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L’etica della vita: la ”lectio magistralis” di Angelo Bagnasco nel congresso di Scienza & Vita

L’etica  della  vita:  la  ”lectio  magistralis  di  Angelo  Bagnasco  nel  congresso  di  Scienza  &  Vita 

 

 

Roma,  18.11.2011 

 

Convegno  di  Scienza  e  Vita 

 

“Scienza  e  cura  della  vita:  educazione  alla  democrazia” 

 

Cardinale  Angelo  Bagnasco  Arcivescovo  di  Genova 

Presidente  della  Conferenza  Episcopale  Italiana 

 

Saluto  i  partecipanti  al  Convegno  sul  tema  “Scienza  e  cura  della  vita:  educazione  alla  democrazia”, e  ringrazio  l’Associazione  “Scienza  e  Vita”  per  questa  iniziativa  che  affronta  una  questione  quanto mai  delicata  e  ineludibile  non  solo  per  ogni  singola  persona,  ma  anche  per  la  società,  sapendo  che dalla  responsabilità  e  dai  modi  di  affronto  della  vita  nei  suoi  vari  momenti  si  ha  una  prima  e decisiva  misura  del  livello  umano  della  convivenza.  Siamo  tutti  consapevoli  della  delicatezza  dell’argomento  in  gioco,  così  come  delle  visioni  diverse  che  spesso  si  confrontano,  tanto  da  essere considerata    la  vita  umana    uno  di  quegli  argomenti  “divisivi”  di  cui  è  meglio  non  parlare,  come se  l’ordine  sociale,  basato  sulla  giustizia,  potesse  reggersi  sull’  ingiustizia  che  deriva  dal  non affrontare  ciò  che  fondamentale:    come  Chiesa  e  come  credenti    abbiamo  scritto  nel  Documento conclusivo  della  XLVI  Settimana  Sociale    siamo  chiamati  al  grande  compito  di  servire  il  bene comune  della  civitas  italiana  in  un  momento  di  grave  crisi  e  allo  stesso  di  memoria  dei  centocinquant’anni  di  storia  politicamente  unitaria”  (  Documento  conclusivo,  Reggio  Calabria ottobre  2010,  n.2).  E’  questo  lo  spirito  e  l’intendimento  dei  cattolici  consapevoli  che,  storicamente, “se  non  abbiamo  fatto  abbastanza  nel  mondo,  non  è  perché  siamo  cristiani,  ma  perché  non  lo  siamo abbastanza”  (CEI,  La  Chiesa  Italiana  e  le  prospettive  del  Paese,  1981, n.13).

 

Tutti  ci  rendiamo  conto  che  siamo  dentro  ad  una  crisi  internazionale  che  non  risparmia nessuno,  e  che  nessuno,  nel  mondo,  può  atteggiarsi  da  supponente  maestro  degli  altri.  I  grandi problemi  dell’economia  e  della  finanza,  del  lavoro  e  della  solidarietà,  della  pace  e  dell’uso sostenibile  della  natura,  attanagliano  pesantemente  persone,  famiglie  e  collettività,  specialmente  i giovani.  Su  questi  versanti,  che  declinano  la  cosiddetta  “etica  sociale”,  la  sensibilità  e  la  presenza della  Chiesa  sono  da  sempre  sotto  gli  occhi  di  tutti.  Fanno  parte  del  messaggio  cristiano  come inderogabile  conseguenza:  “Chi  non  ama  il  proprio  fratello  che  vede,  non  può  amare  Dio  che  non vede”  (1  Gv  4,20).  L’incalcolabile  rete  di  vicinanza  e  di  solidarietà  che  abbraccia  l’intero  territorio nazionale  grazie  ai  nostri  sacerdoti,  consacrati,  innumerevoli  volontari,  associazioni,  rappresenta una  mano  tesa  trasparente,  universalmente  nota:  è  quotidianamente  frequentata  da  un  crescente stuolo  di  fratelli  e  sorelle  in  difficoltà  che  ricevono  ascolto,  aiuto,  attenzione.  Ed  è  sempre  più  anche luogo  di  incontro  e  di  concreta  integrazione  tra  popoli,  religioni  e  culture.  Una  rete  che  si  avvale  di risorse  provvidenziali  e  di  quell’amore  gratuito  che  nessuna  legge  può  garantire  poiché  l’amore viene  dal  cuore  e  dall’Alto.

1.     E’  possibile  conoscere?

 

Ma  oggi  dobbiamo  puntare  la  nostra  attenzione  sulla  vita  umana  nella  sua  nudità:  è  evi-dente che  gli  aspetti  citati  fanno  parte  dell’esistenza  concreta  di  ogni  persona,  ma  essi  non  devono oscurare  la  vita  nei  momenti  della  sua  maggiore  fragilità  e  quindi  di  più  pericolosa  esposizione.  Per questo  credo  sia  inevitabile  allargare,  seppur  brevemente,  l’orizzonte  per  poter  meglio  affrontare  il tema  della  vita  umana  nella  sua  assoluta  indisponibilità  o,  se  si  vuole,  sacralità.  Per  poter  parlare  di qualcosa,  infatti,  bisogna  innanzitutto  chiederci  se  esiste  qualcosa  fuori  di  noi.  E,  se  esiste, possiamo  conoscerla?  Oppure  siamo  dentro  ad  una  realtà  unicamente  costruita  dal  soggetto pensante,  siamo  alle  prese  solo  con  le  nostre  opinioni  individuali,  senza  una  presa  diretta  sulla  realtà oggettiva?  E’  il  problema  antico  ma  non  scontato  della  conoscenza.  Come  rispondere?  Dando fiducia  al  mondo  e  all’uomo!  La  conoscenza,  infatti,  parte  da  un  atto  positivo,  di  fiducia:  fa  appello al  senso  comune,  all’esperienza  universale.  E’  più  naturale,  logico,  istintivo,  porre  questo  atto  di fiducia  oppure  sfiduciare  l’universo?  E’  dunque  un  atto  di  sintonia,  di  comunione  preriflessa  con  il 1mondo  il  punto  di  partenza  del  nostro  rapportarci  con  il  mondo,  non  il  rinchiuderci  nel  sospetto  e nel  dubbio  metodico  e  universale  che    forse  con  aria  di  profonda  intelligenza    accusa  di  fanatismo chi  affermi  che  la  verità  esiste  ed  è  conoscibile.  La  storia  umana  della  conoscenza    nonostante grovigli  a  volte  sofferti    corre  sostanzialmente  su  questo  filo  e  testimonia  che,  ogni  qualvolta  lo scetticismo  si  è  imposto,  gli  esiti  personali  e  sociali  non  sono  stati  più  felici. Il  figlio  di  questo  atteggiamento  è  lo  scetticismo  che  genera  inevitabilmente  quel  nulla  di significato  e  di  valore,  quello  svuotamento  della  vita  e  del  mondo  che  già  Nietzsche  aveva annunciato.  In  realtà  egli  lo  fa  derivare  dalla  dichiarata  “morte  di  Dio”,  ma  quando  la  ragione  viene cancellata  dall’  orizzonte,  anche  la  fede  si  indebolisce:  “Cerco  Dio!  cerco  Dio!  (…)  Dove  se  n’è andato  Dio?    gridò    ve  lo  voglio  dire!  Siamo  stati  noi  ad  ucciderlo:  voi  e  io!  Siamo  noi  tutti  i  suoi assassini!  Ma  come  abbiamo  fatto?  Come  potemmo  vuotare  il  mare  bevendolo  fino  all’ultima goccia?  Che  mai  facemmo  a  sciogliere  questa  terra  dalla  catena  del  suo  sole?  Dov’è  che  si  muove ora?  Dov’è  che  ci  muoviamo  noi?  Via  da  tutti  i  soli?  Non  è  il  nostro  un  eterno  precipitare?  E all’indietro,  di  fianco,  in  avanti,  da  tutti  i  lati?  Esiste  ancora  un  alto  e  un  basso?  Non  stiamo  forse vagando  come  attraverso  un  infinito  nulla?”  (Nietzsche,  La  gaia  scienza,  Mondadori  1971,  pagg. 125-126).  Il  nichilismo  di  senso  e  di  valori  nasce  da  una  visione  materialista  dell’uomo  e  del mondo,  e  si  alimenta  allo  spettro  ridente  del  consumismo  che  porta  a  concepire  l’esistenza  come una  spasmodica  spremitura  di  soddisfazioni  e  godimenti  fino  all’estremo.  Ma  ben  presto    lo vediamo  nella  cronaca    ne  deriva  una  immane  svalutazione  della  vita.  Essa  non  è  più  custodita  dal sigillo  della  sacralità,  e  così  quando  non  è  più  gradita  o  risulta  faticosa,  la  si  vorrebbe  eliminare.  “Si va  costituendo    dice  Benedetto  XVI    una  dittatura  del  relativismo  che  non  riconosce  nulla  come definitivo  e  che  lascia  come  ultima  misura  solo  il  proprio  io  e  le  sue  voglie.  Questa  ideologia  è divenuta  un  modo  di  vivere,  una  prassi,  che  troviamo  presente  in  molti  ambiti  e  che  ha  diversi  volti” (J.  Ratzinger,  Omelia  della  Messa  Pro  eligendo  Pontifice,  18.4.2005).

2.     Cos’è  la  verità?

 

“Cos’è  la  verità?”  chiedeva  Pilato  a  Gesù  prigioniero  davanti  a  lui.  E’  una  domanda  sem-pre attuale  che  richiede  una  risposta  seria  e  motivata.  Per  aiutarci  con  un  esempio,  possiamo  dire  che  la verità  della  cappella  Sistina  consiste  nella  sua  corrispondenza  con  l’idea  di  Michelangelo:  in  questo caso,  la  Sistina  dipende  dal  pensiero  di  chi  l’ha  ideata.  Ma  la  verità  della  mia  idea  dell’aula  in  cui siamo  consiste  nella  corrispondenza  della  mia  idea  con  ciò  che  è  oggettivamente  davanti  a  me:  in altre  parole  è  il  mio  pensiero  che  dipende  dall’oggetto  conosciuto.  La  tradizione  culturale  parla  di verità  ontologica  nel  primo  caso,  e  di  verità  logica  nel  secondo.  E’  vero  che  nella  conoscenza  logica il  soggetto  entra  in  gioco  con  la  sua  soggettività,  ma  mai  a  tal  punto  da  falsare  la  realtà  stessa;  infatti ognuno  di  noi  si  ribella  quando  si  sente  conosciuto  da  un  altro  in  modo  distorto. Ora,  se  dal  piano  teoretico  passiamo  al  piano  pratico  dell’agire,  ci  chiediamo:  nella  conoscenza dei  valori  morali  in  quale  campo  siamo?  Ontologico,  per  cui  siamo  noi,  come  Michelangelo,  a creare  qualcosa?  oppure  in  quello  logico  per  cui  noi  dobbiamo  piegarci  alla  realtà  di  qualcosa  che  ci precede  e  che  non  ammette  distorsioni?  Oggi  si  tende  a  pensare  che,  sul  piano  dell’etica,  ognuno  è costruttore  di  ciò  che  per  lui,  soggettivamente,  ha  importanza  e  significato;  che  il  nostro  compito  è quello  di  comporre  i  diversi,  a  volte  opposti,  valori;  che  l’importante    quando  va  bene    è disturbare  gli  altri  il  meno  possibile.  Ma  non  esiste  qualcosa  a  cui  l’uomo  possa  rifarsi  nella  sua conoscenza  e  quindi  adeguarsi  raggiungendo  così  la  verità?  E’  fuori  dubbio  che  non  pochi  di  quelli che  chiamiamo  valori  appartengono  alla  sfera  della  soggettività  individuale  e  sociale,  basta  pensare al  modo  di  vestire,  di  nutrirsi,  a  tante  convenzioni  che  hanno  un  peso  nella  convivenza,  hanno  una importanza,  ma  sono  destinati  nel  tempo  a  mutare.  Ma  è  tutto  solo  così?  Non  esiste  nulla  di oggettivo  in  grado  di  essere  metro  della  verità  morale?  Che  possa  regolare,  normare  i  miei comportamenti?  Qualcosa  che  sia  talmente  fondamentale  per  l’uomo  da  essere  universale,  cioè  per tutti?  Di  solito,  fino  ad  un  certo  punto  di  questo  ragionare  tutti  si  è  concordi,  ma  quando  entra  in gioco  la  questione  del  “valido  per  tutti”,  allora  si  accende  una  spia  e  sorge  in  noi  una  trincea difen-siva  quasi  si  sentisse  in  pericolo  la  propria  libertà  individuale,  che  si  esprime  nell’ auto-determinazione.

3.     La  libertà  e  l’autodeterminazione

 

Entra  sulla  scena,  dunque,  la  libertà  nervo  sensibile  dell’anima  moderna.  Mi  pare  inte-ressante ricordare  quanto  affermava  Hegel  nella  sua  Enciclopedia  delle  scienze  filosofiche:  “La  libertà  è l’essenza  propria  dello  spirito  e  cioè  la  sua  stessa  realtà.  Intere  parti  del  mondo,  l’Africa  e  l’Oriente, non  hanno  mai  avuto  questa  idea  (…)  i  Greci  e  i  Romani,  Platone  e  Aristotele  (…)  non  l’hanno avuta:  essi  sapevano  che  l’uomo  è  realmente  libero  in  forza  della  nascita  (come  cittadino  ateniese, spartano,  ecc.);  o  della  forza  del  carattere  o  della  cultura,  in  forza  della  filosofia.  Quest’idea  è venuta  nel  mondo  per  opera  del  cristi-anesimo,  ed  essendo  oggetto  e  scopo  dell’amore  di  Dio, l’uomo  è  destinato  ad  avere  rela-zione  assoluta  con  Dio  come  spirito,  e  far    che  questo  spirito dimori  in  lui.  cioè  l’uomo  è  destinato  in    alla  somma  libertà”  (Hegel,  Enciclopedia  delle  scienze filosofiche,  Tr.  It.,  Laterza,  Bari  1951,  pp.  442-443).  Del  resto  è  noto  che,  prima  del  Cristianesimo, si  concepiva  come  superiori  all’uomo  le  grandi  potenze  del  Fato,  della  Natura,  della  Storia;  ed  egli doveva  obbedire  a  queste  forze. Ora,  se  l’uomo  è  libero  per  dono  di  Dio,  ed  egli  si  realizza  attraverso  l’esercizio  della  propria  libertà (in  actu  exercito),  bisogna  chiederci  se  qualunque  forma  di  esercizio  realizza  la  persona  oppure  no. A  ben  vedere,  come  qualunque  agire  non  si  qualifica  da    ma  è  qualificato  da  ciò  verso  cui  tende  -  camminare  per  fare  una  passeggiata  non  è  lo  stesso  che  camminare  per  andare  a  fare  una  rapina    così  la  libertà,  se  per  un  verso  è  valore  in  se  stesso  in  quanto  è  condizione  di  responsabilità,  per altro  verso  non  è  la  sorgente  della  bontà  morale.  La  libertà  è  qualificata  dal  contenuto  che  scelgo liberamente,  e  sta  ad  esso  come  il  contenitore  sta  al  suo  contenuto.  Il  fatto  che  un  atto  sia  una  mia scelta  non  qualifica  l’agire  come  buono,  vero,  giusto.  Inoltre,  non  bisogna  dimenticare  che  la  bontà e  il  male  morale  non  sono  astrazioni  lontane  alle  quali  sacrificare  gli  uomini  nei  loro  desideri individuali;  il  bene  è  tale  perché  mi  fa  crescere  come  persona  mentre  il  male  mi  diminuisce  nella mia  umanità.  E  se  le  persone  crescono  nel  loro  essere  persone,  la  società  intera  cresce  dato  per acquisito  che  tra  l’individuo  e  la  collettività  vi  è  un  rapporto  reciproco.  Oggi  la  tendenza  diffusa  è rendere  la  libertà  individuale  un  valore  assoluto,  sciolto  non  solo  da  vincoli  e  norme  ma  anche indipendente  dalla  verità  di  ciò  che  sceglie;  in  tale  modo  però  essa  si  rivolta  contro  l’uomo  e  perde se  stessa,  diventa  prigioniera  di  se  stessa  come  ogni  personalità  narcisista.  Ecco  perché  il  Signore Gesù  ricorda  che  la  verità  libera  la  libertà  e  rende  libero  l’uomo.  Oggi  vi  è  una  certa  allergia  per  ciò che  si  presenta  come  assoluto,  cioè  oggettivo,  universale  e  definitivo:  sembra  di  sentirsi  co-me  in una  gabbia  insopportabile.  Ma,  dobbiamo  chiederci,  qual’  è  la  vera  prigione:  l’assolutismo  di  una libertà  individualista  o  l’assolutezza  della  verità?

4.     Partecipazione  dei  cattolici  alla  civica

 

Ma  torniamo  alla  domanda:  esiste  qualcosa  con  la  quale  la  nostra  libertà  deve  rapportarsi come  ciò  che  la  precede  nel  valore  e  la  qualifica  moralmente?  Qualcosa  che,  conosciuto  dalla  nostra ragione,  permetta  di  superare  l’angusto  cerchio  dell’opinione  e  di  camminare  liberi  nella  verità oggettiva  per  tutti  e  per  sempre?  Verità  che  dia  senso  al  vivere  e  alla  storia,  alla  persona  e  alla società?  Risuonano  sempre  attuali  le  parole  di  Schopenauer  quando  parlava  della  “naturale disposizione  metafisica  dell’uomo”,  quella  disposizione  universale  che  spinge  ciascuno  a  suo  modo a  cercare  una  risposta  alla  più  tremenda  e  fondamentale  delle  domande:  “Per  quale  motivo  esiste qualcosa  piuttosto  che  il  nulla  se  nulla  ha  necessità  di  esistere?”.  Una  verità,  dicevo,  che  crei appartenenza  e  generi  una  comunità  di  vita  e  di  destino?  Oppure  non  esiste  altro  che  vari,  piccoli  e brevi  significati,  relativi  alla  riuscita  nella  vita,  al  piacere,  alle  voglie,  alle  emozioni,  alla  fortuna? Ogni  anno  in  Europa  muoiono  circa  50.000  persone  per  suicidio,  e  in  una  quindicina  di  Paesi europei  la  più  alta  percentuale  di  morte  dei  giovani  è  costituita  dal  suicidio!  Se  tutto  è  relativo, merita  ancora  vivere  quando  la  vita  mostra  le  sue  durezze?   La  Chiesa,  inviata  dal  suo  Signore  come  sale  della  terra  e  luce  del  mondo,  svolge  la  sua missione  evangelizzatrice  in  molti  modi,  con  la  Parola,  i  Sacramenti  e  il  servizio  della  carità.  Fa parte  del  suo  servire  il  mondo  l’essere  con  umiltà  e  amore  coscienza  critica  e  sistematica  della storia:  non  è  arroganza,  ingerenza  o  intransigenza,  ma  fedeltà  a  Dio  e  agli  uomini.  E’  portare  il  suo contributo  alla  costruzione  della  civitas  terrena.  Per  questo  non  c’è  da  temere  per  la  laicità  dello Stato,  infatti  il  principio  di  laicità  inteso  come  “autonomia  della  sfera  civile  e  politica  da  quella religiosa  ed  ecclesiastica    ma  non  da  quella  morale    è  un  valore  acquisito  e  riconosciuto  dalla Chiesa  e  appartiene  al  patrimonio  di  civiltà  che  è  stato  raggiunto  (…)  La  laicità,  infatti,  indica  in primo  luogo  l’atteggiamento  di  chi  rispetta  le  verità  che  scaturiscono  dalla  conoscenza  naturale dell’uomo  che  vive  in  società,  anche  se  tali  verità  sono  nello  stesso  tempo  inse-gnate  da  una religione  specifica,  poiché  la  verità  è  una”  (Congregazione  per  la  Dottrina  della  Fede,  Nota dottrinale  circa  alcune  questioni  riguardanti  l’impegno  e  il  comportamento  dei  cattolici  nella  vita politica,  24.11.2002,  n.  6). E’  dunque  giusto  riconoscere  la  rilevanza  pubblica  delle  fedi  religiose:  però  se  il  semplice riconoscimento  è  già  un  valore  auspicabile  e  dovuto,  dall’altro  è  fortemente  insufficiente  in  ordine alla  costruzione  del  bene  comune  e  allo  stesso  concetto  di  vera  laicità.  Potremmo  dire  che  è  come una  cornice  di  apprezzabile  valore  ma  che  deve  essere  riempita  di  contenuti.  Fuori  dall’immagine, la  laicità  positiva  non  può  ridursi  a  rispetto  e  a  procedure  corrette,  ma  deve  misurarsi  con  l’uomo, per  ciò  che  è  in  se  stesso  universalmente,  cioè  con  la  sua  natura.  E’  questa    la  sua  conoscenza integrale  e  il  suo  rispetto  plenario    che  invera  le  diverse  culture  e  ne  misura  la  bontà  o,  se  si  vuole il  livello  intrinseco  di  umanesimo.  A  questo  livello  primario  si  colloca  il  doveroso  apporto  dei cristiani  come  cittadini,  consapevoli  che  le  principali  virtù  di  chiunque  si  dedichi  al  servizio  della città  è  la  competenza  e  il  merito:  questo  è  l’insieme  di  onestà,  spirito  di  sacrificio  e  stile  sobrio.  Essi offrono  il  loro  contributo  senza  per  questo  dover  mettere  tra  parentesi  la  propria  coscienza  formata dalla  Dottrina  Sociale  della  Chiesa,  dal  Magistero  autentico  e  da  una  solida  vita  spirituale  nella comunità  ecclesiale,  ricordando  che  la  coscienza  è  l’eco  della  voce  di  Dio    come  affermava  il beato  Newman    ed  deve  essere  sempre  attenta  perché  le  opinioni,  le  ideologie,  gli  interessi  o  le abitudini,  non  oscurino  quella  suprema  voce  che  indica  la  via  della  verità  e  del  bene.  Il  ministero  di Pietro,  che  è  servizio  di  verità  e  di  carità,  è  posto  da  Cristo  Gesù  perché  la  coscienza  non  si smarrisca  tra  gli  innumerevoli  rumori  del  mondo.

Umanesimo  e  umanesimi 

Se,  come  ha  affermato  il  Santo  Padre  Benedetto  XVI,  “la  questione  sociale  è  diventata radicalmente  questione  antropologica”  (Benedetto  XVI,  Caritas  in  veritate,  75),  allora  i  cattolici  non  possono  tacere  circa  la  concezione  dell’uomo  che  fonda  l’umanesimo  integrale.  Non  tutti  gli umanesimi,  infatti,  sono  equivalenti  sotto  il  profilo  morale;  da  umanesimi  differenti  discendono conseguenze  opposte  per  la  convivenza  civile.  Se  si  concepisce  l’uomo  in  modo  individualistico, come  oggi  si  tende,  come  si  potrà  costruire  una  società  aperta  e  solidale  dove  si  chiede  il  dono  e  il sacrificio  di  sé?  E  se  lo  si  concepisce  in  modo  materialistico,  chiuso  alla  trascendenza  e  centrato  su se  stesso,  un  “sasso”  che  rotola  nello  spazio,  come  riconoscerlo  non  come  “qualcosa”  tra  altre  cose, ma  come  “qualcuno”  che  è  qualitativamente  diverso  dal  resto  della  natura?  L’uomo  si  auto trascende nel  senso  che  è  sempre  più  di  se  stesso,  tende  ad  andare  oltre  di    per  essere  sé,  già  e  non   ancora, finito  e  desiderio  di  infinità,  tempo  ma  con  la  scintilla  di  eterno:  è  la  creatura  di  confine  fra  cielo  e terra,  umano  ma  chiamato  all’intimità  con  Dio.  Individuo  ma  non  individualista,  uni-co  ma  non chiuso,  soggetto  aperto  al  mondo  e  agli  altri  in  virtù  dell’istinto  di  comunione  nella  verità  e nell’amore.    Il  mondo  moderno    scriveva  J.  Maritain    confonde  semplicemente  due  cose  che  la sapienza  antica  aveva  distinte:  confonde  l’individualità  e  la  personalità”  (  J.  Maritain,  Tre riformatori,  Brescia  1964,  26).

Purtroppo,  segnali  inquietanti  di  questa  tragica  confusione  non  mancano.  Su  che  cosa,  allora, si  potrà  poggiare  la  sua  dignità  inviolabile,  e  quale  il  fondamento  oggettivo  e  perenne  dell’ordine morale?  Era  questa  la  domanda  che  il  Santo  Padre  Benedetto  XVI  poneva  nel  viaggio  apostolico  nel

Regno  Unito  e  anche in  Germania. 

E  sta  proprio  qui  il  punto  di  incontro  e  d’intesa  di  ogni  dialogo civile  e  politico,  sta  qui  il  giudizio  di  verità  su  ogni  società,  cultura  e  religione:  “La  Chiesa  cattolica è  convinta  di  conoscere,  attraverso  la  sua  fede,  la  verità  sull’uomo  e  quindi  di  avere  il  dovere  di intervenire  in  favore  che  sono  validi  per  l’uomo  in  quanto  tale  indipendentemente  dalle  varie culture.  Essa  distingue  fra  la  specificità  della  sua  fede  e  le  verità  della  ragione,  a  cui  la  fede  apre  gli occhi  e  alle  quali  l’uomo  in  quanto  uomo  può  accedere  anche  a  prescindere  da  questa  fede.  (…).  La Chiesa,  al  di    dell’ambito  della  sua  fede,  considera  suo  dovere  difendere,  nella  totalità  della  nostra società,  le  verità  e  i  valori,  nei  quali  è  in  gioco  la  dignità  dell’uomo  in  quanto  tale.  Quindi,  per  citare un  punto  particolarmente  importante,  non  abbiamo  diritto  di  giudicare  se  un  individuo  sia  ‘già persona’,  oppure  ‘ancora  persona’,  e  ancor  meno  ci  spetta  manipolare  l’uomo  e  voler,  per  così  dire, farlo.  Una  società  è  veramente  umana  soltanto  quando  protegge  senza  riserve  e  rispetta  la  dignità  di ogni  persona  dal  concepimento  fino  al  momento  della  sua  morte  naturale”  (Benedetto  XVI, Discorso  al  nuovo  Ambasciatore  tedesco,  Roma  7,11,2011).  Non  si  tratta  quindi  di  voler  imporre  la fede  e  i  valori  che  ne  scaturiscono  direttamente,  ma  solo  di  difendere  i  valori  costitutivi  dell’umano e  che  per  tutti  sono  intelligibili  come  verità  dell’esistenza.  Poiché  appartengono  al  DNA  della persona  non  possono  essere  conculcati,    parcellizzati  o  negoziati  attraverso  mediazioni  che,  pur con  buona  intenzione,  li  negano.  E’  questo  il  ceppo  vivo  e  solido  che  costituisce  l’etica  della  vita,  ed è  su  questo  ceppo  che  germogliano  tutti  gli  altri  necessari  valori  che  vengono  riassunto  con  etica sociale.  Tra  questi,  la  vita  umana,  dal  suo  concepimento  alla  sua  fine  naturale,  è  certamente  il primo.  La  coscienza  universale  ha  acquisito    e  sancito  almeno  nelle  carte    una  elevata  sensibilità verso  i  più  poveri  e  deboli  della  famiglia  umana.  Ma  ci  dobbiamo  chiedere:  chi  è  più  debole  e fragile,  più  povero,  di  coloro  che  neppure  hanno  voce  per  affermare  il  proprio  diritto,  e  che  spesso nemmeno  possono  opporre  il  proprio  volto?  …Vittime  invisibili  ma  reali!  E  chi  più  indifeso  di  chi non  ha  voce  perché  non  l’ha  ancora  o,  forse,  non  l’ha  più?  La  presa  in  carica  dei  più  poveri  e indifesi  esprime  il  grado  più  vero  di  civiltà  di  un  corpo  sociale  e  del  suo  ordinamento.  E  modella, educa,  l  forma  di  pensare  e  di  agire    il  costume-  di  un  popolo  e  di  una  Nazione,  il  suo  modo  di rapportarsi  al  suo  interno,  di  sostenere  le  diverse  situazioni  della  vita  adulta  sia  con  codici  strutturali adeguati,  sia  nel  segno  dell’attenzione  e  della  gratuità  personale. A  volte  si  evidenzia  che  un  conto  è  la  presa  in  carica,  il  prendersi  cura  della  vita  fragile  di  chi questo  vuole  e  comunque  ne  ha  diritto,  e  un  altro  sarebbe  la  volontà  diversa  di  chi  determina  un diverso  comportamento.  Torniamo  ad  un  punto  cruciale:  se  la  libertà  individuale  abbia  o  non  abbia qualcosa  di  più  alto  a  cui  riferirsi  e  a  cui  obbedire.  Abbiamo  visto  che  l’autodeterminazione  non crea  il  bene  e  il  male,  ma  ciò  che  è  scelto.  Ora  la  libertà  è  tenuta  a  fare  i  conti  con  la  natura  umana, con  il  suo  bene  oggettivo  poiché  per  questo  Dio  ce  l’ha  donata,  perché  costruissimo  noi  stessi  e  non per  andare  contro  noi  stessi.  Ma  anche  fuori  da  un’ottica  religiosa,  penso  si  possa  giungere  alla medesima  conclusione.  A  questo  punto  credo  che  le  questioni  siano  due.  Innanzitutto,  come  anche recita  la  nostra  Costituzione,  il  bene  della  salute  e  quindi  della  vita,  ma  dovremmo  dire  ogni  uomo, è  un  bene  non  solo  per    ma  anche  per  gli  altri;  e  questi  altri  non  sono  solamente  i  familiari  e  gli amici    che  purtroppo  a  volte  possono  non  esserci    ma  sono  la  società  nel  suo  insieme.  Qui  sta  una nota  dolente  a  cui  bisogna  sempre  più  reagire:  se  l’uomo  sta  scivolando  dalla  realtà  di  persona  a quella  di  individuo  assoluto  e  geloso  della  propria  assoluta  indipendenza  e  autonomia,  allora  la società  si  concepirà  come  una  massa  di  monadi  dove  ciascuno  si  arrangia  a  portare  la  vita,  nutrendo dei  diritti  verso  il  corpo  sociale  come  la  casa,  il  lavoro,  la  sicurezza…ma  lasciando  gli  altri  fuori  per tutto  il  resto.  Il  punto  non  è  far  entrare  la  società  nel  privato,  ma  si  tratta  di  ricuperare  la  natura relazionale  della  persona  sicché  la  società  possa  e  debba  concepirsi  e  strutturarsi  non  solo  come erogatrice  di  servizi,  ma  come  comunione  di  destino.  Cambia  totalmente  la  prospettiva.  Nessuno deve  sentirsi  solo  e  abbandonato  nella  società-comunioe,    nei  momenti  di  gioia    negli appuntamenti  del  dolore,  della  malattia  e  della  morte.  E  se  dietro  al  rispetto  di  ogni  volontà  ci  fosse il  desiderio  di  non  prendersi  in  carica,  poiché  il  prendersi  cura  richiede  intelligenza  e  cuore,  tempo e  sacrificio,  risorse  umane  e  economiche?  Una  cultura  siffatta  sarebbe  più  rispettosa  o  più  egoista, umana  o  violenta?  E  poi,  mi  sembra  esiste  un  secondo  nodo:  dobbiamo  recuperare  il  senso  del dolore  che  è  sistematicamente  emarginato,  nascosto  nella  sua  naturalità,  oppure  è  esorcizzato somministrandone  dosi  massicce  e  continuative  nel  tentativo  di  anestetizzare  la  sensibilità  della gente  e  renderla  quindi  impermeabile.  Due  modalità  diverse  ma  lo  scopo  è  identico:  far  morire  la morte.  La  cultura  contemporanea  deve  riconciliarsi  con  il  dolore  e  la  morte  se  vuole  riconciliarsi con  la  vita,  poiché  i  primi  fanno  parte  della  seconda.  E  quindi  dobbiamo  recuperare  la  capacità  di portarlo  insieme.  La  persona  sofferente  ha  paura  di  essere  sola,  abbandonata:  tutti  abbiamo sperimentato  quanto  una  persona  malata  cerchi  il  contatto  fisico  della  mano  dell’altro,  e  questo piccolo,  umanissimo  gesto  ha  il  potere  di  tranquillizzare  e  rasserenare.  E’  la  presenza,  la  compagnia d’amore  che  dobbiamo  riscoprire  non  solo  come  singoli  e  famiglie,  ma  come  società.  Ma  per  questo dobbiamo  rimettere  al  centro  la  relazione,  sull’esempio  di  Dio  che  in  Cristo  ci  ha  incontrato  nel nostro  dolore,  nelle  molte  fragilità  della  vita  e  nelle  stesse  gioie,  facendo  sentire  che  nessuno  è  solo, e  che  assolutamente  nessuno  sarà  da  Lui  abbandonato.  Grazie

 

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