore procura anche l’amore per la verità. La
grande razionalità cattolica (nessuno ha mai difeso la ragione come la
tradizione cattolica) ha una sua continuità, sa continuamente recuperare il
senso comune, la razionalità innata che ci permette di capirci con gente di
tutte le razze e tradizioni, ed è capace di dare serene certezze ai giovani che
si muovono in mezzo al mondo, come ha ribadito recentemente Giovanni Paolo II
nell’Enciclica Fides et ratio. Ma più
ancora il cristiano recupera la ragione oggettiva nel clima luminoso della
Rivelazione. Così come è ingannevole
pensare che noi siamo tra quelli che usano sempre la ragione in senso
oggettivo, altrettanto pernicioso è pensare che non esista una differenza
oggettiva tra il bene e il male, tra il vero e il falso. È il problema
della ricerca di senso, che dovrebbe procedere insieme alla ricerca della
verità che lo fonda per sé e per gli altri. Chi ha successo non dubita del
senso della vita, ma può essere totalmente fuori dalla strada della verità.
Anche tra i cristiani è facile privilegiare troppo la ricerca di senso nella
comunità (la comunità viva riempie di senso e significato la vita), trascurando
l’attenzione alla verità oggettiva. Certamente è l’amore che dà senso, ma è
valido solo se è vero, secondo i disegni divini.
Quanto abbiamo detto finora serve anche a capire che è
difficile distinguere i buoni dai cattivi e pertanto non bisogna mai giudicare
le persone. Diverso è il problema del bene e del male; oggi si tende troppo a
confondere il non-giudizio sulle persone con la libertà di chiamare bene o male
ciò che a ciascuno piace. In realtà il problema oggettivo della verità, del
bene e del male, della morale, rimane di assoluta importanza, per il bene di
tutti. Se io, mosso dal bisogno di consenso, faccio il bene, gli altri ne
traggono un vantaggio. Se per lo stesso motivo profondo e inconsapevole sono
mosso a fare il male (senza naturalmente riconoscerlo come tale), agli altri ne
deriva un danno. Per un cristiano è chiaro che occorre sempre aver presenti due
cose: il condizionamento del peccato originale, che noi vediamo nel problema
del consenso radicale, e la responsabilità personale di fronte agli altri secondo
i comandamenti divini iscritti nel cuore umano, ma anche divinamente rivelati,
presenti alla coscienza individuale, alle migliori tradizioni sociali o
religiose e in modo più esplicito e armonioso nella Chiesa. Questa precisazione
sul bene o il male come valori oggettivi è di massima importanza, anche se non
possiamo sviluppare l’argomento in questo contesto, tutto teso a scoprire in
che modo dobbiamo essere salvati.
Un tema che la cultura imperante riesce a confondere
totalmente è quello della libertà. La nostra analisi permette di capire che la libertà è sempre debitrice dell’amore.
Essere liberi in realtà non vuol dire poter scegliere quello che si vuole.
Certo, c’è pure questo aspetto, che da sempre è definito «libertà di arbitrio»,
in cui i classici sapevano vedere la parte minore della libertà, quella
strumentale e passeggera. È la parte minore perché le vere scelte umane
bruciano la possibilità di scegliere. Un ragazzo è libero di scegliere la
ragazza con cui sposarsi, e viceversa, ma si tratta di un fatto passeggero.
Sarà veramente libero, per tutta la vita, se ha scelto bene. La vera libertà
consiste nella vita felice. In cielo non ci sarà più da scegliere, ma si sarà
completamente liberi. Quando uno è felice, si sente libero. A tornare indietro
rifarebbe le stesse scelte: ecco la libertà! Si può essere liberi anche in
carcere, se si è stati incarcerati per un motivo nobile.
Ma la felicità viene dall’amore, ed ecco che torniamo al
nostro condizionamento di fondo, con i suoi inganni. Proprio sulla libertà si
danno grandi inganni. Con quanto abbiamo detto è chiaro che per essere felici
occorre un’accoglienza benevola di altri, occorre affermare la propria immagine
davanti ad altri. Pur di garantirsi questo riconoscimento si fanno grandi
sacrifici, e si fanno con apparente libertà. Anzi, abbiamo detto che per il
successo che dà significato alla nostra vita davanti ad altri si è pronti a
tutto, anche a morire. Finché si ha
potere presso gli altri, o si spera di ottenerlo con prestazioni anche onerose,
ci si sente profondamente liberi. Difficilmente ci si accorge che è un
problema di amore. Il figlio che invoca la libertà davanti ai genitori di fatto
è ben legato a leggi di altri; ma quelle leggi le cerca liberamente e
liberamente vi si sottopone, perché solo con quelle leggi ottiene il
riconoscimento degli amici.
Sant’Agostino distingueva tra libertas minor (libertà di scelta) e libertas maior (per chi ha scelto bene). Ma concludeva il suo esame
del bene dicendo: libertas est caritatis;
la libertà è dell’amore. La nostra analisi fa capire questo problema in
profondità e mette luce sui presunti proclami di libertà di un mondo che
conosce feroci o sottili schiavitù. Tra giovani, spesso e purtroppo, non si dà
libertà ma gregarismo; non si dà personalità bensì conformismo. La libertà vera
è legata all’amore vero, di amicizia, di fidanzamento, di chiesa. Insieme al
«cognome» occorre declinare il «nome»; occorre mantenere la libertà personale
di non fare insieme ad altri cose che da soli non si farebbero. L’idea di personalità, nel conformismo
di tanti gruppi giovanili, è legata al risalto di qualche dote personale che
distingue ciascuno dall’uniformità del gruppo: quella ragazza è grassa e
brutta, ma è simpatica e racconta bene le barzellette. Quell’altra è la più
bella. Quell’altra è lanciata professionalmente, eccetera. Così tutti sono
convinti di non essere pecoroni. Eppure si nota un grande «belato comune» se si
osservano alcuni comportamenti di giovani di diverse parti del mondo. C’è una
immensa omogeneità. Qualcuno l’ha chiamata la «repubblica dei ragazzi». Una
mera distinzione di prestazione ha ben poco in comune con una reale
personalità, perché lascia le decisioni importanti al gruppo. E se nel gruppo
un capetto propone di tirare le pietre dai ponti dell’autostrada c’è rischio
che gli altri lo seguano, per non perdere il consenso. Viene in mente una
definizione un po’ tragica di conformismo, che purtroppo corrisponde a tanti
giovani: «tutti uguali, tutti stupidi». Sia chiaro comunque che non intendiamo
generalizzare. Conosciamo tanti giovani più liberi. È facile comunque che un
gruppo di giovani si senta «alternativo» al conformismo comune mentre naviga
proprio in quel mare.
Il vero problema della
libertà è nella qualità dei vincoli di amore. Più che una
capacità delle facoltà spirituali, la
libertà è un vissuto relazionale. Noi possiamo scegliere, perché non si
darebbe amore senza questa responsabilità personale, ma soltanto se scegliamo
il legame con gli uomini insieme al legame con Dio si darà libertà autentica. La libertà dopo Cristo è radicale, come
stiamo per vedere. Ma la vera radicalità
deve promanare dalla radicalità dell’amore portatoci da Cristo. Per questo
san Paolo può dire : «Cristo ci ha liberati» (Gal, 5, 1) o «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3,17). Israele è un popolo che nasce
dalla libertà: Dio lo libera dalla schiavitù dell’Egitto; ma lo libera per una
Alleanza, per un vincolo di amore nuovo, per essere un popolo nuovo. Più ancora
che nel caso di Israele, la libertà è congenita al popolo cristiano; Cristo,
come vedremo, viene a liberarci dalla grande schiavitù che ci attanaglia il
cuore e di cui parleremo subito; ma ci libera per la nuova ed eterna Alleanza,
per un legame di amore senza confini, con Dio e con gli uomini.
Nei villaggi d’altri tempi i legami significativi erano
riconosciuti da tutti. Ciascuno aveva il suo posto scolpito nell’àmbito del
parentado allargato dei paesi di campagna. C’era una totale solidarietà. Se bruciava
un cascinale, tutto il paese partecipava al salvataggio. Se uno moriva, tutti
pregavano e si ritrovavano in casa del defunto e poi al funerale. Le feste
erano partecipate da tutti, sia nell’attesa che nella celebrazione.
Oggi ci troviamo in una società secolarizzata dove i valori
non sono più riconosciuti da tutti in modo uguale. Il legame significativo si
forma in molti modi, spesso improvvisi e diversi. Giovani adolescenti possono
configurare il loro gruppo secondo l’influenza di alcuni che prendono dal
calderone della cultura imperante un’idea qualunque: quella diventerà il credo
del gruppo, con più o meno enfasi, con più o meno consapevolezza. La cultura
che ci circonda non influisce direttamente sui singoli, ma sui gruppi. Se alla
Tv fanno vedere immagini di clandestini che sbarcano in Italia, un ragazzo
scout sarà subito mosso interiormente a gesti di solidarietà. Un naziskin sarà
mosso interiormente da moti razzisti.
Il tragico è che il pensare di quest’ultimo è stato unicamente
determinato da un incontro fortuito con qualche altro ragazzo, che è servito da
tramite per una nuova solidarietà di gruppo.
Uno stesso ragazzo (con qualche eccezione dovuta ad altri
condizionamenti di famiglia, di tradizione, di religione, che per fortuna
rimangono e possono prevalere) può arrivare a pensare in un modo o nell’altro
solo per il fatto che ha incontrato quel gruppo o quell’altro. Questo spiega
perché è molto difficile che un giovane ascolti buoni consigli, se non vengono
dal suo gruppo. Non per nulla si dice che un giovane è maturo quando sa
ascoltare un buon consiglio anche se dato dai genitori. Secoli di civiltà,
faticosamente conquistata dai nostri antenati, possono essere vanificati in
pochi giorni da un gruppo di coetanei senza radici (e senza progettualità
futura! Soltanto chi ha radici, soltanto chi ha un bel passato può avere
progetti sul futuro). Può essere vera decadenza[4].
Se il bisogno di consenso porta a uno schieramento in un
gruppo negativo, il danno è immenso e spesso irreparabile, perché non è facile
usare la ragione per uscirne. Se un mafioso vuol uscire dalla sua cosca, perde
la sua «patria», la sua «famiglia», la sua «chiesa». È questo il dramma dei
pentiti ed è questo il motivo per cui l’omertà mafiosa ha potuto reggere per
decenni. Il cuore non permette di cambiare idea se prima non si è sentito
accolto da un’altra comunità vitale, e questo succede in modo particolare tra i
giovani. Questo ci porterà a capire che solo comunità di fede vivaci e forti
potranno attrarre alla vera salvezza che è Cristo.
Tra i grandi il consenso per vivere dipende sempre da una
piccola società «forte» che li circonda, ma dove gli idoli di riferimento,
quelle prestazioni che garantiscono l’apprezzamento degli altri e che pertanto si
caricano di assoluto venendo a sostituire il bisogno dell’amore di Dio, sono
quasi sempre quelli classici: il lavoro per l’uomo, il marito e i figli per la
donna. Oggi l’immagine femminile è cambiata moltissimo, ma per cadere in
idolatrie molto meno controllabili, tanto che la famiglia e i fidanzamenti sono
diventati molto precari. Secondo le condanna di Adamo ed Eva l’uomo e la donna
si riconoscono apprezzati dagli altri se diventano indispensabili per qualcuno
attraverso il lavoro (l’uomo) e nell’essere amate e nel poter generare (la
donna). E non c’è da sorridere se si parla ancora di Adamo ed Eva, perché, a
studiare bene, lì c’è il massimo concentrato di sapienza ebraica, ispirato
divinamente, riguardo a una serie di problemi umani che danno luogo a una vera
metastoria – una specie di metafisica della storia – su cui non possiamo
soffermarci in questa sede. Su questa base, quando un uomo ha una famiglia che
attende il frutto del suo lavoro, rendendolo indispensabile, quando il lavoro
va bene (è facile notare che per un uomo il successo nel lavoro è la vita,
l’insuccesso è peggio della morte fisica), si sente sereno. L’idolo regge e il
suo cuore si sente riconosciuto e stimato. Se la salute lo aiuta e la moglie
non lo caccia di casa (il fenomeno è in grande aumento e rende assolutamente
tragica la vita di un uomo), può vivere lunghi anni senza sentire il bisogno di
essere salvato. La stessa cosa può dirsi della donna se si sente amata
dall’uomo (con tanti problemi che qui non possono essere presi in esame[5]),
se i figlioletti crescono bene, se ha soddisfazioni di lavoro o di amicizia, se
ha salute e un po’ di soldi. In questa situazione probabilmente riderebbe se le
si dicesse che ha bisogno di salvezza. Ma basta
un breve periodo di disagio per dimostrare la profonda miseria dell’uomo senza
la fede viva.
Quelle basate solo sul
consenso umano sono sicurezze precarie; tutte sono destinate a finire, se non
altro con la morte; ma soprattutto: tutte dipendono dalla volontà degli altri.
Nel caso del consenso umano non è possibile parlare di vera felicità, ma solo
di soddisfazione o di sicurezza. Non è difficile riflettere sulla precarietà di
una sicurezza che dipende dalla volontà degli altri o dal caso. È vero che
ciascuno, con l’aiuto della famiglia, della scuola, degli amici, cerca di
costruirsi basi abbastanza solide da garantirsi il successo necessario per
sentirsi realizzato davanti agli altri. È pure vero che istintivamente si cerca
il successo che si sente a portata di mano, senza sbilanciarsi troppo in avventure
che più facilmente portano al fallimento e pertanto a sentirsi scomunicati e
annullati dagli altri. Ma è anche vero che nulla
di ciò che può garantirci l’immagine esistenziale davanti agli altri dipende
solo da noi. Bisognerebbe visitare almeno una volta nella vita un ospizio,
un ricovero per anziani: servirebbe a renderci conto di che cosa può
aspettarci. Soltanto l’amore vero risolve tutta la vita e anche la morte. Il
successo, una volta finito, lascia ebeti, vuoti, disperati. Solo alcuni, meglio
dotati e forse più fortunati, possono inseguire novità fino alla fine della
vita. Ma non per questo imparano ad amare, se sono mossi solo dalla mera cura
della propria immagine davanti agli altri.
Di fatto tutti hanno le loro sfiducie nascoste; non abbiamo
mai trovato persone perfettamente sicure di sé. Anche la gente più sostenuta e
altezzosa manca chiaramente di fiducia in sé stessa: perché un uomo è
aggressivo, se non per dimostrare qualcosa agli altri? Per molti l’ultimo
rifugio è la rabbia, quasi a protestare che si ha diritto a qualcosa di meglio
dagli uomini o da quel Dio sempre lasciato in un angolo. Quando la frustrazione
viene dagli uomini è possibile sentirsi vivi con il desiderio di vendetta, che
è speranza di dimostrare ad altri (rieccoci al punto, anche se normalmente
neppure ci si pensa) che si è riusciti a fargliela pagare; ma è facile
convenire che non è una bella vita.
Se così stanno le cose diventa facile figurarsi l’abisso di
inganno e di menzogna che ci circonda. I maestri orientali, che vengono in
Occidente e vedono la società più idolatrica che si sia mai data sulla terra,
ci dicono: questi sarebbero i popoli salvati dal Messia? Noi, dal canto nostro,
li paghiamo miliardi perché ci diano un po’ di pace con i loro esercizi da
«fior di loto», con lo yoga e la meditazione trascendentale, piena solo di
vuoto. Già nel secolo diciannovesimo, dove per gli inganni idolatrici non
stavamo certo peggio di noi, Tolstoj poteva dire: «Gli uomini muoiono di sete a
due passi di distanza dalla fonte, senza osare avvicinarsi. Basterebbe aver
fede negli insegnamenti divini; recarci noi tutti che siamo assetati, alla
sorgente, per scoprire la perfidia di chi ci guida e la puerilità della nostra
sofferenza. Allora soltanto sapremmo quanto la salvezza è vicina. Così andrebbe
dispersa l’abominevole menzogna in cui si dibatte il mondo». Di inganno e
menzogna si tratta, specie nei riguardi dei giovani. Occorre rendersi conto,
come già diceva Einstein, che la nostra cultura ci ha portato alla massima
perfezione dei mezzi e alla massima confusione dei fini.
Qui va fatta una precisazione: non sto impiegando questi
argomenti per convincere della necessità della fede. La fede non serve per
parare i colpi della vita, ma per un Amore che è la vita. Soltanto chi ha la
Vita, chi è validamente innamorato, può affrontare con il cuore “salvato”
qualunque peripezia che la vita può sempre procurare, come vedremo nel capitolo
seguente.
Ora capiamo meglio che
la nostra schiavitù più profonda consiste nel dipendere dal giudizio e dalla
volontà degli uomini. Si vive sempre sospesi sull’abisso; il cuore di
ciascuno è condizionato dalla paura di fallire, di essere cioè annullato dagli
altri. Basta pensare che cosa succede appena si commette un errore consistente:
ci si sente sconvolti, si cercano alibi e giustificazioni di tutti i tipi. E
magari è un fatto che dopo poche ore nemmeno ricordiamo più. Se invece l’errore
è più grave si entra in angoscia. Se in un incidente d’auto muoiono tre giovani
e si salva uno che non guidava, questo sarà addolorato per gli amici morti, ma
continuerà a vivere bene; se a salvarsi è solo colui che guidava, la sua vita
cambia, oppressa dal senso di colpa, dall’angoscia, dal suo sentirsi accusato
dai genitori degli amici defunti.
Dipendere dalla volontà altrui per sopravvivere impedisce il
volo dell’amore autentico, della vera dignità. Qualche successo più grande dà
l’impressione di una vita travolgente, ma dura poco e si fa pagare molto; prima
o poi si finisce nella mediocrità, più spesso nella rabbia o nell’angoscia.
Non basta neppure fare del bene agli altri per garantirsi
l’autenticità e la bellezza della vita. Madre Teresa di Calcutta è entrata nei
nostri cuori non perché aiutava i poveri (sono molte migliaia i volontari che
aiutano i bisognosi), ma perché li amava! Perché il moribondo per le vie di
Calcutta, disprezzato da tutti, per lei possedeva il massimo di dignità, la
stessa di Gesù Cristo. Se uno di noi cadesse in disgrazia presso gli uomini e
incontrasse una Madre Teresa, si sentirebbe «salvato» nel suo cuore, stimato al
massimo non solo nella malattia, ma anche nel fallimento umano. Il mondo ha
bisogno di questi santi che si fanno mediatori della salvezza di Cristo. Si può
essere ottimisti. Cristo è venuto a salvare il mondo e più c’è vuoto di valori,
più c’è posto per il suo dono di amore innocente, salvifico. Potremmo anche
fare un quadro di gemme preziose che si possono trovare oggi più che ieri, in
modo particolare, nella donna, nella famiglia e nella Chiesa. Ma è necessario
cogliere l’aspetto esistenziale, quotidiano, della nostra «schiavitù» per
capire che è del tutto necessaria la salvezza cristiana.
San Paolo scrive ai Romani: «Voi non avete ricevuto uno
spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da
figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre”» (Rm 8, 15); il dono salvifico, quello
della filiazione divina, ci fa sentire amati, riconosciuti intimamente, con la
stessa vita di Dio – divinizzati! –, dall’alto, dal Padre. Chi ha un Padre ha
una fonte garantita di amore, ha un legame «forte» che non dipende dagli altri
e dalla paura che questi altri possano ritirarlo. Lo spirito da schiavi, per
san Paolo, è quello che dipende dal successo. Senza disprezzare il giusto
successo, il bene che possiamo fare, i talenti che Dio ci ha dato, occorre però
salvarsi dal dipendere unicamente dagli altri. Dio vuole la carità fraterna; ma
non sarà vero amore fraterno se non ci riconosciamo figli di Dio: «Chi non
raccoglie con me disperde» (Mt 12,
30).
Molti giovani che mi hanno seguito fin qui, attratti da un
approccio nuovo ma riconoscibile da loro, ora si troveranno di fronte alle
risposte della fede. Queste risposte risultano quanto mai opportune se si è
colta la radice dei problemi umani, ma hanno bisogno di una apertura al dono
soprannaturale, alla grazia. Anche il linguaggio cambia, e richiede un minimo
di dimestichezza con il Vangelo o almeno la disponibilità a confrontarsi con
chi può aiutare ad apprezzare tale linguaggio.
E c’è un motivo in più per richiedere un po’ di sforzo a chi
ha le doti per farlo. Mi aggiravo in una periferia piuttosto povera. Giovani
qua e là. Il pensiero di rivolgermi a loro con le idee di questo libro mi
suscitava una immediata autoironia, ma anche un gran dolore. L’ignoranza e la
non voglia di uscirne diventano un muro apparentemente invalicabile, un
ostacolo per qualsiasi riscatto intellettuale, morale, sociale, professionale.
Ma vedevo con chiarezza che tutto parte dal consenso dei coetanei. E mi
venivano alla mente le parole di Giovanni Paolo II ai giovani, quando diceva
loro che hanno una grazia speciale per il bene della società. Noi grandi
possiamo parlare, insegnare, predicare, ma il commento dei coetanei detta
legge. Soltanto altri giovani disposti ad approfondire e a vivere una
solidarietà costruttiva, che attiri coloro che mai si riscatteranno da soli da
un gruppo dove l’ignoranza è un titolo di vanto e di affermazione (e questo
vale anche per un gruppo che insegue i raffinati piaceri dell’alta società),
potranno riaprire anche per loro cammini di speranza. Ma non sarà senza sforzo,
generosità e approfondimento culturale. Non sarà senza un «supplemento
d’anima», come crescita sapienziale e morale che la cultura di oggi non
favorisce, ma che deve sempre accompagnare ogni crescita strumentale, ogni
progresso materiale, che altrimenti diventa un idolo più grande, più capace di
catturare i cuori bisognosi di affermazione.
Veniamo al titolo di questo capitolo. Se chi mi legge già
possiede una fede vissuta in Gesù Cristo, in quanto vero uomo e vero Dio,
probabilmente riterrà superfluo che adesso ci mettiamo a dimostrare che egli è
il vero e unico salvatore del mondo. Per cominciare, una persona di fede
riterrà che la differenza tra Cristo e Confucio, Buddha, Maometto eccetera, sta
precisamente nel fatto che costoro non sono Dio, e pertanto fanno parte degli
uomini che devono essere salvati. Per chi ha fede fanno testo le parole piene
di franchezza di Pietro dopo Pentecoste: «In nessun altro c’è salvezza: non vi
è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che
possiamo essere salvati» (At 4, 12).
Giovanni Paolo II, nel messaggio ai giovani per la Giornata Mondiale del 2000
scrive: «Ciò che contrassegna la fede cristiana, rispetto a tutte le altre
religioni, è la certezza che l’uomo Gesù di Nazaret è il Figlio di Dio, il
Verbo fatto carne, la seconda persona della Trinità venuta nel mondo. Questa è
la “gioiosa convinzione della Chiesa fin dall’inizio”».
Ma è chiaro che molti oggi, non avendo vera fede nel Verbo
incarnato, rimangono indifferenti di fronte all’affermazione che Gesù è l’unico
salvatore. Tutti però possono riflettere sulle radici della nostra schiavitù e
sulla salvezza necessaria, come abbiamo cercato di fare nel primo capitolo. Su
questa base è più facile intuire che soltanto Gesù è portatore di un amore
innocente e pertanto salvifico. Ci vorrà pur sempre la fede per credere che
Gesù è il Verbo incarnato e per vivere la filiazione divina e la vita
trinitaria; tuttavia quella consapevolezza renderà più facile desiderare e
chiedere il dono della fede.
Ancora una premessa. Pensando alla salvezza eterna,
assolutamente decisiva, occorre aver presente l’insegnamento del Concilio Vaticano
II: «Coloro che senza loro colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa,
ma cercano sinceramente Dio, e sotto l’influsso della grazia si sforzano di
compiere fattivamente la volontà di Dio conosciuta attraverso il dettame della
coscienza, costoro possono conseguire la salvezza» (Lumen gentium, 16). Ma una simile salvezza attraverso l’ignoranza,
che Dio rende possibile grazie alla sua misericordia che vuole salvare tutti,
comporta che comunque si perda il meglio della vita terrena, cioè l’incontro
personale con Gesù di Nazaret e la possibilità di imparare ad amare gli altri
in modo genuino. È pur vero che molti sono cattolici più di nome che di fatto,
e che tanti non cristiani possono essere più retti di loro, tuttavia l’incontro
meraviglioso con Cristo può avvenire soltanto nella Chiesa.
Di fronte all'uomo ammalato di amore, il Dio dell'amore
annuncia subito la sua salvezza. Getta subito il seme della speranza, anche se
la gestazione del dono nuovo e inaudito sarà lunga. La Sacra Scrittura, come
rileva sant’Agostino, dalla prima parola all’ultima non parla d’altro se non
dell’amore del Padre per l’uomo. L'Antico Testamento svela numerosi bagliori
della misericordia divina. Tuttavia manca ancora il reale contatto con il dono ontologico (e cioè con un vincolo reale
e non solo con un’intenzione benevola) dell'amore divino. Si rimane ancora in
un rapporto fondamentalmente sacrale, attraverso le istituzioni e la Legge,
incapaci di vincere l'idolatria, perché ancora legati alla «tribù» d’Israele, a
un popolo particolare che si contrappone agli altri.
Il cristianesimo è la
rivelazione del Dio-Amore. Il suo messaggio centrale è proprio
questo: Dio è Amore, e in questo messaggio – con il dono reale che vi è
connesso – c'è la salvezza da tutti i mali e l'elevazione del desiderio della
felicità alla beatitudine della comunione trinitaria. «Dio nessuno lo ha mai
visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha
rivelato» (Gv 1, 18). Gli angeli non
riescono a comunicare con gli uomini, perlomeno in modo che l’uomo possa
prenderne chiaramente coscienza: l’uomo ha bisogno che tutto passi attraverso i
sensi per giungere alla conoscenza spirituale. Per questo, come appare dalle
parole citate, il Figlio si è incarnato, per parlaci umanamente, con parole e
fatti (fino alla Croce!), dell’amore del Padre e del disegno trinitario di
fondare con noi una nuova Alleanza, in comunione eterna con Lui (la comunione
trinitaria è l’archetipo della comunione significativa, la fonte genuina ed
eterna del consenso per vivere).
Gesù morto e risorto entra in comunione viva con noi a opera
dello Spirito Santo, che «il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non
lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà con voi».
Ma continua Gesù: «non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il
mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete» (Gv 14, 17-19). C’è un chiaro
parallelismo tra il mondo che non conosce lo Spirito e non vede Gesù, da una
parte, e dall’altra i veri discepoli di Cristo che conoscono lo Spirito e
vedono Gesù presente per sempre tra noi e in noi. Il cristianesimo non è
l’insegnamento di un maestro morto santamente, né un codice morale come il
Corano. È Cristo presente, l’Amico che muore per me, il Salvatore unico con il
suo amore innocente che sgorga dalla fonte inesauribile della Trinità, colmando
il mio cuore bisognoso fino allo spasimo di un amore che vado mendicando in
tutti i gesti della mia vita. Si diventa «consorti», con vero amore sponsale.
Quest’incontro con la verità, che è Cristo stesso, non si dà in nessun’altra
religione e fa del cristianesimo una vita nuova, nell’amore.
Gesù dice che solo lo Spirito Santo può convincere il mondo
in quanto al peccato (cfr Gv 16, 8).
La coscienza normalmente riesce a convincerci riguardo ai peccati al plurale,
alle trasgressioni. Non c’è bisogno dello Spirito Santo per essere convinti che
rubare non è un bene. Ma il peccato al singolare, la prigione del cuore, si svela
solo al calore e alla luce dello Spirito Santo. Finché non si giunge alla
scoperta reale di quanto sia narcisista ed egoista il nostro cuore, non si
capirà mai la natura della salvezza. In realtà le due conoscenze procedono
insieme. E così ci si convince del peccato nella misura in cui si va scoprendo
l’immensità dell’amore che Dio, in Cristo, ha per noi. Così non c’è rischio di
essere pessimisti, scoraggiati, o troppo severi con gli altri.
Si parla di amore «sponsale» e di dono «ontologico».
Cerchiamo di spiegarci. Sponsale indica proprio quel legame forte di cui tutti
abbiamo bisogno: condividere la propria sorte con altri. Vedremo che questo si
può dare in modo salvifico, di vera libertà, soltanto nella Chiesa. Parlando di
dono ontologico vogliamo distinguere l’amore salvifico, che crea un legame vero
tra noi e Dio, attraverso il nostro essere, dai tanti modi in cui si può
intendere l’amore a livello sentimentale, spirituale, di considerazione. Una
cosa è amare i bambini e un’altra è generarne uno; una cosa è amare i poveri e
aiutarli quando si può, mentre ben diverso è condividere la loro sorte
(sponsalità). Quando san Paolo dice: «La speranza poi non delude, perché
l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato» (Rm 5, 5), non
parla di un Dio che ci guarda benevolo dall’alto e ci offre qualche grazia: ci
parla di un amore riversato nei
nostri cuori, ci parla del dono dello Spirito Santo, la terza persona della
Santissima Trinità, che ci è stato dato.
Siamo di fronte al dono ontologico, nell’essere. Corrisponde
in gran parte alla vita sacramentale.
Molti di noi spesso non capiscono il valore dei sacramenti istituiti da Gesù
Cristo; è fondamentale accorgersi che si tratta di qualcosa di sostanziale per
la salvezza nella fede. Gesù stesso al culmine della sua rivelazione, nelle
ultime parole dell’ultima cena narrata da san Giovanni, dice: «Io ho fatto
conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi
hai amato sia in essi e io in loro» (Gv
17, 26): è il grande motivo che ha mosso il Verbo a incarnarsi e a morire per
noi, rivelando a parole e fatti il suo disegno di averci per sempre in
comunione trinitaria. In queste parole è indicato il legame intratrinitario che
c’è tra il Padre e il Figlio: questo stesso legame il Figlio, Gesù, vuole che
vi sia tra noi e il Padre e anche tra noi e Lui. Per questo Giovanni Paolo II,
anni fa ebbe a dire che al demonio non dispiace che si creda nel Dio della
creazione o in quello dell’onnipotenza. Lui piuttosto attacca l’Alleanza. In
altre parole, se crediamo che Dio ha creato il mondo e giudica i buoni e i
cattivi, questo non ci fa scoprire l’amore che Dio ha per noi: un posto tra i
buoni ce lo si ricava sempre, magari in un angoletto, e si continua a vivere
idolatricamente. Il gioco riesce ancora meglio con il Dio dell’onnipotenza, che
da sempre è il più gettonato. Da Lui si va per ottenere favori, pensando a sé,
e non al suo amore per noi. Il demonio invece attacca il Dio dell’Alleanza, il
Dio che si invaghisce del peccatore e mostra la sua misericordia, stabilendo un
patto nuovo ed eterno col quale Egli stesso si impegna a dare a degli egoisti
tutta la sua vita, in un legame reale che ci rende figli suoi, con la vita del
Verbo incarnato. Non si può dire di sapere cos’è il cristianesimo se non si
vive coscienti dell’Alleanza.
Sempre nell’ultima cena, Gesù, in un clima di grande
apertura del suo cuore, con uno stacco rilevabile nel testo, si confida: «Come
il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se
osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato
i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché
la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15, 9-11). Commenta J.-M. Perrin,
nella sua opera Il mistero della carità:
«C’è tutto in queste parole: la sovrabbondante carità di Dio che fa entrare
nella sua verità e le magnifiche esigenze e le realtà della nostra vocazione.
Chi capirà queste parole saprà tutto quello che c’è da sapere sul
cristianesimo, chi le gusterà conoscerà la dolcezza del cuore di Dio, chi le
vivrà sarà fedele discepolo di Cristo».
Infatti, di fronte al problema più acuto dell'uomo, poter
credere a queste parole è già salvezza. La gioia piena si può dire solo del
cielo, del paradiso; eppure Gesù ce la promette già su questa terra. Questa
gioia incontenibile è legata al «rimanere» nell'amore che Gesù ha per ciascuno
di noi[6].
Ma, nella misura in cui siamo avviluppati dall'idolatria, queste parole non
diventano vita cosciente in noi e l'amore salvifico, pur nella presenza reale
operata dai sacramenti, rimane per così dire «addormentato» (caritas remissa), inoperante a livello
della presa di coscienza e pertanto della vita vissuta; parlarne è ancora mera
teoria, catechesi fredda. Bisogna
distinguere la mente, capace di astrarre, dallo spirito, che è vita. Occorre
una vera preghiera perché la
Scrittura diventi vita che coinvolge l’intera persona, anche il fisico.
«Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi»; non
basta una vita di contemplazione per penetrare la ricchezza e la profondità
dell'amore che il Padre ha per il Figlio; eppure, «così» siamo amati anche noi.
In quel «come» e in quel «così» non soltanto c'è la soluzione radicale e
definitiva del peccato che grava intimamente su ogni cuore, ma c'è in più il
dono di amore «che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3, 19) e ci dà i legami e la ricchezza della vita trinitaria.
«Come» il Padre ama il Figlio? Forse limitatamente? O momentaneamente? Forse ha
mille figli per amarli indistintamente? No, ha un solo Figlio. E «così», allo
stesso modo, in esclusiva, con tutto il «peso» divino, è amato sempre ciascuno
di noi. L'amore di Dio per noi è un amore al singolare, originale per ciascuno.
Ecco la grande novità rispetto al «Dio della tribù», che protegge come gruppo,
nell'idolatria, anche quando il contenuto fosse positivo.
Facilmente il cristiano parte dal primo comandamento: «amare
Dio con tutto il cuore». Ma ciò può rovinare la vita spirituale e lasciarla
sterile! È come partire da un tronco senza radici. Il comandamento ha bisogno
del dono che lo precede e lo sostiene. Perché devo amare Dio? Perché Lui mi ama
per primo. Se partissi dal mio amore per Dio, piccolo sarebbe il mio amore,
perché piccolo è il mio cuore, anche quando amo con tutto il cuore. Mentre se parto dal suo amore entro nell’oceano
della misericordia; capisco che il suo amore è infinito anche quando sbaglio,
anche per me peccatore. Capisco che Dio non può amare un altro, per santo
che sia, più di quanto ama me, pur con i miei egoismi. E ciò porta alla gioia
liberante del sapersi amati.
Gesù, che viene a rivelare l’amore del Padre, quando parla
direttamente di come il Padre ci ama, mette una grande enfasi nelle sue parole.
A Nicodemo dice: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito» (Gv 3, 16). Quel «tanto
amato» indica un parlare appassionato. Ugualmente nell’ultima cena: «Il Padre
stesso vi ama» (Gv 16, 27). Fa un
esempio sorprendente: «Anche i capelli del vostro capo sono contati»; nessuna
madre può dire questo.
L'uomo ha bisogno dell'amore: «chi non ama vive nella morte»
(1 Gv 3, 1); la sua grande schiavitù
è non trascendere l'io per cogliere le fonti dell'amore. Cercando questa fonte
in sé, nelle proprie opere, o negli altri, rimane profondamente deluso, schiavo
di un bisogno che non può soddisfare; il suo amore rimane incatenato. Proprio
per questa ragione, dal convincimento vitale che Dio ci ama dipendono buona
parte della nostra salvezza e tutta l'opera dell'evangelizzazione. La buona
novella, la parola che salva, è la parola che rende consapevoli di essere
«amati da Dio» (Rm 1, 7). Per questo
Giovanni Paolo II, nell’esortazione apostolica Christifideles laici, può dire: «L’uomo è amato da Dio. È questo il
semplicissimo e sconvolgente annuncio del quale la Chiesa è debitrice all’uomo.
La parola e la vita di ciascun cristiano possono e devono far risuonare questo annuncio:
Dio ti ama, Cristo è venuto per te, per te Cristo è Via, Verità, Vita (Gv 14, 6)» (n. 34). Se la Chiesa non
riesce a mettermi in qualche modo in contatto con il dono ontologico dell’amore
vero, fallisce la sua missione. Giovanni Paolo II aggiunge che «in questo
annunzio consiste la nuova evangelizzazione che la vecchia Europa e il mondo
intero attendono». Se il Vangelo è Buona Novella, se è novità, lo è soltanto in
quanto rivela il Dio-Amore. Troppi cristiani, come abbiamo già osservato,
vivono ancora «sotto la legge»: inseguono il successo protetto da Dio. Ma il
Nuovo Testamento ha operato la vera rivoluzione: è possibile vivere di amore. E
pertanto ci impegna unicamente nell'imparare ad amare gli altri, perché ci è
stato rivelato e dato l'Amore. Non è più soltanto la protezione offerta dai
rapporti sociali forti, ma l'amore per l'uomo, fino al nemico, nel Regno di
Cristo.
Solo lo Spirito Santo può «convincerci» di questo amore. San
Tommaso dice: «Lo Spirito Santo stesso è il Nuovo Testamento, operando in noi
l'amore, pienezza della legge» (Commento
alla Lettera agli Ebrei, 8, 10). È la Nuova Legge, la legge scritta nel
cuore, promessa dai profeti; la legge sposata perfettamente con la libertà,
perché è dettata soltanto dall’amore donato[7].
C’è un aspetto dell’amore di Cristo per noi che non sempre è
messo bene in luce. Soltanto se si capisce da che male siamo afflitti, se si
capisce che il nostro cuore non può assolutamente vivere se non si sente
profondamente riconosciuto da altri, si può intuire meglio la natura della
morte redentiva di Gesù. In genere ci si ferma ai dolori della crocifissione;
che furono tremendi, perché la crocifissione non lede organi vitali e in
pratica si muore per il dolore straziante. Ma di fronte alle atrocità che ogni
giorno vediamo sugli schermi, di fronte a tante morti ingiuste, l’uomo d’oggi
non si commuove più di tanto al pensiero della morte in croce. Nel considerare
l’angoscia di Gesù nel Getsemani, e il suo sudar sangue (che si spiega soltanto
con una paura acutissima, che spezza i capillari) si pensa allo spavento che
umanamente si può provare davanti a una condanna a morte così agghiacciante.
Eppure, dei tanti martiri che sono morti in croce, parecchi morivano cantando.
Non può essere la prospettiva della morte in sé, per quanto dolorosa, a rendere
Gesù più pusillanime di tanti martiri. Ciò che sfugge ai più è il significato
di una crocifissione per la teologia ebraica di quei tempi. Nonostante il Libro di Giobbe, ai tempi di Gesù imperava
una teologia che vedeva dietro la disgrazia o il dolore una punizione divina
per peccati conosciuti o sconosciuti. Sicché i lebbrosi erano considerati
peccatori e scomunicati, costretti a vivere fuori dai paesi (era pure una norma
igienica, ma per Israele era anzitutto un fatto religioso). Leggendo il Vangelo
si nota in numerose occasioni questa mentalità riguardo a persone malate,
menomate o storpie: «che male hanno fatto…?». Orbene: coloro che venivano
impiccati o crocifissi erano considerati maledetti e scomunicati da Dio stesso:
«l’appeso è una maledizione di Dio» (Dt
21, 23). San Paolo, nella Lettera ai
Galati dice: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge,
diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende
dal legno» (Gal 3, 13).
Per san Paolo ciò che ha fatto angosciare Gesù nel Getsemani
è chiaro: il Messia ha voluto soffrire «in carne di peccato» (cfr Rm 8, 3; Eb 2, 18), cioè come soffriamo noi peccatori quando la nostra
«chiesa» ci scomunica e noi cadiamo in angoscia, fino al suicidio. Gesù non è
stato condannato da nemici, ma dai suoi capi religiosi, dai custodi della Legge
data da Dio a Mosè. Se muore in croce, è un segno evidente che Dio stesso lo
maledice e lo scomunica, decretando l’eliminazione dal consesso del popolo di
Dio[9].
Non è facile immedesimarsi nei sentimenti umani che Gesù ha patito in quel
momento: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34). Ma neppure ci è del tutto impedito, se abbiamo presente
che l’immenso portato della Passione non si può ridurre al vissuto
esistenziale, ma neppure può prescindere da esso. Possiamo intuire qualcosa se
pensiamo a ciò che può accadere a tutti noi: se c’è da difendere persone care,
tutti sappiamo rischiare la vita. Frequentemente si legge di giovani o parenti
morti in montagna per salvare un loro compagno. Dieci minatori, un anno fa,
sono morti in Belgio per salvare un loro compagno rimasto intrappolato; lui si
è salvato e loro sono morti. Tutti, su questa terra, anche le persone più
egoiste, hanno un legame profondo con qualcuno che all’occorrenza potrebbe
portarli anche alla morte: tutti. Incredibile ma vero. E invece il problema
nasce quando siamo giudicati male dai «nostri»; questo è duro e addirittura
insopportabile. Le nostre peggiori paure riguardano la possibilità di deludere
gli «altri-per-me», o peggio, di venire rigettati da loro.
San Luca è l’evangelista che, alla scuola di san Paolo,
conosce bene il vero dramma della passione di Gesù. È nel suo Vangelo dove
sentiamo Gesù dire: «perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della
Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori» (Lc 22, 37). Gesù, davanti al suo popolo e ai capi, appare come il
più grande malfattore, con garanzia divina. A differenza dei due ladroni che
hanno ucciso o rubato oro, Lui voleva rubare il cuore d’Israele, la sua
speranza, la messianicità.
Tutto ciò è ben conosciuto dalla teologia, forse un po’ meno
dalla catechesi. E un approfondimento decisivo riguarda anche la Risurrezione e
l’Ascensione al cielo di Gesù. Gesù non si è presentato davanti al Sinedrio
dopo la sua risurrezione. Forse istintivamente noi pensiamo che in realtà si è
manifestato sufficientemente ad alcuni ebrei (apostoli e discepoli), mentre ha
snobbato i suoi nemici. In realtà non erano affatto i suoi nemici, ma coloro
che dovevano garantire la sua messianicità. Le apparizioni postpasquali sono
particolari: fugaci, a volte strane; si sottraggono al desiderio degli apostoli
di usarle come prova davanti ai capi. E con l’Ascensione si conclude ogni
possibilità di riscatto umano, ogni possibilità di vittoria. Il consenso umano,
per dirla con il gergo qui usato, in Gesù ha ricevuto lo scacco massimo, l’angoscia della sconfitta definitiva. L’Ascensione
va intesa, dal punto di vista umano, non come un momento di gloria (la gloria
cui ascende il Cristo è quella della Trinità), ma piuttosto come damnatio memoriae: impedisce il riscatto
umano, sancisce definitivamente l’obbrobrio per Gesù nella storia futura di
Israele. Proprio come succedeva a Roma: ancora oggi si vedono statue decapitate
o lapidi scalpellate per cancellare il nome e ogni memoria del malcapitato.
Gesù ha provato umanamente lo sconforto che proveremmo noi peccatori di fronte
a un destino di perpetua vergogna; per questo sudava sangue nel Getsemani. Solo
capendo la natura dell’Ascensione si possono capire la natura della
Risurrezione e la radicalità della Croce. Quando san Paolo vede Gesù risorto,
sulla strada di Damasco, capisce nello Spirito che il «maledetto» secondo la
Legge era in realtà il Benedetto di Dio. Soltanto che non aveva cercato il
riscatto presso il Sinedrio, non si era presentato in piazza (sarebbe bastato
un momento, e lo avrebbero proclamato Messia). Come risultato umano della sua
avventura tra gli uomini aveva scelto
la sorte dello scacco definitivo, proprio il contrario di ciò che Saulo
perseguiva con grande zelo e con tutte le sue forze, e cioè il riconoscimento
da parte del suo popolo con Dio come garante, ciò che gli ebrei cercavano nel
successo.
C’è chi si sorprende paragonando la serenità con cui Socrate
affronta la morte con l’angoscia di Gesù nel Getsemani. Ma c’è un’immensa
differenza tra chi muore per la causa, nel consenso dei suoi, e chi muore
scomunicato dalla propria patria, dalla propria chiesa, dalla propria casa.
Tutti siamo pronti a morire per la causa e tutti abbiamo una causa, anche se la
maggior parte di noi non lo sa. Socrate muore in coerenza con le sue idee,
davanti ai suoi discepoli. La sua causa non era Atene, ma il ruolo sapienziale
che lui svolgeva in Atene. Gesù invece, sposa la condizione umana fino a
mettersi in grado di soffrire come noi: «in carne di peccato», cioè per le
conseguenze della concupiscenza. In Lui, naturalmente, non ci sono né il
peccato originale né quella concupiscenza che causa in noi l’egoismo abissale.
Ma Egli può provare la sofferenza acuta che si prova quando la concupiscenza è
frustrata: se non fosse così rimarrebbe troppo lontano dalla nostra condizione
esistenziale per poter essere il nostro salvatore. Gesù muore per una causa
soprannaturale, che permette però la sofferenza umana di chi muore rifiutato
dai suoi. Gesù non ha paura della morte fisica; perlomeno non ha certo più
paura dei martiri e degli eroi che sono morti per la propria causa. Sente però
la gogna, la scomunica del popolo, garantita da Dio, secondo la Legge. E ciò
come destino definitivo sulla terra, anche se ora, nella fede di innumerevoli
popoli, facciamo fatica a capire il suo destino umano di annientamento. Gesù ha
assunto su di sé la più grande lontananza dalla fonte dell’amore («Dio mio
perché mi hai abbandonato?») perché il suo amore filiale attraversasse ogni
abisso del cuore e ritrovasse il Padre di tutti, il Padre dei peccatori.
La sera di Pasqua, rivedere Gesù dopo l’immensa delusione
della Croce fu gioia grande per gli apostoli. Probabilmente pensarono che in
pochi minuti ci sarebbe stato il grande riconoscimento ufficiale da parte dei
capi del Sinedrio. Ma non era una gioia cristiana. Era ancora una gioia
ebraica, il ritrovamento del messia perduto sulla croce; il ritrovamento del
potere maturato accanto al messia. Grandissima soddisfazione, ma non certo un
cuore liberato, salvato; non era ancora un amore genuino. Soltanto il dono
dello Spirito Santo cambierà il loro cuore, facendolo capace di capire che Gesù
sulla croce ha donato per sempre ogni gloria umana, ogni stima, ogni giustizia;
tutto ciò che noi temiamo massimamente di perdere. E lo ha fatto per me! Ciò
vuol dire che la risurrezione è la
proclamazione dell’amore di Dio per l’uomo, è il sigillo divino a un dono
totale di sé all’uomo. La risurrezione non recupera la sconfitta totale di
Gesù davanti al suo popolo. Noi che veniamo dalla gentilità, lontani dalla
sensibilità ebraica, siamo portati a considerare la risurrezione come vittoria
definitiva di Gesù, a riscatto delle sue sofferenze fisiche. Eppure dopo
seicento anni, nel Talmud, Gesù è ancora chiamato l’«appeso», il maledetto da
Dio. Da parte del suo popolo la scomunica non è mai stata ritirata.
Se Gesù fosse andato in piazza dopo la risurrezione, avremmo
la più grande soddisfazione idolatrica degli uomini sulla terra: il popolo di
Israele avrebbe potuto fregiarsi di seguire il grande messia, l’invincibile,
l’immortale, sfruttando il potere divino contro i nemici e per una
amministrazione della legge senza uguali. Ma non è questa la redenzione. Se gli
ebrei potessero capire (ma ci vuole lo Spirito Santo, come per noi) che Gesù è
risorto per glorificare divinamente la natura umana, e non per rendere padrone
l’uomo del potere divino, forse allora intenderebbero di quale promessa
antiidolatrica sono ancora portatori. Forse potrebbero capire che sono
destinatari, nelle promesse loro fatte, di un amore che sana ogni egoismo, ogni
divisione, ogni giudizio dell’uomo sull’uomo, ogni Babele, ogni scoraggiamento
personale. E aiuterebbero noi, in gran parte ancora «gentili» e pagani, a
convertirci con tutto il cuore e ad abbandonare i mille inganni idolatrici di
cui l’occidente ha riempito il mondo.
Tutto diventa sconvolgente e beatificante (salvifico)
quando, con l’azione dello Spirito Santo, si giunge a vivere di questa fede in
modo che coinvolga tutta la nostra persona. Non una fede nozionale; non un
semplice catechismo dove imparo che Gesù è morto per gli uomini, ma la scoperta
vitale che Gesù è morto per me! Ed è risorto per me! È qui con me: «Ecco, io
sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20); questa affermazione è più volte ripetuta, in forme
diverse, nell’ultima cena raccontata da Giovanni.
San Paolo può dire: «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che
mi ha amato e ha dato sé stesso per me» (Gal
2, 20). San Paolo non aveva conosciuto Gesù sulla terra; non poteva intendere
che Gesù era morto per lui come forse poteva uno dei suoi apostoli dopo tre
anni di piena condivisione della vita. Eppure la sua fede è chiara: «Per me!». Il Demonio sa benissimo che il Verbo si è
incarnato ed è morto per gli uomini; ma non può dire: per me. Conosce tutto
il catechismo a memoria, ma non può dire che tutto ciò è avvenuto per lui.
Invece ciascuno di noi può dire con piena certezza che Dio ha creato il mondo e
ha inviato il Verbo a morire proprio per lui. E Gesù risorge e si fa eucarestia
per ciascuno di noi. Il Vangelo è parola di vita per me, proprio per me! Ogni
parola del Vangelo è pronunciata da Dio, da Cristo, oggi, per me[10].
Nella sua prima Enciclica, la Redemptor
hominis, Giovanni Paolo II ci esorta a impadronirci profondamente della
redenzione; solo così scopriremo il valore che la nostra vita ha per Dio, fino
a riempirci di stupore per noi oltre che di ringraziamento e di lode per Lui. E
aggiunge «Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche,
e forse di più ancora, “nel mondo contemporaneo”» (n. 10). Come dire che se
liturgie, sacerdoti, teologie e catechismi, eccetera, non riuscissero a far
sorgere in qualcuno (per fortuna ci riescono) un po’ di stupore per quanto
siamo amati, la Chiesa fallirebbe miseramente il suo scopo e non servirebbe se
non per una certa organizzazione di cose umane.
Se un giovane pensa un
poco a come dipende dalla considerazione altrui, a come è sensibile ai
riconoscimenti o all’insuccesso davanti agli amici, a come si esalta nell’amore
umano e a come si abbatte fino all’angoscia se viene lasciato, può intuire
qualcosa della schiavitù del proprio cuore e può intuire un piccolo barlume di
come è beatificante il vivere nell’amore di Cristo, tutto per lui.
Nella Lettera ai giovani che ha
scritto nel 1985, Giovanni Paolo II si sofferma sullo sguardo personalissimo di
Gesù al giovane ricco: «“Gesù, fissatolo, lo amò”. Vi auguro di sperimentare
uno sguardo così! Vi auguro di sperimentare la verità che egli, il Cristo, vi
guada con amore!. Egli guarda con amore ogni uomo. Il vangelo lo conferma a
ogni passo. Si può anche dire che in questo “sguardo amorevole” di Cristo sia
contenuto quasi il riassunto e la sintesi di tutta la buona novella» (n. 7).
Anche in questo caso, dire che praticamente il vangelo si riassume nel sentirsi
amato, equivale ad avvertirci che se non sentiamo l’amore personale di Gesù per
noi, vanifichiamo la redenzione nella sua dimensione storica[11].
Non vivremo dell’amore personale di Gesù per noi se non c’è
in noi il desiderio sincero di corrispondere con tutto il cuore. Un
cristianesimo a metà non soltanto non esiste, ma, come diceva Kierkegaard, è la
più grande sciocchezza che si possa dire. Nel Sinodo dei Vescovi europei, dopo
la caduta del Muro di Berlino, parlarono quattro giovani reduci dalla Giornata
mondiale della gioventù di Czestochowa, chiamati a far valere i desideri dei
giovani nei riguardi dei pastori. Una ragazza portoghese disse le parole che
qui riassumo: «Da giovane cercavo la libertà per come la offre il mondo e mi
sentivo sempre più vuota. La trovai quando trovai Cristo e i legami di amore
nella sua Chiesa. L’obbedienza alla Chiesa mi fa sentire libera. Per questo noi
chiediamo ai nostri pastori che ci diano Cristo intero. Non un programma
ridotto come quello di alcuni uffici pastorali, mossi dalla paura di perdere i
giovani, ma un Cristo vero. Un programma a metà lì per lì ci attira e ci
alletta, ma dopo un anno ci stanca».
Nella risposta a Cristo occorre partire sempre dal fatto che
noi siamo egoisti e ricadiamo nel nostro peccato, nel nostro amor proprio. Se
lo riconosciamo con umiltà, potremo sempre ricorrere alla misericordia di Gesù.
La grande scoperta è quella del perdono divino; di Gesù che va oltre il perdono
personale quando chiede al Padre di non far valere la sua giustizia, ma la
misericordia anche per coloro che lo hanno messo in croce. Un perdono infinito.
I nostri peccati, il nostro egoismo, danno occasione al Padre per-un-dono
inaudito. Ecco il perdono come cuore della Nuova Alleanza. Il titolo principale per appartenere a Cristo è dato dai nostri
peccati: non sono venuto per i sani ma per gli ammalati, non sono venuto
per i giusti ma per i peccatori, per le «pecore perdute», ripete spesso Gesù.
Quando ci smarriamo, scopriamo che Gesù è venuto per la pecorella smarrita. Quando
siamo colpevoli, scopriamo il Salvatore: io non ti giudico. Dire «non ti
giudico» vuol dire non ti condanno, non ti separo da me là dove hai peccato; tu
mi vali quello che valgo io. Gesù giunge a dire a una adultera che lei gli vale
come sé stesso, come il Figlio di Dio incarnato, come l’uomo perfetto.
Tutto ciò va perfettamente d’accordo con la nostra libertà e
responsabilità; con l’impegno a fare il bene, a risorgere ogni volta che
sbagliamo, nella gioia di essere amati con i nostri peccati e con il desiderio
sempre più concreto e operoso di rispondere col bene all’amore di Cristo. È la
gioia di vedere Gesù che non si è stancato dei miei peccati, che mi mette le
ali ai piedi e mi fa agire nel bene. Se non c’è questa conseguenza operativa,
vuol dire che con i nostri peccati non abbiamo incontrato Gesù, ma soltanto un
«buonismo» assai comodo ed egoista. È necessario riconoscere i nostri peccati e
opportunamente confessarli nel sacramento della riconciliazione, per poterli
lasciare completamente dietro le spalle e pensare al bene. Possiamo sempre
riconoscere i nostri peccati, anche più volte al giorno, pur confessandoci
soltanto periodicamente, quando i peccati non sono mortali; l’importante è che
ogni volta siamo sinceri. Bisogna non scoraggiarsi mai e non lasciare mai di
lottare per il bene. Del resto Gesù dice all’adultera: va e non peccare più,
chiamando il male «peccato». Quella donna, salvata dall’amore, sicuramente
cambiò vita.
Il perdono svela il cuore di Dio. Soltanto un grande
approfondimento della teologia trinitaria può spalancare le porte della
speranza nel millennio iniziato. Tutta l’impostazione che abbiamo dato al
problema della salvezza si rifà in definitiva all’origine e al destino
trinitario della nostra vita. Il cuore
della rivelazione è il disegno del Padre di averci come figli, nati alla vita
divina, con lo stesso legame di amore che ha il Figlio con il Padre celeste.
Prima di affrontare qualunque problema umano occorre
ricordarsi che il motivo per cui Dio ha voluto tutto è in questo disegno. Dio,
rivelando, opera: rivela il suo disegno di averci per figli, suoi familiari, e
realizza questo disegno. Amare genuinamente, vivere nella fede in Cristo che mi
ama e dona la sua vita e tutti i suoi poteri per me, vivere la storia pieni di
speranza, senza temere la vita e la morte, senza temere l’insuccesso,
collaborare a una civiltà dell’amore dove si ringrazia Dio per la bellezza
della vita: questo è salvezza, che incomincia dalla nostra vita terrena. Nulla
è dato di perfetto sulla terra, ma questa è la salvezza. Altrimenti si vive
esposti all’angoscia, sicuri soltanto nel successo garantito dagli altri e
pertanto per pochi momenti, con una gioia che non è genuina, d’amore, ma di
soddisfazione, con una strumentalizzazione sottile anche degli amori più belli
come l’amore dell’uomo e della donna. Non c'è alternativa tra salvezza e
schiavitù del cuore. C’è una grande
differenza qualitativa tra un cuore salvato e un cuore che si esalta perché
riconosciuto come una specie di dio per qualcun altro (tra l’altro perché
il successo crea assuefazione, come le droghe).
La cultura di oggi istilla idee strane e vaghe
sull’esistenza di Dio. Ne nascono alibi e incertezze al momento delle scelte.
Ricordiamo che nella misura in cui il senso della vita arride, nel successo, si
è sempre sicuri di aver ragione. Un giovane bene avviato può essere
impermeabile al problema di Dio. Ciò che rende inevitabile il tema di Dio è la
sofferenza, e non certo per concludere che «Dio non esiste altrimenti non si
spiega perché fa soffrire i bambini». Proprio perché bambini e adulti conoscono
spesso grandi sofferenze, non basta che qualche intellettuale dica che Dio non
esiste. La vita deve avere senso in tutte le circostanze, altrimenti per molti
la terra diventa un inferno. Quando si vedono i miracoli dell'amore in tanti
sofferenti, si può intuire che un amore infinito offre senso infinito. È bene
ritornare al senso comune schietto, constatando che, lungo la storia, tutto ciò
che è stato affermato contro le verità semplici e costanti del senso comune
prima o poi è passato di moda. Intanto, rifugiarsi nell’agnosticismo è facile:
evita di scegliere contro Dio ed esime dall’impegnarsi a vivere coerentemente
(se non con le leggi del gruppo!). Basta poco, con il buonsenso, per capire che
gli agnostici hanno sempre torto. Tra gli agnostici ci stanno spesso anche
coloro che si professano credenti, perlomeno a giudicare dal modo di
comportarsi, e tra coloro che si professano agnostici tanti sono in sincera ricerca
e disponibili al dialogo con tutti. La condizione terrena, a ben vedere, pone
sempre un velo su Dio, che può portare facilmente a navigare nell'agnosticismo.
Tuttavia è chiaro che Dio o c'è o non c'è. Come può Norberto Bobbio dire che la
sussistenza oltre la morte è un problema che non lo interessa? Un’affermazione
del genere ha senso soltanto perché serve a mantenere la sua immagine di
pensatore critico. Si può ritenere che tutto finisca sulla terra, ma non si può
dire che è un problema senza interesse. Di fatto è l’unico problema veramente
importante, salvo preferire la momentanea e fragile sussistenza nel
riconoscimento degli uomini. Anche così, però, il problema resta pur sempre
decisivo.
Nelle pagine precedenti abbiamo indicato varie piste che
portano necessariamente a Dio[12].
Il tema di fondo di questo libro indica un problema di amore più grande
dell’istinto di conservazione, e pertanto della vita fisica. Implica legami
necessari carichi di assoluto. Mostra che di fatto nessuno può essere ateo,
perché ha la sua idolatria, il suo sostitutivo del riconoscimento divino. Ha i
suoi riti. Ha soprattutto la sua «chiesa». Abbiamo cercato di mostrare che, in
quanto siamo bisognosi di un riconoscimento forte, carico di assoluto, un tale
riconoscimento non ci condanna alla schiavitù di essere in balìa della volontà
altrui soltanto se viene da Dio.
Ma ci sono tante altre piste che portano sempre a Dio, non
con una costrizione razionalista, quasi che Dio possa essere conosciuto dalla
mente umana, ma per semplice razionalità. L’ateo prima o poi deve abbandonare
la ragione. Non è per nulla vero che la scienza dimostra che si può fare a meno
di Dio. È più ragionevole dire «il mondo è stato creato» rispetto a dire «non
so come sia venuto fuori». Tra l’altro perché questa affermazione non riguarda
soltanto l’inizio (che non potremo mai conoscere perfettamente), ma soprattutto
la causa, l’origine di quell’inizio e del suo attualizzarsi, uguale allora come
adesso. L’evoluzionismo non spiega l’emergere delle forme. Le forme dei corpi
non sono corporee e neppure spirituali, se non negli uomini. Come il linguaggio
non si spiega con il linguaggio (lo ha dimostrato Wittgenstein), così la forma
emerge sempre dalla materia: un gatto è un gatto, e non si spiega solo con gli
atomi[13].
Non è molto razionale dire che tutto si spiega con gli elettroni, i protoni e i
neutroni. Non è facile spiegare con essi l’autocoscienza, la libertà, l’amore,
la vista, la sessualità o le ali degli uccelli che sfruttano l’aria senza aver
nulla in comune, materialmente, con essa. Le perfezioni del creato sono
stupefacenti e non dipendono dal caso. Caso e necessità si danno sempre insieme
nei fenomeni naturali e non si può ridurre la necessità (la perfezione) al
caso, come fanno in modo volontaristico i materialisti. Neppure si pretende di
dimostrare l’esistenza di Dio con la scienza. Si dice soltanto che tutto è più
ragionevole con Dio, nulla è ragionevole senza Dio. Con la stessa convinzione
diciamo che non si può dimostrare matematicamente che la musica di Mozart sia
bella, che per sposarsi è meglio innamorarsi, che l’amicizia esiste, perché
sostenere il contrario è molto meno ragionevole.
È stato detto: nella penombra ha ragione chi dice che esiste
la luce. Dio ci lascia nella penombra perché ha bisogno di sostenere la nostra
libertà storica, altrimenti l’amore non fiorirebbe. C’è sufficiente luce per
chi cerca sinceramente, e c’è sufficiente oscurità per non vedere nulla da
parte di chi non vuol vedere. Naturalmente uno scettico convinto ribatterà che
da queste parole si deduce che credere coincide con voler credere. Ma semmai è
più facile sostenere il contrario: non credere è voler non credere; ci sono
meno appigli razionali. Diceva Dino Segre, che fu un violento scrittore
antireligioso negli anni ’30 ma in seguito si convertì alla fede cattolica:
«Attenti, attenti a non prendere troppo sul serio certe “ragioni” degli
scettici. Ero tra loro e posso testimoniarvi che quelle ragioni in realtà non
c’erano, anche se ero brillante nel fingere di averle. Non lasciatevi
impressionare dalle frasi a effetto: ne ero maestro e so come, spesso, dietro
non ci sia che insicurezza e vuoto». Quante volte si rimane esterrefatti
davanti agli argomenti usati contro la Chiesa, «nemica delle scienze», «che
vuol sottomettere le coscienze a una morale impossibile per mantenere il
potere», o cose simili. Ma ce ne sono di più intelligenti. Per esempio, è vero
che la preghiera non si può riportare direttamente ai protoni e agli elettroni,
ma con l’evoluzione il cervello emette queste sensazioni. Hai un bel dire che
gli animali non distinguono le feste mentre gli uomini, anche atei, non ne
possono fare a meno, e che non c’è segno di evoluzione in questo; diranno che è
questione di neuroni. Una serie di brillanti battute scettiche la si trova nel
film L’avvocato del diavolo: i sensi
di colpa esistono solo perché si crede in Dio; la morale viene dal sadismo di
Dio che si diverte a dare regole impossibili. Parla John Milton, il demonio:
«Kevin, ti voglio dare una piccola informazione confidenziale a proposito di
Dio. A Dio piace guardare. È un guardone giocherellone. Riflettici un po’: lui
dà all’uomo gli istinti, ti concede questo straordinario dono, e poi che cosa
fa? – te lo giuro che lo fa per il suo puro divertimento, per farsi il suo bravo
spot pubblicitario del film – fissa le regole in contraddizione! Guarda, ma non
toccare; tocca, ma non gustare; gusta, ma non inghiottire. E mentre tu saltelli
da un piede all’altro, Lui che cosa fa? Se ne sta lì a sbellicarsi dalle matte
risate, perché è un moralista, è un gran sadico, è un padrone assenteista, ecco
cos’è. E uno dovrebbe adorarlo? No, mai!». Tentando un’ultima difesa del
divino, l’uomo Kevin replica: «Che mi dici dell’amore?». John Milton:
«Sopravvalutato. Biochimicamente non è diverso da una grande scorpacciata di
cioccolata».
Non credo ci sia bisogno di contestare gli attacchi alla
morale: basta un po’ di amore, appunto (e per amor proprio, per il consenso dei
coetanei, quanti sacrifici non si fanno?). L’attacco, apparentemente brillante,
è sull’amore. È certo che quando una ragazza (ma anche un ragazzo) si innamora,
nel suo cervello succede una tempesta di scariche elettriche e di sovvertimenti
chimici ben più notevole che per una scorpacciata di cioccolata. Una tempesta
che si potrebbe anche indurre chimicamente, con una pillola adeguata. Ma non mi
pare che il ragazzo di cui si innamora sia semplicemente una immagine virtuale
capace di suscitare scariche interne alla ragazza. Così Dio non è una immagine
virtuale per l’uomo, visto che tutto nella vita umana acquista significato,
speranza, amore, soltanto a partire dalla fonte divina.
Anche la battuta sul Dio sadico diventa facile slogan: se è
Dio che ci ha dato i sensi, noi dobbiamo usarli senza frapporre divieti. Però
dovrebbe essere facile capire che ogni aspetto del reale è inserito in un
disegno più grande, e il Dio che ci ha dato gli occhi per vedere ci ha anche
dato le palpebre per chiuderli. Ma il vero problema è sempre quello di fondo:
se il gruppo giustifica, lo slogan fa da supporto acritico per potersi ritenere
ragionevoli e tacitare la coscienza o i genitori preoccupati. È molto
importante capire il noto apologo del “re nudo”. Se si crea un’area culturale
“forte” si arriva a giustificare tutto, e il contrario di tutto. Che l’aborto
sia un omicidio è ben chiaro al senso comune (che non è l’opinione comune ma la
razionalità innata in ogni uomo)
Ogni ateo o scettico ha la sua immagine davanti agli altri
da difendere. Se qualcuno lo convincesse che Dio esiste si troverebbe senza «chiesa»,
senza «casa». Non si può dirlo anche dei credenti? Sì, a patto che si abbiano
presenti due cose: la grande razionalità cattolica lungo i secoli, che si è
sempre confrontata con tutte le idee, e soprattutto la Rivelazione. Proprio
perché non si riesce a ragionare fino in fondo, data la prigione del cuore
dolorante di amore, occorre lasciarsi penetrare dalla luce divina, dalla
Parola. Non basta il ragionamento astratto. Astratti sono i numeri, né
materiali né spirituali: sono immateriali. È lo spirito che vive di amore, e
non si riduce alla mente che astrae. Ed è nello spirito che ci si gioca la vita
e la vita eterna.
L’esistenza di Dio non è propriamente oggetto della fede;
bastano il senso comune e la ragione innata. Tutto l’essere umano è condizionato
dal trascendente. La fede entra in ballo quando si tratta dell’incarnazione del
Verbo, della sua risurrezione, dei sacramenti e in particolare dell’eucarestia,
della Trinità, della filiazione divina, della visione beatifica in cielo.
Davanti alla risurrezione di Gesù, per esempio, non possiamo usare gli stessi
argomenti che ci valgono per capire che Dio esiste. Eppure, con tutti i dati
scientifici a nostra disposizione, con la testimonianza storica degli apostoli,
con i problemi dell’uomo e dei suoi rapporti, eccetera, possiamo dire, anche in
questo caso, che è più ragionevole credere nella risurrezione di Gesù (così
lontana da un ragionamento scientifico) che non il contrario.
La salvezza – la giustificazione, come si dice nel gergo
neotestamentario – è dono totalmente gratuito. È amore di Dio per l’uomo
peccatore, indegno di tanta considerazione. Eppure Gesù una cosa ce la chiede
in cambio: ci chiede di ricambiare negli altri qualche barlume della
misericordia del Padre, qualche sentimento del suo cuore per gli uomini: «Beati
i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Lc 6, 38). Nell’ultima cena, dove svela gli abissi dell’Amore, ci
chiede in cambio, più volte, di osservare i suoi comandamenti, che però spesso
riassume in uno solo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati» (Gv 15,
12).
Un seme è dono gratuito per un terreno sterile. Però il
seme, appena donato alla terra, da quella terra succhia umidità, sali e
concime, moltiplicandosi cento volte. Così il dono dell’amore è per tutti, ma
ha bisogno di una risposta di santità; di un impegno da parte nostra; di
coerenza morale e di responsabilità verso gli altri. Gesù riassume tutta la
morale in un solo comandamento: «questo vi comando: amatevi gli uni gli altri»
(Gv 15, 17), e fa notare che si
tratta di un «comandamento nuovo» (Gv
13, 34). È nuovo anche rispetto all’universale «ama il prossimo tuo come te
stesso». Non basta vedere nell’altro un altro sé stesso. Occorre vedere
nell’altro la dignità del Figlio di Dio: «Amatevi come io vi ho amati». Gesù
spiega più volte che chi ama in questo modo osserva tutta la legge. Come dire:
vi hanno dato tanti precetti (basti pensare ai precetti degli ebrei); io ve ne
do uno solo, perché chi lo osserva sarà portato a osservare gli altri quando
l’amore lo esigerà. San Paolo gli fa eco con grande chiarezza: «Non abbiate
alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole: perché chi ama
il suo simile ha adempiuto la legge […] pieno compimento della legge è l’amore»
(Rm 13, 8-10).
Essendo un «comandamento nuovo» è anch’esso frutto dello
Spirito Santo, come la risurrezione di Gesù: realtà veramente nuove dopo la
creazione. Come potremmo amarci all’altezza di quel «come io vi ho amati» senza
lo Spirito Santo? Però deve essere chiaro che dove non c’è il frutto della
carità fraterna tutto il resto non è redento, non è cristiano, anche se si
tratta di virtù, di giustizia, di opere a favore degli altri. «Da questo tutti
sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35), e non da altro. Se si pensa
alla Trinità, più che un “io” che ama “gli altri”, c’è un “noi” costitutivo. Il
Padre non sarebbe Padre se non fosse tutto nel Figlio. L’amore è costitutivo
della persona.
Un cuore salvato opera il bene. C’è pertanto una
responsabilità terrena degli uomini che condiziona il destino eterno. La
salvezza cristiana permette di far fiorire l’amore genuino, i rapporti
familiari e sociali nell’autenticità di un amore vero: per la gioia e il
significato delle persone, per l’edificazione delle famiglie e della sacralità
della vita umana, per la responsabilità storica verso gli altri, visto che in
cielo ci va soltanto la carità fraterna, come compassione e come misericordia.
Gli esami del giudizio finale proposti dal Vangelo sono sulla compassione: chi
mi ha visto affamato…, oppure (e sempre) sul perdono: «perdonaci i nostri
peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore» (Lc 11, 4), che corrisponde in san Luca
alla più nota dizione di san Matteo: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,
12), ma che meglio ci dice che questa è la chiave del Paradiso: Dio farà dei
nostri peccati esattamente quello che noi abbiamo fatto ai nostri simili nei
riguardi dei loro errori, difetti e peccati: «con la misura con cui misurate
sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,
38). I difetti degli altri sono il luogo
dove posso imparare ad amare e pertanto sono una fortuna per chi ha capito che
la vita sulla terra, nella storia, ci è data per imparare ad amare gli altri: «Se
amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo
stesso» (Lc 6, 32). E alla fine Gesù
ci dirà: se hai usato i peccati degli altri per imparare ad amarli di più, io
userò i tuoi per darti più cielo, moltiplicando il tuo atto di misericordia per
circa 20.000 volte (tale è la differenza tra i 10.000 talenti e i 100 denari
della famosa parabola dei due debitori insolventi). Ma se hai parlato male
degli altri o li hai giudicati male in cuor tuo, anch’io ti giudicherò degno di
Purgatorio (moltiplicando, anche qui, per 20.000 volte le conseguenze dei
nostri atti). Naturalmente non usiamo i numeri in modo matematico, ma come eco
della logica evangelica. Gesù parla del cento per uno che vien dato a chi
rinuncia a qualcosa per Lui, mentre sembra proprio che la ricompensa sia molto
maggiore per chi opera in favore del prossimo. Anche questo è una costante del
Vangelo. Gesù, quando parla dell’amore di Dio e dell’amore fraterno, finisce
sempre per fissare l’accento su quest’ultimo; per esempio del Padre nostro
commenta unicamente il «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai
nostri debitori» (cfr Mt 6, 14-15);
un altro ottimo esempio è la parabola del buon samaritano.
In tutti i modi Gesù fa capire che nella nuova ed eterna
Alleanza c’è un posto centrale per tutti. Quante volte dovremo perdonare?
Pietro domanda un criterio per porre un limite. Ma Gesù risponde rapido:
settanta volte sette, cioè sempre. Il perdono è infinito. Parimenti Egli
abbatte ogni criterio per distinguere il prossimo, ogni misura di stima,
dicendo a un’adultera: io non ti giudico. Nel cristianesimo non vale l’amore universalistico,
cosmopolita, bensì l’amore per ciascuno, con l’impossibilità di negare la
propria misericordia a chicchessia. Se si
esclude uno solo dall’amore di Cristo, restano esclusi tutti! Basta un
attimo di riflessione per capirlo bene: una fonte di luce non può lasciare zone
d’ombra fluttuanti.
Non comprenderemo mai a sufficienza quanto sia vero e
decisivo che gli uomini si trovano sulla
terra per imparare ad amare gli altri, nella verità di Cristo. La storia,
la libertà, la responsabilità, ci sono date per imparare ad amare gli altri. Se
in questione fosse la nostra scelta rispetto a Dio, forse si sarebbe potuto
fare a meno della storia, com’è accaduto per gli angeli. Ma gli angeli non
hanno fratelli da portarsi in cielo: ognuno è di una razza diversa e fa specie
a sé, anche se qui non c’è spazio per spiegarlo. Noi invece abbiamo figli e
fratelli; ogni nostro simile è affidato alla responsabilità di tutti gli altri.
San Paolo lo dice chiaramente: per vedere Gesù mi converrebbe morire subito, ma
penso che dovrò restare quaggiù per edificare voi. La storia terrena esiste per
pensare alla salvezza degli altri! C’è una specie di barzelletta che può aprire
gli occhi. Un uomo muore e si presenta a san Pietro chiedendo del suo destino
eterno. San Pietro digita le sue generalità sulla tastiera del computer e lo
schermo indica il paradiso. «Mi hanno detto che in paradiso tutti i desideri si
avverano». «Certamente», risponde san Pietro. «Io ne avrei uno prima di entrare
in cielo: dare una sbirciatina all’inferno». «Andiamo subito». Prende una
grossa chiave e apre un grande portone. Entrano in una sala meravigliosa:
luminosa, decorata stupendamente, con un tavolo stretto e lungo pieno di ogni
cibo prelibato. Intorno al tavolo gente smunta, angosciata, silenziosa, con due
bastoncini cinesi in mano lunghi un metro e mezzo. I demonietti vigilano che
nessuno bari impugnando i bastoncini a metà. E tutti sono disperati. «Andiamo
via, ho capito tutto». Entrano in cielo: stessa stanza, stesse decorazioni.
Stesso tavolo pieno di ogni ben di Dio. La gente è paffutella, chiacchierona,
felice, ma anche loro con i due bastoncini cinesi in mano e con tanti
angioletti che vigilano perché nessuno bari. Il cielo è un gioco, con le sue
regole, e Dio le fa osservare. «Che differenza c’è?», domanda l’uomo a questo
punto. «Aspetta e vedrai», risponde san Pietro. E difatti poco dopo vede uno
che prende il cibo con i bastoncini e lo porge a quello di fronte.
C’è stato chi ha commentato questo racconto dicendo: «Ho
capito tutto. Se passo la vita a risolvere i miei problemi è l’inferno, se la
passo a risolvere i problemi degli altri è il paradiso». Chi fa questa scoperta
e la mette in pratica ha imparato a vivere. È felice solo chi sa far felici gli
altri. Nella Giornata mondiale della gioventù del 1995, a Manila, in una messa
con cinque milioni di fedeli, Giovanni Paolo II diceva: «La vocazione di amare,
intesa anche come apertura agli esseri umani nostri fratelli e come solidarietà
con loro, è la più fondamentale tra tutte le vocazioni. È l’origine di tutte le
vocazioni della vita».
Quando Gesù dice: «dai frutti si riconoscerà la bontà
dell’albero», non parla tanto delle opere di misericordia, quanto della
misericordia stessa. Parla cioè dei frutti dello Spirito Santo, che san Paolo
elenca nella Lettera ai Galati: «Il
frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal
5, 22). Dev’essere sempre chiaro per tutti che non c’è carità senza opere di
carità; non c’è misericordia senza opere di misericordia. Tuttavia deve essere
ancor più chiaro che ci sono molte opere di carità senza vera carità. Infatti
san Paolo dice pure: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il
mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (1 Cor 13, 3). C’è amore genuino, che si
vede nella qualità del rapporto interpersonale, e c’è molta generosità
idolatrica, di autoaffermazione. Non bisogna temere molto l’egoismo idolatrico
(che cerca amore per sé), se porta a fare del bene; capita a tutti. Il vero
problema è quando il bisogno di consenso porta a fare il male facendoci credere
che siamo giustificati.
Tuttavia è importante capire la differenza e cercare il dono
dello Spirito che può convertirci. Gli antichi distinguevano tra amore di
concupiscenza e amore di benevolenza; il primo è mosso da quello che ciascuno
di noi guadagna nel rapporto con gli altri. Il secondo invece è sapersi mettere
realmente nei panni degli altri volendo il loro bene. Dato che anche il primo
si riempie di sacrifici e attenzioni, ci è molto facile pensare che siamo
capaci di amare. In effetti dopo il peccato originale è soltanto con lo Spirito
Santo che si riesce a operare il dono di sé autentico agli altri. La garanzia del nostro amore ce la devono
dare gli altri. Gesù affida la visibilità del suo amore alla visibilità del
nostro, tra noi e verso tutti. Dunque occorre imparare la grande lezione di san
Giovanni Bosco: non basta amare, occorre
che gli altri se ne accorgano. Una madre ama sempre i suoi figli, ma spesso
loro non se ne accorgono: quando è nervosa, pedante, pretenziosa. Occorrono
affetto, pazienza sorridente, anche quando è difficile. Solo questo dimostra un
animo nobile.
A ben pensare, la nostra disamina sul cuore assolutamente
bisognoso di amore, che condiziona l’uso dell’intelligenza e pertanto impedisce
di cogliere facilmente il bene e il male oggettivi, permette anche di avere
molta più comprensione per gli altri e di vivere in profondità il comandamento
nuovo. Se io non riesco a convertirmi dal mio idolo a Dio e agli altri, con le
mie sole forze (basta provarci per sperimentarlo), come posso pensare che gli
altri debbano cambiare solo perché lo voglio io? Magari, dall’esterno, vedo
meglio i loro assoluti fuori posto, e vedo le ingiustizie che ne derivano, ma
non posso pretendere che mi ascoltino. Posso soltanto amarli di più, con vera
pazienza, perché non posso invece giudicarli, sapendo che fanno quello che
possono e che solo una comunità viva di fede che li circonda potrà calamitare
il loro cuore, sotto l’azione dello Spirito Santo, alla verità divina della
vita. Dato, inoltre, che quasi tutti vivono mille pene convinti che la colpa
sia degli altri, capendo il
condizionamento del cuore si avrà molta più pace, smettendo di incolpare
chicchessia delle proprie infelicità.
Imparare ad amare.
Ecco la grande avventura, il grande compito che dà significato alla vita fino
all’ultimo respiro. Chi decide di vivere per questo scopo non andrà mai in
pensione; nessuna malattia lo renderà inutile e tutto culminerà proprio con la
morte, con il dono definitivo della propria vita a Dio e agli altri. Un
racconto vero, tra i tanti che narrano l’eroismo dei martiri del secolo appena
trascorso, mette in risalto l’efficacia divina della carità eroica. Un bambino
di circa dieci anni bussa alla porta di un carcere, a Mosca, con una rosa in
mano. Chiede del capitano. Costui è un aguzzino spietato. Il carcere è
destinato ai credenti, che lui tortura per sapere dov’è la tipografia
clandestina. Un soldato avverte il capitano che chiede: «Chi è?». «Non lo ha
detto». Trattandosi di un ragazzo, lo fa entrare. «Oggi è il compleanno della
mamma e papà mi ha insegnato a regalare una rosa alla mamma in giorni come
questo, ma mia madre è in carcere, perché ce l’hai messa tu. Anche papà è in
carcere, perché ce l’hai messo tu. Io vivo con la nonna, che mi insegna a
pregare e mi dice che noi cristiani non solo dobbiamo perdonare i nemici, ma
dobbiamo amarli. Per questo sono qui, per amarti. E la rosa che non posso dare
alla mamma la do a te». Consegna la rosa e se ne va, lasciando di sale il
capitano. Per un mese quell’uomo cercò di non pensare al fatto, ma non ci
riuscì e dette le dimissioni, convertendosi al cristianesimo. Fu sospettato,
pedinato, scoperto e incarcerato. Ci si aspettava che i cristiani lo avrebbero
sbranato, ma non fu così: lo accolsero. Morì poco dopo per i maltrattamenti,
che verso di lui erano particolarmente efferati, avendo però scritto un diario
con la sua testimonianza sull’eroismo di tanti cristiani da lui torturati. Ecco
la forza dell’amore misericordioso.
Tutto dipende dal fatto che
Gesù ha assoluto bisogno della visibilità del nostro amore fraterno, del
legame ecclesiale visibile: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli,
se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv
13, 35). Il Verbo si è incarnato per rivelare all’uomo l’amore trinitario. Se
l’uomo non vede e non sente, non può capire. Ma ora questa visibilità è
affidata a noi. Se è vero che l’amore
autentico che salva il cuore umano può venire solo da Gesù Cristo, è pur vero
che ognuno di noi, alla ricerca disperata di consenso, ha bisogno di «vedere»
un riconoscimento sociale; i due legami si possono dare insieme soltanto nella
Chiesa. Ognuno di noi ha bisogno di essere attirato interiormente a Cristo
dalla visibilità dell’amore cristiano. Il cuore viene attratto lì così come di
fatto tanti vanno dietro a qualunque altro rapporto significativo. Con la
differenza che la Chiesa attira il cuore, offre il riconoscimento umano, per
orientarlo a Cristo e alla Trinità. La Chiesa è icona della Trinità. La differenza tra icona e idolo, tra immagine
sacra e feticcio atto a catturare il potere del divino, è che l’icona apre al
mistero, invita ad andare oltre sé stessa, rendendosi trasparente e pronta a
scomparire; l’idolo invece è specchio in cui cercare sé stessi e un potere che
ci rassicuri. La stessa immagine religiosa può essere vissuta a livello sacro,
sacramentale, oppure a livello idolatrico. E così un gruppo cattolico o una chiesa
locale possono aprire alla Trinità (cosa che le sette e tutti gli altri gruppi
non possono fare!), ma possono anche essere vissuti come luogo in cui
specchiarsi, in cui trovare consenso, come succede in tutte le altre aree di
riferimento esistenziale.
Non è possibile cogliere il cuore di Gesù risorto, tempio
vivo dell’amore che salva, senza la visibilità della sua Chiesa, purché sia
visibilità di un amore che altrove non si trova. Da qui l’importanza del
«comandamento nuovo». Senza la visibilità
e lo spessore umano dell’amore ecclesiale non si può diventare coscienti della
presenza di Cristo tra noi. Se si crede nel risorto presente tra noi, lo si
deve vedere da un particolare vincolo visibile tra noi. Dice san Giovanni:
«Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e
l’amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv
4, 11-12). Ma questa visibilità del comandamento nuovo richiede la
consapevolezza e la concretezza vissuta del vincolo particolare che ci unisce
in Cristo, e questo si può dare solo nella chiesa particolare: la Chiesa universale è comunione di comunità.
Si è cristiani a Efeso o a Corinto, a Gerusalemme o ad Alessandria, con
particolarità diverse e un solo contenuto essenziale. La Chiesa è l’aspetto
visibile del Regno di Cristo. Nella sua cattolicità è il popolo universale. Ma
proprio per questo non è fatta da individui collettivizzati, bensì da persone
libere, chiamate alla conversione e alla scelta personale di un legame di amore
che è comunione, popolo di Dio, «chiesa locale», cammino ecclesiale ben
definito, «forte», cioè con vincoli significativi. Quel che conta è che ogni
popolo si riconosca in Cristo, celebri l’eucarestia e gli altri sacramenti,
accetti il canone delle Sacre Scritture e il ministero petrino, come ministero
di unità e di carità, i dieci comandamenti e poche altre cose. In questo modo
in ogni chiesa locale è presente tutto il mistero della Chiesa, in unità con le
altre chiese locali, anche attraverso il primato che Gesù ha assegnato a
Pietro. La nuova ed eterna Alleanza, oltre a essere un vincolo interiore con
Dio in Cristo, è anche comunione di popoli.
Dato che nessuno può
vivere senza amore, senza un legame centrale forte in una comunità umana
solidale, soltanto con un legame ecclesiale si può trovare la salvezza dalla
più grande schiavitù, che sopra abbiamo studiato. Solo la
Chiesa offre consenso attingendolo dall’alto, in Cristo, unendo in alto le
varie comunità e potendo così fondare la vera pace, sia del cuore che dei
rapporti umani, aperta a tutti gli uomini[14].
Inoltre le chiese particolari hanno una possibilità che nessuna comunità vitale
può avere: attirano il cuore come qualunque gruppo significativo, ma per
aprirlo verso l’alto, ben al di sopra della comunità stessa. Le altre comunità
vitali sono sempre e necessariamente settarie: forzano la verità secondo il
consenso interno al gruppo; possono coltivare motivi positivi e pacifici, ma
possono creare possibili inimicizie, fino alla morte, con altre «confessioni»,
con altre «chiese segrete».
Anche i gruppi o le chiese particolari cattoliche possono
essere vissuti in modo settario, normalmente senza accorgersene[15],
ma hanno in sé il principio di superamento che può permettere la santità di
vita, l’amore autentico, il sogno vero del cuore. Ogni gruppo cattolico è
fortemente incentrato su Cristo, che è di tutti e non solo di quella comunità
(Geova invece è invenzione del gruppo); si usa il Vangelo che è uguale per
tutti e non può essere riscritto diversamente. In ogni realtà cattolica si è
incentrati sull’Eucarestia e sugli altri sacramenti, sulla devozione a Maria,
Madre di Dio e Madre nostra. Tutti riconoscono nel papa il padre comune, il
vicario di Cristo in terra. Tutto ciò fa sì che i contenuti di gran lunga più
importanti di ogni realtà cattolica non siano un prodotto originale di un
concreto gruppo, ma dono comune, superiore a tutti, che unisce in alto
nell’unica Chiesa, pur con tutte le particolarità di ogni realtà diversa. Ciò
non garantisce ancora la santità dei singoli, ma offre strade di santità,
essendo la santità cristiana, nello stato germinale che è dato sulla terra,
l’unica garanzia di autenticità, di vita salvata, di vita genuina, di amore
vero. Allo stesso tempo, rendendo capaci di oltrepassare il proprio recinto,
apre il cuore ai non credenti, in convivenza pacifica.
Abbiamo detto che la salvezza, nel senso di un amore
autentico più forte di ogni paura, come segno di una felicità destinata
all’eternità, si può dare solo (anche se non è scontato che si dia) in comunità
cattoliche «forti». Con questo termine penso a quelle realtà di fede dove non
si cercano sconti sul Vangelo. Dove fioriscono il celibato e il matrimonio. Il
celibato, accomunato qui con la verginità, è il segno forte della presenza di
Cristo risorto e dell’azione creatrice e potente dello Spirito Santo. Dove c’è
il celibato c’è una realtà di fede di prima fila; tra i monaci e i religiosi;
con i sacerdoti, che con il dono di sé proprio del celibato sono chiamati a
favorire la scelta forte della fede; e, come dono particolare dello Spirito al
nostro tempo, nelle realtà ecclesiali sorte lungo il secolo ultimo, là dove con
maggior chiarezza si vede che il celibato, specialmente se preso come espressione
della radicalità del battesimo più che di una speciale consacrazione, è lievito
per tutti i cristiani, anche per quelli che sono chiamati da Dio al matrimonio
(che tra i cattolici è sacramento e risponde a un disegno divino in Cristo).
Rimarranno sempre in prima fila i cristiani con il saio o
che agiscono in realtà molto compatte anche esteriormente. Ci sono però delle
strade, delle realtà ecclesiali sorte nell’ultimo secolo, o anche parrocchie
ben impostate, realtà diocesane rinnovate dallo spirito del Concilio Vaticano
II, eccetera, che permettono un vincolo in Cristo radicale senza un cambio
sociale rimarchevole. Per iniziare può già essere sufficiente una buona
direzione spirituale, con un sacerdote che crede nella nostra santificazione e
conta su di noi per l’apostolato in nome di Cristo.
Insieme al celibato, abbiamo indicato come segno di fede
viva il fiorire del matrimonio. In un’epoca in cui la famiglia occidentale
attraversa la sua più grande crisi, con un carico di sofferenza e di
disperazione ben superiore alle disgrazie naturali e anche a tante guerre (pur
volendo tutt’altro che minimizzare il male della guerra), là dove si sviluppa
un itinerario cristiano forte e aperto a ogni sorta di vocazione, nel celibato
e nel matrimonio, la famiglia presenta una forza incredibilmente superiore a
quella che in media si nota nella società circostante. Un dato che dovrebbe
fare riflettere tutti è quello delle separazioni: in media nelle società
occidentali si separa il 35-40% delle famiglie. Le persone sagge d’altri tempi
dicevano che per ogni famiglia che si separa ce ne sono altre due in gravi
difficoltà. Oggi non lo si può più dire per il semplice motivo che si
sfonderebbe il tetto del 100%; ma si può senz’altro pensare che perlomeno
altrettante siano in difficoltà. E siamo sul 70-80% di persone che soffrono
pene profonde, che nulla può compensare. Si ha un bel dire, assecondando
l’immensa ipocrisia della nostra cultura, che basta separarsi senza drammi, o
che i figli soffrono meno così che a veder litigare i genitori. Di fatto i
figli ne hanno un danno ben maggiore, e semmai l’unico consiglio è di non
litigare mai davanti a loro. Quanto ai coniugi, uno dei due si sente forse
liberato da un peso, ma non certo per un amore più vero, bensì per puro
egoismo. L’altro coniuge è ferito a morte, sempre. Chi è lasciato sente
spegnersi la vita e nessun ragionamento altrui potrà dargli la pace[16].
Tanti giovani, intuendo il rischio del fallimento, più per paura che per
comodità preferiscono convivere prima di sposarsi, senza pensare che ciò
aggrava il problema: una convivenza senza responsabilità non è certo una prova
di matrimonio, proprio per il problema della responsabilità delle vite altrui
per tutta la vita, che è propria del matrimonio e non si può sperimentare fuori.
Ma se guardiamo i cammini cristiani forti, troviamo una
realtà meravigliosa. Al di fuori di ogni apologetica, guardando soltanto ai
fatti, si vede che qui per trovare una sola separazione occorrono dalle cento
alle duecento famiglie! Siamo a meno dell’1%, specie se entrambi i coniugi
partecipano di un cammino comune. Ne mettiamo qualcun’altra in disagio e siamo
al 2-3%. Le altre sono belle o splendide, con più figli e con una forza umana
impressionante. Anche la malattia o la povertà vengono affrontate in crescita
di amore e si trasformano in avventure. Un handicap non è una disgrazia,
ma un concentrato di attenzione e di affetto per tutti. Queste cifre dovrebbero
bastare per far aprire gli occhi sull’efficacia della salvezza cristiana anche
nel cuore della storia e non solo per l’aldilà.
La fecondità reciproca
di celibato e matrimonio dovrebbe far riflettere sulla bellezza della morale
cristiana e della sessualità inserita in un percorso di amore.
C’è chi pensa che la morale cristiana sia troppo esigente. In realtà è da
osservare bene come ogni gruppo chiuso in sé abbia proprie forti esigenze ed
estorca sacrifici ben più duri (fino al suicidio, come abbiamo studiato), in
apparente libertà. Di fatto, pur di avere
consenso si è disposti a tutto. Ciascuno è persuaso di fare solo i
sacrifici che vuole, ma in realtà ne fa tanti e tutti si rifanno al filo
sottile che lega il suo cuore al riconoscimento altrui. A volte certi gruppi
cristiani, visti dal di fuori, sembrano troppo esigenti. Certamente ci sono sensibilità
diverse e la Chiesa è ricchissima di possibilità. Fa parte della cattolicità il
profondo rispetto per le scelte spirituali e la gioia di veder fiorire la fede
in cammini diversi dal proprio. Ma riguardo alle richieste concrete non si può
giudicare da fuori: un itinerario cristiano forte riesce a prendere il cuore,
in semplice e opportuna alternativa alle tante «chiese segrete». Dove ci si
sente amati si è anche liberi di corrispondere, costi quel che costi. È pur
vero che se uno perde lo slancio d’amore tutto sembrerà macchinoso. Magari a
quel punto vedrà un primato dell’istituzione sulle persone e se ne andrà
sdegnato. Come afferma Eliot, dicendo di averlo imparato da Dante: «Togli
l’amore e farai un inferno». Ma se il legame di amore è realmente in Cristo,
secondo il comandamento nuovo da lui lasciatoci, si verificherà quello che
diceva sant’Agostino: «ama e fa’ quello che vuoi», volendo liberamente ciò che
l’amore cristiano ci esige.
Mosè ha dato la Legge di Dio alle tribù di Israele. Gesù dà
la Nuova Legge, la Nuova Alleanza, ai peccatori. Il cristianesimo è il popolo
dei peccatori, dei quali Dio è invaghito. Non più una tribù contro un’altra,
guidate dai loro dei; non più un popolo contro altri popoli: ma un popolo in cui sono convocati proprio
tutti, a puro titolo di peccato, e cioè a titolo universalissimo, perché non
c’è uomo sulla terra che non si trovi avvolto dal suo egoismo che lo rende
schiavo della considerazione degli altri e pertanto bisognoso di salvezza. Il
peccato originale è un capovolgimento di amore. Dice san Paolo: «Dio infatti ha
rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!» (Rm 3, 32); ai Galati scrive: «ha
rinchiuso ogni cosa sotto il peccato» (Gal
3, 22). L’universalità del titolo di appartenenza al Regno mantiene la varietà
e la diversità dei popoli. L’universalità cristiana non è astratta, perché
rispetta le varie tradizioni, le espressioni culturali diverse. A Pentecoste
Pietro parlava in aramaico e ciascuno sentiva nella propria lingua: è una icona
stupenda del nuovo e definitivo popolo di Dio.
La naturale propensione all’amore, nel capovolgimento del
peccato presente nel profondo del cuore ci lega strettamente in piccoli
«popoli», in tante «tribù», anche in pieno mondo secolarizzato. Queste «chiese»
non sono tutte uguali. Alcune sono positive e permettono, se non una vita
veramente salvata, perlomeno una vita positiva. Le migliori, in genere, sono
quelle connotate religiosamente. Però deve essere chiaro che le religioni non
cristiane non sono tutte uguali, anche se tutte svolgono il compito
confessionale di dare una appartenenza consapevole e forte a tanta gente.
Potrebbe sembrare un’eccezione il buddismo, basato su di una
sapienza che può sembrare strettamente personale: diventare indifferenti a
tutto per vincere l’idolatria del successo, del possesso, del riconoscimento
altrui. Budda ha intuito molto del peccato originale e cerca di stagnare il
sangue di cui si nutre. Tuttavia non sfugge neppure lui al condizionamento del
peccato: l’idea che lo ha illuminato, il nirvana, l’assoluta indifferenza, in
realtà è un’idea potente. Subito ha radunato cinque vecchi compagni di
eremitaggio, li ha istruiti e inviati a diffondere la sua idea. Per lui e per
quei cinque si è costituita immediatamente una chiesa, un legame forte. E così
è per tutti i buddisti di tutte le epoche. Anche in Occidente, attualmente,
dove la mentalità è agli estremi opposti di quella propria del buddismo, questo
ha successo perché di fatto crea aree di consenso: basta un po’ di meditazione
trascendentale, un po’ di yoga, un po’ di indifferenza ai tanti beni superflui
che ci circondano, e si ha la sensazione di essere entrati nel cuore di un
gruppo di eletti. È questo che spinge al buddismo, come spinge alla new-age e a
qualunque altra setta o religione, ma anche a gruppi di estrazione sociale,
musicale, politica, eccetera. Naturalmente, ripetiamo, non sono uguali i
contenuti che si è chiamati a vivere nei vari gruppi per sentire il consenso
vivificante; il buddismo, per esempio, è più sublime di tanti altri. Le
religioni garantiscono una forte solidarietà e pertanto danno senso alla vita
con il loro legame significativo forte. Ma si rimane in balìa del consenso
umano, come Saulo tra gli ebrei: doveva primeggiare, aver successo nella
pratica religiosa, per avere il consenso del popolo. Dio, che vuol salvare
tutti per la vita eterna e che accetta la scusa dell’ignoranza, invocata da
Gesù sulla Croce, alla fine, attraverso la purificazione del Purgatorio,
salverà a partire dalla sua misericordia e dal fatto che lui, molto meglio di
noi, vede nell’intimo del cuore e conosce quella buona volontà che si annida
dietro ogni tipo di consenso, il quale è ben più forte della capacità di
discernere il bene dal male. Ma il fatto che Dio vuole e può salvare molto al
di là del battesimo di acqua, vedendo il battesimo di desiderio nei meandri dei
cuori umani assetati di amore, non vuol dire che sia tutto uguale, che le
religioni si equivalgano e che non sia di enorme importanza conoscere e
praticare le vie della salvezza già sulla terra, per il bene proprio, sulla
terra e in cielo (che non sarà di uguale intensità per tutti), per il bene di
chi ci è accanto e per il bene di tutti gli uomini, che attendono la
testimonianza dei figli di Dio per conoscere e fruire la presenza beatificante
della salvezza.
Le comunità protestanti, pur essendo chiuse in sé stesse e
pertanto incapaci di salvare profondamente il cuore nel suo bisogno capovolto
di amore idolatrico, basandosi sulla Sacra Scrittura hanno un principio di
superamento del gruppo stesso (in questa possibilità consiste il passaggio alla
salvezza, al dono dell’amore innocente di Cristo). Occorre però considerare
come sia possibile leggere lo stesso testo, anche rivelato, con precomprensione
idolatrica diversa, che impedisce il vero aggancio in alto. L’esperienza
protestante ha dimostrato come sia facile dividersi e credersi portatori
dell’unica lettura valida della Scrittura. Nessun santo cattolico si è mai
sognato di essere l’unico ad aver letto il Vangelo in pienezza. A Lutero invece
è proprio successo questo: una luce pur valida e forte lo ha convinto di essere
nella verità, in realtà egli si è chiuso idolatricamente e si è reso capace di
dividere la Chiesa (non voglio qui sottrarre le loro responsabilità ai pastori,
né semplificare troppo il problema). Non si prenda questa considerazione in
senso antiecumenico; anche i cattolici hanno a che fare con sottili idolatrie
(in realtà soltanto i santi lasciano passare l’amore salvifico). Mi serve
soltanto per sottolineare che i protestanti hanno un cammino che può portare
alla salvezza ma soltanto con un ecumenismo forte, proiettato alla vera
cattolicità, che supera anche le forme concrete e storiche della Chiesa
istituzionale, ma non può prescindere da essa (si può pensare a Taizè). Anche i
cattolici devono essere cattolici; il che non è facile, e questo li impegna in
un reale ecumenismo. Del resto abbiamo già detto che la cattolicità unisce
tante realtà ecclesiali ben diverse tra loro, tanti «popoli» dalle lingue
diverse, purché si conosca la lingua dello Spirito.
Convertendosi al cristianesimo, alcuni dovranno lasciare la
loro «chiesa segreta», perché perversa o di tipo negativo; c’è chi professa
l’ateismo, il razzismo, la lotta di classe, il satanismo e così via. Ma tante
altre appartenenze restano sostanzialmente rispettate. Gli africani possono
danzare nella celebrazione liturgica (dietro la danza si possono vedere tanti
contenuti culturali e tradizionali), così come altri popoli possono mantenere
tradizioni e riti compatibili con la fede cristiana. In questo senso il
cristianesimo è chiamato a essere il vero popolo universale, benché non nel
senso cosmopolitistico degli illuministi o della globalizzazione economica in
atto in questi tempi.
Se c’è stato un espandersi delle sette, soprattutto in
America Latina, ma anche da noi, per esempio con i Testimoni di Geova, ciò è
dovuto al fatto che tanti cristiani tradizionali non hanno mai vissuto un
legame «forte» con la Chiesa in un cammino concreto, ma solo un obbligo morale
di adempimenti esterni. Nel venir meno di altri legami sociali significativi
(il villaggio, il parentado allargato, i molti figli, eccetera) molti si sono
sentiti attratti umanamente da un gruppo compatto che dava loro attenzione e
accoglienza benevola, ma non certo vera salvezza. Nel mondo si sono
moltiplicate le sette. Ciascuna crede di possedere la verità, ma non sono
salvifiche.
Ripetiamo che non stiamo tanto parlando della salvezza
eterna – che Dio dà leggendo nel cuore di ciascuno –, quanto del prendere
coscienza sulla terra di ciò che è la salvezza e di poterne sperimentare
coscientemente i frutti beatificanti e l’efficacia di bene per gli altri. Non si salveranno solo i santi, ma solo i
santi capiscono perché Dio ha creato il mondo, ha permesso il male, ci ha dato
la libertà, la responsabilità storica, i legami familiari e sociali. Tanta
gente sostiene l’ateismo o l’agnosticismo invocando le sofferenze dei bambini;
ma dove c’è amore, dove la famiglia sa reagire al dolore con legami più
profondi, si vede subito che il dolore fisico ha la sua redenzione, fa crescere
l’amore e la felicità. Quanti casi meravigliosi! Ma il sostegno ultimo è
l’amore di Cristo in Croce che diventa nostro nell’azione dello Spirito Santo
donato a Pentecoste. Allo stesso tempo è vero che tanti non appartenenti alla
Chiesa si salveranno, ma non per merito loro bensì sempre attraverso la
redenzione di Cristo, attraverso il dono dello Spirito. Attraverso, in qualche
modo, la mediazione della Chiesa. Il cardinale Giacomo Biffi, dopo aver
studiato attentamente questo tema della salvezza attraverso la Chiesa, fa
notare che il rifiuto di questa certezza da parte dei non cattolici e anche il
silenzio di certi cattolici si può spiegare con la possibilità che anche la
Chiesa sia idolatrata, assolutizzata. Ma, guardando la Chiesa come sempre
incentrata in Cristo, vero portatore della salvezza, si può senz’altro dire che
«se la “ecclesialità” è nel suo significato proprio e più adeguato intrinseca
relazione con Cristo, allora si fa ovvio e gratificante l’asserto che una
qualche appartenenza al “Christus totus”
sia, più che una condizione, una connotazione sostanziale della nostra
salvezza»[17].
Soltanto il legame ecclesiale forte nello Spirito Santo può
salvare il cuore dell’uomo chiuso idolatricamente nel suo gruppo. Anche la
richiesta di perdono operata da Giovanni Paolo II per peccati commessi da
cristiani nel corso dei secoli è indice, come è stato ben studiato, di una
cattolicità reale, di una autentica universalità palpitante in ogni sua parte.
Indica la realtà di un amore universale, non astratto, che ci lega in Dio e ci
salva dai nostri vincoli egoistici e autoreferenziali o narcisistici. In Cristo
deve essere possibile sognare una riconciliazione universale, vera, profonda,
duratura. San Paolo può dire che Cristo è la nostra pace, perché riesce a
riconciliare gli ebrei con i gentili: «Egli infatti è la nostra pace, colui che
ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era
frammezzo, cioè l’inimicizia […] per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo
nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo
corpo, per mezzo della croce, distruggendo in sé stesso l’inimicizia. […] Per
mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo
Spirito» (Ef 2, 14-16. 18). Vediamo
ancora oggi come sia difficile abbattere la separazione tra ebrei e
palestinesi, governati da un Dio della tribù e non dalla Trinità
onnicomprensiva. Fin che il proprio Dio serve per far guerra a un altro Dio,
siamo chiusi nel Dio della tribù. Può succedere anche ai cattolici, ma ciò non
toglie che solo in Cristo è fondata la vera pace.
Abbiamo ora i dati per trarre le conseguenze.
I tre capitoli corrispondono a tre cardini per prendere coscienza della vita e della fede, per
operare una scelta di vita autentica, aperta a ogni futuro.
Innanzitutto ognuno deve vedere a quali livelli opera nel
suo cuore l’amor proprio, che, come dice la parola, è sì amore, ma capovolto.
Che cosa gli succede nel successo e nell’insuccesso. Come teme il non
riconoscimento degli altri e lo scadimento della stima, o il rifiuto nell’amore
umano. Quali sacrifici è pronto a fare per quelle prestazioni che gli
garantiscono «il consenso per vivere». È bene scoprire come è composta la
«chiesa segreta» in cui ci muoviamo. Anche chi crede di non avere un gruppo in
realtà ha un vincolo forte con amici o futuri estimatori.
Tutto ciò lo rende schiavo delle circostanze, ma ancor più
della volontà altrui. Ognuno si muove su un abisso di paura, che si spalanca là
dove si rompe il vincolo significativo. Se il successo è stabile non tutela
però dalla mediocrità, e lascia esposti all’angoscia qualora venisse meno.
Il problema dell’amore è più profondo e onnipresente di
tutti gli altri problemi che accompagnano la vita umana. Soltanto un dono di
amore che non sia in balia della volontà altrui può dar fiducia e libertà al
cuore umano.
E così si passa al secondo caposaldo.
Soltanto in Cristo si opera la rivelazione del Dio-Amore.
Soltanto se mi sento amato da Dio in Cristo, se conosco il
Dio-Amore, posso stabilire legami sociali senza la schiavitù di dipendere dagli
altri per il significato ultimo della mia vita.
Soltanto se mi sento amato con pienezza umana e divina posso
aprirmi alla speranza e all’ottimismo di fronte a ogni prospettiva di vita,
sapendo che in ogni insuccesso, sempre possibile, avrò la grande consolazione
di potermi unire alla passione di Cristo, purificando e accrescendo la mia
capacità di amare.
Il terzo punto prende in considerazione il fatto che stiamo
nella storia, viviamo con gli altri e mai potremmo, condizionati profondamente
dal bisogno di riconoscimento, prescindere da un’accoglienza benevola che si
rende visibile in un gruppo primario. Ciò rende indispensabile la Chiesa come
comunità di comunità, come legame forte capace di dare significato umano alla
vita di ciascuno, ma aperto al dono che viene dall’alto. Ciò tra l’altro
corrisponde al disegno di Dio che non ci vuole soli e indica nell’amore
fraterno la vera impresa della storia umana.
Se tutti hanno una «chiesa segreta», chiesa per chiesa solo
quella con la «C» maiuscola risolve autenticamente il problema della vita e
dell’amore.
Oggi è scoccata l’ora dell’autenticità cristiana, del legame
di amore libero, cosciente, personale tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e l’uomo, in
Cristo: la santità cristiana. È il dono da chiedere allo Spirito Santo con
l’insistenza di tutta la vita. Negli anni trenta, quando ancora reggevano i
legami sacrali ma erano già operanti i germi del secolarismo, un profeta dei
nostri tempi, il beato Josemaría Escrivá, gridava al mondo: «Un segreto. – Un
segreto a gran voce: queste crisi mondiali sono crisi di santi» (Cammino, n. 301). Non si tratta di
pensare a una santità che separa dal mondo, che rende diversi, ma soltanto a un
vero desiderio di amore, che è dono di grazia, rinnovando continuamente questo
desiderio nell’interiorità e nel contraccambio fraterno, aperto a tutti. Diceva
Bernanos: la santità è un’avventura. Anzi, è l’unica avventura. Chi lo ha
intuito anche una sola volta ha penetrato il segreto della Chiesa. Ma chi si dà
pena di essere santo?
Ora
è più facile giustificare le provocazioni del titolo.
Perché cattolici e non semplicemente cristiani? Oggi si
tende a usare sempre meno il termine «cattolico»: sembra quasi «teologicamente
scorretto». In realtà un vago cristianesimo non serve a nulla. La Chiesa, il
papa, hanno il merito di essere punto di riferimento anche per chi non si
riconosce in loro. Ma il punto centrale è proprio nel tema della salvezza:
soltanto un legame di amore che non si chiude all’interno della comunità vitale
in cui si vive può salvare il cuore umano dalla paura, e ciò si dà unicamente
nella cattolicità. Non basta la fortuna di appartenere a una «chiesa segreta»
sufficientemente positiva e sufficientemente stabile; essa non conterrà una
vera speranza capace di reggere anche all’eventualità del rifiuto da parte
della comunione umana, e pertanto non vi sarà una gioia autentica, un dono per
gli altri. La salvezza è un dono d’amore, dall’alto, che sana le paure del
cuore e ci accoglie per l’eternità.
Con ciò giustifichiamo anche la provocazione di quell’«essere
cattolici» che va inteso come necessità e non soltanto come cosa bella e
opportuna. Necessità per chi vuol ritrovare la genuina umanità dopo quel
capovolgimento abissale del cuore umano che da sempre va sotto il nome di
«peccato originale» o mysterium
iniquitatis, di cui abbiamo delineato i connotati, e che è il problema
abissale dell’amore capovolto. Ma, ancor di più, è una necessità per chi vuol
capire la vera condizione dell’uomo nel disegno eterno di Dio (un disegno il
cui scopo è nientemeno che averci in comunione intratrinitaria). La società
secolarizzata sforna nuovi riferimenti di consenso con grande facilità, ma sono
effimeri. La cultura corrode i vincoli, anche se in realtà la soggettività è
soltanto presunta e mai possibile. È vero però che una società che vuol dirsi
moralmente neutra, anche se ogni gruppo ha la sua ferrea morale, alla lunga
ingenera incertezza, instabilità, fino alla depressione.
E infine la terza provocazione: perché «fin da giovani»?
Conosciamo conversioni meravigliose al tramonto della vita. Conosciamo la
parabola degli operai chiamati a lavorare nella vigna anche all’ultima ora, con
salario pari a quelli della prima ora. Il buon ladrone ci riempie di speranza.
La morte può offrire una chiaroveggenza formidabile. Ma è pur vero che si
tratta di casi molto limitati. Per uno come Ernst Junger che si converte
sacramentalmente a centoun anni dopo una lunghissima maturazione, molti cercano
il sacerdote in fin di vita, ma solo dopo che la paura della morte supera la
paura di perdere la considerazione degli amici atei o miscredenti, o marxisti,
o massoni. Se il consenso umano «costringe» (è la parola esatta) a non
praticare la fede cristiana, soltanto quando esso crolla definitivamente è
possibile ricordarsi in modo coinvolgente della vita eterna. Ma questa rischia
di essere una conversione di paura, non di autenticità. Inoltre non è per nulla
detto che ci siano il tempo e l’opportunità di pensare bene alla fine. E
comunque, se anche vi saranno, ne seguirà la tristezza infinita di aver
sprecato la vita sulla terra, che era fatta per imparare ad amare gli altri con
il cuore di Cristo e per contribuire con una storia nobile e responsabile a
edificare il Regno, ad attrarre molta gente a Cristo, con grande beneficio
anche per la civiltà.
Per tutto questo ci sentiamo di affermare che non esiste
alternativa autentica e valida per l’uomo, rispetto all’appartenenza a una
comunità di fede «forte», che può configurarsi nei modi più diversi, dal
monachesimo alla massima semplicità di vita nel mondo, comprendendo l’amore
schietto per l’umanità, il lavoro, l’amicizia, l’arte, il gioco, specie tra i
giovani, il volontariato, eccetera. Oggi i villaggi tradizionali non ci sono
più; ne viene una maggior urgenza di una
scelta cosciente di fede fin da giovani. Se il cuore di un adolescente è
rubato da altri gruppi non si può sapere dove approderà la sua vita, anche se
non si escludono conversioni in futuro (per alcuni). Il futuro è per coloro che si legano liberamente a Cristo riconoscendo
e sperimentando la forza dell’amore fraterno vissuto in una realtà ecclesiale
che trabocca nella società.
Abbiamo cercato di offrire una spiegazione concreta ed
esistenziale, verificabile da tutti con un minimo di attenzione alla realtà che
ci circonda, del grande messaggio che la Chiesa, attraverso il Concilio
Vaticano II, ha offerto a tutti gli uomini nella seconda metà del ventesimo
secolo; un messaggio che, con la prospettiva di alcuni decenni, si manifesta
sempre più nell’affermazione di una chiamata universale alla santità e nella
configurazione della Chiesa come comunione di comunità.
A questo punto sarà pure chiaro, tuttavia, che non è affatto
detto che ritrovarsi da giovani in una realtà cattolica vivace nella fede sia
di per sé sufficiente. Di fatto la stragrande maggioranza dei cattolici non
vive contenuti di amore più genuini di altri gruppi religiosi validi. La
salvezza è in Cristo dentro la sua Chiesa, ma in questa Chiesa occorre stare
con fede viva in Cristo, animati dallo Spirito. Si può praticare la fede come
una religione, attraverso la ritualità, senza vedere il volto di Cristo risorto
che ci ama con le cicatrici della sua croce. Ce lo ricorda un apologo dei primi
tempi del cristianesimo, che può suggerirci come il gruppo visibile vada
trasceso con una fede personale in Cristo. Si racconta che nei primi tempi del
cristianesimo un uomo andò da un eremita. Maestro – chiese – spiegami una cosa:
perché tanti lasciano le loro case per venire nel deserto a pregare e poi la
maggior parte torna a casa? Vedi – rispose l’uomo di Dio –, è come quando un
cane vede una lepre: si mette a correre e ad abbaiare a più non posso. Gli
altri cani, udendolo abbaiare e vedendolo correre, si buttano anche loro a far
cagnara, correndo e abbaiando. Ma la lepre non l’hanno vista, sicché quando si
stancano si fermano. Ma chi ha visto la lepre non si ferma finché non la
prende!
Come Gesù ama te, in esclusiva, così tu devi amare Gesù
personalmente, nell’intimità dell’amicizia. Il tuo Gesù, non quello indistinto
di tutti. Pur avendo visto quanto sia assoluta la necessità del legame
ecclesiale, tanto da affermare che la santità cristiana non si può dare senza
Chiesa, in legami di amore, mi sento di dire con pari sicurezza che nessuno può
amare e santificarsi al posto mio e tuo; nell’amore non basta il conformismo
del gruppo. C’è un primato della vita interiore, come Gesù spiega a Marta, che
richiede il rapporto profondo di preghiera. Non bastano le idee, la dottrina, e
neppure il gruppo: occorre la vita interiore, la vita dello spirito, che non è
un’astrazione come la matematica o come la filosofia: è vita. Coinvolge la
volontà, i desideri, i propositi, le speranze, la memoria e ancor prima
l’intelletto, l’intus-legere, che
vede in profondità, sa contemplare, portando a momenti profondi di vita
spirituale. Se il seme della grazia non trova il solco dell’orazione, della
vita dello spirito, non dà frutto.
E possiamo concludere ritornando al titolo: La sfida dell’Amore. Si tratta
dell’Amore, con la maiuscola, che viene da Dio e sfida il mondo non per
provocarlo, ma per salvarlo. L’Amore ha bisogno di libertà, e questo spiega
perché Dio abbia dovuto permettere tanti mali provocati dall’egoismo degli
uomini. Se il male è soltanto fisico, l’amore forte di una famiglia e di una
comunità di fede viva lo trasforma in avventura. Gli esempi sono innumerevoli.
Il problema è il male provocato dall’orgoglio umano. Ecco la grande sfida:
l’Amore non teme alcun male perché è molto più forte. Bisogna però ricordare
che il nostro idolo ottiene ogni sacrificio, anche quello della vita,
altrimenti si rimane, sì, nella retorica di un amore che vince la morte, ma
soltanto perché è una bella frase.
Dio scommette con Satana che Giobbe gli sarà fedele anche
senza tornaconto terreno. E Giobbe – senza saperlo! – gli fa vincere la
scommessa. Noi ne sappiamo di più: Gesù si è giocato non soltanto la vita
fisica, ma l’onore, la stima, la fama, subendo un’ingiustizia suprema che
comprende tutte le ingiustizie del mondo[18],
facendo vincere al Padre la scommessa sulla vittoria dell’Amore. Tutto è nato
dall’Amore: Dio è amore! Tutto si ritrova in libertà, in gioia, in bellezza,
nell’Amore; costi quel che costi. È questa la grande sfida che proviene dal
cielo. La Modernità ha puntato tutto sulla capacità della ragione di far felici
gli uomini. Era un’illusione. È fallita proprio nel rapporto di amore tra gli
uomini. Il nuovo millennio nasce già vaccinato su tante illusioni della ragione
umana e sulla necessaria deriva di disperazione, egoismo, pansessualismo,
eccetera, come sostitutivi per la mancata felicità. Ma non è detto che il nuovo
millennio accetterà la grande sfida dell’amore, della relazionalità
significativa, della persona che si definisce insieme nella libertà e
nell’amore. I cristiani hanno la grande responsabilità di testimoniare l’Amore
con una vita che si santifica e propone legami fraterni visibili sconosciuti al
mondo. Se per i cristiani il secondo millennio ha visto crescere la fede
eucaristica, la coscienza della presenza di Cristo nel dono sacramentale e
liturgico, il nuovo millennio dovrà aprirsi visibilmente a riconoscere la
presenza di Cristo nel fratello. Abbattendo ogni giudizio sulla persona, ogni
steccato di razza, di cultura, di religione, di ricchezza economica, e
incominciando a fare tutto ciò con i vicini.
La rinascita cristiana nel battesimo è innanzitutto una
nascita all’Amore, per una vita terrena di profonda comprensione. Il mondo
dovrà vedere che si può rinascere per la
comprensione e che l’Amore è più forte di ciò che divide, più forte di ogni
egoismo, più forte, cioè, di ogni paura.
INDICE
Capitolo i.- UN PROBLEMA ABISSALE DI AMORE .................................................. 7
Vera o presunta libertà....................................................................................................... 16
Capitolo ii.- perchÉ
gesÙ È l’unico salvatore del mondo ................... 21
Postilla sull’esistenza di Dio............................................................................................... 30
Capitolo
iii.-la necessità della chiesa ......................................................... 33
[1] E. ROJAS, Remedios para el desamor. Temas de hoy, Madrid 1990, p. 67.
[2] Chi volesse approfondire tutta la tematica può leggere U. BORGHELLO, Liberare l’Amore. La comune idolatria, l’angoscia in agguato, la salvezza cristiana. Presentazione di B. Forte, Edizioni Ares, Milano 19973, dove si mostra come il tema profondamente esistenziale dell’amore è comune a tutti gli uomini e illumina i compiti non soltanto della psicologia e della filosofia, ma anche della teologia, in tante sue ramificazioni, offrendo la possibilità di una rilettura del Vangelo più vicina alla sensibilità dell’uomo del duemila.
[3] L’idolatria si dà di fatto in tutti, in quanto abbiamo bisogno di salvezza. Ma anche razionalmente alcuni atei sono portati a negare Dio ricorrendo ad altri valori assolutizzati. Feuerbach, per esempio, che ha convinto Marx e milioni di persone sostenendo che Dio è una proiezione dell’uomo che soffre verso una immagine perfetta di sé stesso, in realtà non ha tolto il problema dell’assoluto e di Dio, lo ha solo spostato sull’uomo generico, che non esiste, quello che un giorno si riapproprierà della propria perfezione, lasciando l’uomo vero, quello che esiste, senza una speranza vera, in cambio di una speranza basata sul nulla. Tutti gli atei più agguerriti hanno sempre commesso l’errore di spostare l’assoluto su parti del reale.
[4] Come diceva un acuto osservatore, la decadenza è come pulci che vivono nella pelliccia del leone; e si agitano dicendosi tra loro: a cosa serviranno mai i leoni? Ragazzi che hanno ottenuto una dignità meravigliosa attraverso la crescita della famiglia monogamica e indissolubile, in un amore umano che ha uno spessore divino, si dicono tra loro «a che servirà sposarsi in Chiesa?», togliendo Dio dai loro rapporti di amore, senza accorgersi che si autodistruggono.
[5] Chi volesse capire meglio le sorti dell’amore umano nei giovani e nella famiglia, con i problemi che pone all’amore umano il diverso condizionamento idolatrico per muoversi con qualche chance in più di buona riuscita nel matrimonio, può leggere U. BORGHELLO, Le crisi dell’amore. Prevenire e curare i disagi familiari. Edizioni Ares, Milano 20002.
[6] Si può notare, tra l’altro, che queste parole di Gesù nessun uomo può pronunziarle e neppure immaginarle, specie se è ebreo (del resto le affermazioni di Gesù che nessun uomo saggio potrebbe pronunziare sono moltissime). Nessun santo e nessun uomo saggio nel mondo ha mai lontanamente pensato di porsi come salvezza di altri. Eppure, come diciamo nel testo, sono le parole più vicine ai bisogni del cuore umano: corrispondono perfettamente a ciò che più si cerca, e in ballo c’è tutta la vita. Ora, se mangiando un frutto esotico vedo che ha un picciolo, posso dedurre che c’è una pianta che lo ha prodotto. Non essendo una foto, una parola, ma un frutto che mi sfama, non ho alcun dubbio sulla sua provenienza, anche se non ho la minima idea di come sia fatto l’albero. Se qui siamo di fronte alle parole di cui posso pascermi a mia salvezza e so che nessun uomo può pronunciarle, ho una «prova» fortissima dell’esistenza di Dio e della divinità di Cristo.
[7] Per capire bene che cosa significhi la legge scritta nel cuore è opportuno capire come l’idolo ammaestra il cuore e lo rende «libero» di fare tutto ciò che è necessario per avere successo. Una ragazza che si innamora è «ammaestrata», non c’è bisogno di ammonirla a fare ciò che è necessario per un fidanzamento. Un uomo per il suo lavoro, per i sacrifici necessari e le attenzioni minute «è ammaestrato». E così una madre che genera un figlio; fa tante cose, anche con sacrificio, con piena libertà e senza ammonimenti. I gruppi di coetanei «ammaestrano» immediatamente i giovani, che sanno in pochi giorni come comportarsi secondo il codice simbolico del gruppo. E ciò che avviene con idoli dal contenuto positivo accade anche con idoli perversi, e ciò spiega la durezza di tanti uomini, la crudezza delle guerre, la spietatezza della criminalità. A ben capire ciò, in controluce, si intravede la grandezza di una vita autenticamente cristiana, che rende liberi e «ammaestra» al vero amore, per il bene di tutti. Non per nulla la più importante profezia dell’Antico Testamento, che promette una Nuova Alleanza dice: «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri (…) perché tutti mi conosceranno» (Ger 31, 33-34). Gesù riprende questa profezia: «Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno ammaestrati da Dio”». Lo Spirito Santo «ammaestra», muove con libertà all’amore.
[8] Questo paragrafo è piuttosto nuovo rispetto alla catechesi abituale, ma è di grande rilevanza per capire la risposta salvifica di Cristo all’abisso del disagio umano. Chi volesse capire meglio può consultare il già citato Liberare l’Amore.
[9] Come dimostra bene Ratzinger, c’è un disegno teologico nella morte di Cristo. I capi, il popolo d’Israele, non sono più colpevoli degli altri uomini. Occorre capire sia il portato universale della Redenzione, con un rapporto con tutti i popoli, che i labirinti del cuore umano, il suo capovolgimento nel peccato e la via percorsa da Cristo. Cfr J. RATZINGER, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, San Paolo, Milano 2000.
[10] Un racconto vero della persecuzione in Cina mette in risalto il valore di questa fede personalissima: quando, nei primi anni cinquanta, i comunisti andarono al potere in Cina, un giovane professore universitario cattolico fu messo in carcere perché non voleva denunciare il suo vescovo come nemico della patria. Prima di mandarlo in un lager gli fecero vedere la moglie nella speranza che lo convincesse a firmare la denuncia contro il vescovo. Ma la moglie con un sussurro gli disse: «Grazie per aver scelto così!». I suoi occhi fieri gli trasmisero il coraggio di sostenere la sua decisione. Due anni dopo lo spedirono a casa con la speranza che aderisse alla «chiesa patriottica». Potè vedere il quinto figlio e concepire il sesto, appena in tempo per essere rispedito nel lager, dato il suo diniego. Anche in questa occasione la moglie lo sostenne: «Fidiamoci di Dio. A noi tocca vivere intensamente l’esistenza che ci è concessa». Nel 1970, in un giorno di primavera, venne chiamato in infermeria dall’altoparlante. Gli fecero una iniezione. Non fu più lui. Incominciò a deperire vistosamente. Chiese di vedere per l’ultima volta sua moglie, che lo trovò in fin di vita. Quanta fatica per non piangere; raccolse tutte le forze: «So che sto per tornare alla casa di Colui che mi ha fatto felice fin qui. Sto morendo, Teresa, e vorrei tanto resistere ancora qualche giorno; vorrei incontrare il nostro Dio il Venerdì santo. È sempre stato un giorno molto importante per me: la memoria del buon Dio che non ha trovato di meglio che donarmi persino suo Figlio, perché capissi quanto gli sono caro. Ai nostri figli porta la gioia che provo per loro. Sono grato di questa vita, sono grato di tutto quello che ho ricevuto. Sono soprattutto grato di aver saputo che Gesù è morto per me, e di averlo amato. Ne è valsa la pena». Morì nel primo pomeriggio del Venerdì santo di quell’anno. Teresa apprese la notizia un mese dopo. Ma già lo sapeva.
[11] Molti considerano ancora la santa messa domenicale alla stregua di un precetto e invocano la libertà e l’autenticità come motivi per disertarla, specie tra i giovani. Non capiscono che il precetto è un portato dell’amore sponsale: nessun ragazzo ha mai lasciato attendere invano la sua fidanzata invocando la libertà di stare con amici; sa benissimo che se non andasse a un appuntamento dove è atteso, metterebbe in croce l’altra persona e diventerebbe inaffidabile e incapace di matrimonio, perché nessuno potrebbe mai sapere quando si può contare su di lui. Ugualmente un ragazzo non rimane fuori tutta la notte senza aver avvertito i genitori, altrimenti li metterebbe in croce; sa che lo cercherebbero in tutti gli ospedali o commissariati della zona. Saltare la messa domenicale è molto più grave di così. Gesù vale di più dei genitori che attendono il rientro serale o di una fidanzata che va all’appuntamento: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me» (Mt 10, 37). Vale di più e richiede molto di meno. Chi non va a messa mette in croce Gesù. Tutto appare chiaro quando la fede è viva: credo in Dio che mi ama e manda il Figlio a morire per me! Credo che Gesù mi attende, insieme ai fratelli, la domenica alla celebrazione liturgica comune, a meno che non sia impedito da malattia o da causa grave. Se si capisce che è un appuntamento di amore, sarà pure facile capire che non basta limitarsi ad andare a messa la domenica. Si può dire che la fede ha effetto nella vita quando il cristiano vive fedelmente qualche altro appuntamento con Gesù, specialmente di meditazione personale. Altrimenti si rimane nel mero dovere senza amore.
[12] In modo particolare nelle note 3 e 6. Si può vedere anche la nota 14.
[13] L’esaltazione delle forme e delle essenze ha portato alla filosofia razionalista, molto astratta, soprattutto da Cartesio in poi. Contro questa filosofia si sono dati rovesciamenti vitalistici o meramente funzionali, antiformali, antimetafisici. La forma e l’essenza non sono tutto. Il reale è immensamente più ricco. Solo la scoperta del fondamento filosofico usato da san Tommaso, l’atto di essere, ha dato spazio per una rinascita della metafisica, ma ancora pochi se ne sono accorti. L’atto di essere non è irrazionale, perché fonda la verità e la razionalità di tutto. La verità, per esempio, prima che dell’essenza è un trascendentale dell’essere. Le cinque prove dell’esistenza di Dio, dateci da san Tommaso, acquistano una particolare forza sulla base della metafisica dell’atto di essere. L’essere come atto non è l’esistenza, e neppure è da confondersi con il reale, e neppure con l’esse comune. È ciò che pone tutto nella sua perfezione, ciò che attua con perfezione diversa le realtà diverse, mentre l’esistenza si dice nello stesso modo per tutto ciò che esiste. Non è facile pensare all’atto, e difatti l’essere come atto è ineffabile. Tanto più ineffabile è Dio, atto puro. Oltre all’atto di essere, le forme sostanziali hanno la loro consistenza fondamentale. Senza entrare nella metafisica, rimanendo a livello scientifico, ogni fenomeno materiale si dà nell’àmbito della formalità delle leggi della dinamica, e queste leggi non conoscono evoluzione. L’evoluzione pertanto non può spiegare tutto. Antonino Zichichi riesce a far vedere come tali leggi sono universalissime; le definisce come il linguaggio di Dio per decifrare la creazione. Ma, in modo più concreto, si può vedere che un ragazzo scopre di avere i baffi intorno ai quindici anni, ma è chiaro che fin dal concepimento c’era una formalità nascosta, che per emergere ha atteso l’evolversi della complessità molecolare.
[14] Sentendo parlare di legami forti si può temere il fondamentalismo. Ma, oltre a capire che il fondamentalismo si può dare soltanto se si mette l’assoluto su verità sbagliate, lo si supera in radice quando l’assoluto è posto sull’amore, come nel vero cristianesimo. Luciano De Crescenzo, nel libro Così parlò Bellavista, dice che il mondo si divide tra platonici (assolutisti) ed epicurei (relativisti), scegliendo di stare con questi ultimi. Si teme, giustamente, che il fanatismo di una ideologia assolutizzi una parte astratta di verità, come è successo con il nazismo e il fascismo e come vediamo in alcune frange islamiche, ma anche in tante teorie e in tante sette. Di fatto però, l’uomo non può vivere senza credere e senza proiettarsi verso un fine più grande di lui, verso un futuro con speranza vera. Un assoluto ce l’ha sempre. Anche coloro che predicano la tolleranza come valore principe diventano intolleranti verso coloro che hanno credo diversi. La tolleranza è molto importante, ma non è l’assoluto; tra l’altro perché educa i giovani all’indifferenza dei valori, dato che non potremmo impegnarci a trasmettere valori senza venir meno alla tolleranza come assoluto. Il problema non si risolve escludendo tutti gli assoluti, bensì mettendo l’assoluto là dove va messo, e cioè nell’amore. Soltanto l’amore, se assolutizzato, non diventa intollerante, perché la tolleranza è una delle virtù dell’amore. Anche questa è una prova praticamente inconfutabile dell’esistenza di Dio. Soltanto l’amore infinito di Dio colma le inquietudini di assoluto che l’uomo ha dentro di sé, come ha ben sintetizzato sant’Agostino nelle Confessioni: «Ci hai fatto o Signore per te, e inquieto è il nostro cuore fin che non riposa in te».
[15] Come ho studiato a lungo nel libro Liberare l’Amore, anche tra i cattolici si annida profondamente l’idolatria, la ricerca di consenso non in Cristo ma nel gruppo. A questo livello i gruppi cattolici hanno di buono soltanto il fatto che oggettivamente percorrono un cammino positivo e che una eventuale conversione è notevolmente favorita dal fatto che non c’è da cambiare strada e gruppo. Non è per nulla facile convertirsi intellettualmente e intraprendere un percorso da soli, lasciando alle spalle i vecchi amici con il loro consenso fuori posto. Quanti giovani abbandonano la fede perché di fatto si sono trovati coinvolti con amici non praticanti! Molti non si convertono proprio perché è il loro cuore a impedirlo, intuendo immediatamente che dovrebbe subire la scomunica della «chiesa segreta». Un gruppo cattolico (dico «gruppo» ma voglio intendere la variegata gamma delle realtà ecclesiali) è comunque una strada positiva. Abbiamo intravisto come sia sempre un bene che la ricerca di consenso si assesti su realtà positive. In questo senso le religioni universali non cristiane offrono certamente molti valori positivi e una convivenza spesso pacifica.
[16] Si veda la nota 1.
[17] G. BIFFI, La sposa chiacchierata. Invito all’ecclesiocentrismo, Jaca Book, Milano 1998, p. 73.
[18] L’ingiustizia consiste nella differenza tra ciò che mi è dovuto e ciò che mi è dato; se merito un trenta in un esame e mi danno ventiquattro, mi sento trattato ingiustamente. A Gesù era dovuto ogni onore umane e divino ed è stato annoverato tra i malfattori, il peggiore di Israele. La distanza tra il dovuto e il dato definisce ogni ingiustizia.